martedì 19 dicembre 2006

Espansione della coscienza come meditazione

Secondo te che cos’è la coscienza?” Chiede Silvia.


“Questa è davvero una domanda importante. La coscienza è una potenzialità. Viene in essere quando ve ne sono le condizioni, cioè il corpo fisico e gli oggetti da essa percepiti. Senza un corpo fisico e gli oggetti da percepire, niente coscienza. Senza oggetti da percepire sia l’organo della coscienza che la coscienza stessa deperirebbero e scomparirebbero. E’ importante cogliere questo, capire che le cose dipendono dalle cose, che una cosa viene in essere solo quando ne esistono le condizioni” .


C’è stato, recentemente, uno spostamento della nostra attenzione meditativa su coscienza ed esperienza. Nulla di nuovo realmente, si tratta sempre di una forma di consapevolezza ma questo spostamento deriva dal crescere della nostra attenzione al problema del dualismo e anche a quello del suo superamento nella meditazione stessa.
“Quel testo che leggesti l’altra volta” (questo è Nicola che si riferisce ad una lettura tratta da La Meditazione Theravada ) “che parlava dell’esperienza di quella donna thailandese, mi ha lasciato perplesso. In effetti sembrava che lei si sforzasse tanto per conseguire qualcosa “.
“E’ vero. Penso anch’io così. C’era un dualismo fra lei e quello che faceva” .


A volte anche nelle esperienze meditative si ripropone questo dualismo. Non parliamo poi della preghiera, dove questo dualismo è del tutto evidente. L’unica meditazione che non sembra riproporre una forma duale tra soggetto e oggetto sembra essere quella della coscienza intesa come esperienza.

La coscienza (sanskrito vijñana , Pali viññana ) viene citata nei testi antichi come l’ultimo dei 10 kasina o “strumenti meditativi” , essendo preceduto da akasa kasina o “ strumento meditatvo dello Spazio” . In Anguttara Nikaya V, 60 viene detto : “Ci sono le dieci sfere dei kasina …Di queste la più elevata è Viññana. Ma anch’essa è impermanente” .

Come scritto più sopra, nell’evoluzione della nostra pratica ci si può accorgere che molto di quello che facciamo è dualistico. Si può scegliere di superare questo dualismo gradualmente (ad es. nelle cosìddette Residenze Infinite ) oppure istantaneamente (si tratta del vecchio dilemma fra divenire o essere su cui ritorneremo in seguito). Quale può essere una meditazione non dualistica? Può essere solo qualcosa che inglobi tutto, tutti gli stati fenomenici e mentali, e questo può essere solo la nostra stessa esperienza intesa come globalità. Cioè la coscienza espansa al massimo e l’adesione completa alla coscienza stessa; percezione e coscienza come stessa cosa.


In effetti questo non è in contraddizione con altri tipi di meditazione. Nella coscienza espansa le ‘cose’ vanno a disporsi qua e là nella spazialità della nostra percezione: è lo spazio, altro oggetto di meditazione antico. E’ anche meditazione Madhyamika. Si porta l’attenzione solo a sfiorare gli oggetti che percepiamo, senza soffermarci su di essi . Li sfioriamo gentilmente ma neghiamo loro la capacità di catturarci; è come ‘fare un passo indietro’ e vedere la globalità della nostra percezione. Poiché questi oggetti sono semplicemente la nostra esperienza espansa, la nostra coscienza, non vi è esperienza duale. Percezione e percezione della percezione sono un tutto unico. Un utile accorgimento e tuttavia c’è ancora, in questo, un residuo di dualismo. Ci sono gli oggetti che vengono percepiti dalla nostra facoltà percettiva e giudicati (non mi soffermo su di essi poiché ne verrei catturato) . C’è ancora la negazione di qualcosa. Ma se noi, dopo aver eseguito questa operazione, smettiamo di soffermarci anche sul non soffermarci (negazione della negazione), ogni dualismo cessa. Resta la sola esperienza globale, restiamo in contatto, perfettamente aderenti alla nostra esperienza, alle cose come sono.
Questa è meditazione Madhyamika: negazione e negazione della negazione.


Nonostante questa apparente negatività, la base di questo tipo di meditazione è l’ACCETTAZIONE. Si accetta qualsiasi cosa avvenga nella nostra esperienza perché appunto quella è l’esperienza. Se non si accettasse si creerebbe dualismo. Ci sarebbe qualcosa che respingiamo, un A e un B. Nell’accettazione invece tutto è unito: percezione, soggetto, oggetto. Questa meditazione della coscienza-esperienza è anche un modo per portare nella pratica un’esperienza che altrimenti sarebbe solo teoria: la realizzazione degli ayatana o sfere psico-sensoriali (gli organi sensoriali, ivi inclusa la base mentale o coscienza, e i loro oggetti di contatto (es. l’occhio ed un oggetto visibile) che tanta parte hanno nella comprensione saggia di ciò che è il reale: l’esistenza reciprocamente dipendente ed il sorgere in dipendenza di soggetto e oggetto.

In Mahj. Nikaya 43 si dice: “ Ognuna delle cinque facoltà sensoriali possiede una sfera differente e nessuna condivide la sfera di un’altra…; esse hanno per sostegno la mente (mano )… ; esse sono condizionate dalla vitalità… ; ma la vitalità, a sua volta, è condizionata dal calore… ; il calore, a sua volta, è condizionato dalla vitalità, così come la la luce e la fiamma di una lampada che brucia si condizionano reciprocamente” .

Queste sfere sensoriali, includenti gli organi sensoriali, i loro oggetti e le rispettive coscienze che sorgono dal loro contatto sono anche chiamati dhatu che viene tradotto come ‘elementi’ (gli elementi parzialmente fisici e parzialmente mentali del reale, in tutto 18 elementi) . Questa visione della realtà come formata da vari elementi dinamici si presenta come la visione impersonale del reale, una visione impersonale che fa capire come tutto sia vacuo (vacuità) in quanto impermanente e privo di un sé stabile: è come un macellaio che cominci a dissezionare una vacca: fino ad un certo punto egli avrà in sé il concetto mentale ‘vacca’ finché perderà questo concetto a favore delle singole parti che costituivano l’animale: spalla, coscia ecc. ; allo stesso modo la visione dei fenomeni o avvenimenti che ci capita di osservare qua e là nello spazio ci danno una visione dell’orizzonte degli eventi (come dicono i fisici di oggi) senza il concetto falso di ‘io’ e ‘mio’ . Le cose avvengono, punto. Condizionate da altre cose, punto.

Questa è la visione profonda, la visione che ha un Santo, uno svincolato, un liberato: che tutto sorge in dipendenza nel mondo, che non esiste niente che non sorga in dipendenza da.

PERDONO: è fuori moda?

Solo una persona libera può veramente perdonare /chiedere perdono.



Questo discorso può apparire “datato”, fuori moda. Al giorno d’oggi non si vuol sentire di queste cose da “perdenti”, l’ideologia dominante (incrementata dai films americani e dalla nostra TV berlusconiana) ha creato vergogna per queste forme di espressione del cuore. Bisogna essere “vincenti” e spietati ( o anche solo condiscendenti). E’ stata anche creata una parola apposita, “buonista” con cui si svergognano coloro che solo accennino alla comprensione, all’accettazione di realtà diverse dalle proprie.

Bisogna, dicevo, avere la libertà, o almeno un certo grado di libertà per poter perdonare o chiedere perdono. Bisogna avere il coraggio di lasciare andare il proprio “sé” o meglio l’idea fasulla di un sé stabile che ci siamo costruiti. Se non si ha questa visione profonda , la visione dell’inesistenza di un sé stabile, si potrà sì perdonare ma mantenendo il rancore. Come?! La nostra “personalità” è stata oltraggiata dall’altra persona, il nostro sé” così onnipotente è stato sfidato da qualcun altro, c’è un’umiliazione che non ci sentiamo di meritare! Ma se teniamo al rapporto con l’altra persona, possiamo renderci conto di non poterle addossare tutte le colpe (anche se lo vorremmo, anche se lo facciamo così volentieri). C’eravamo anche noi in questo rapporto e questa è un’insight che dovremmo coltivare: non esistono persone indipendenti, facciamo parte di rapporti, di connessioni , di esperienze di relazione in cui si danno sempre tre elementi: i due soggetti e la loro relazione; si potrebbe anzi dire che esiste solo la relazione, un rapporto di inter-essere dove domina la legge di causa-effetto e di condizionalità secondaria.

Ecco perché si dice che non esiste un sé in termini assoluti: il sé esiste ma solo in termini condizionati, condizionati da tutta una serie di fattori. Il Buddha ad es. durante la notte del Risveglio vide proprio questo: nel suo samadhi non c’era traccia di un sé, nella dimensione ultima non si trovava alcuna traccia di un sé; ed anche a livello convenzionale non si poteva che parlare di relazioni. Noi siamo le nostre relazioni, noi siamo i miliardi di impressioni e di esperienze che riceviamo in relazione con il mondo, con l’esperienza. Poichè siamo condizionati da tutto questo inter-essere, la nostra vita inevitabilmente cambia; quello che era importante ieri non lo è più oggi e viceversa; il nemico di ieri è l’amico di oggi e l’amico di ieri è la persona che non gradiamo più oggi.

Ma se siamo la relazione, nessuno può essere visto come il nemico. Se siamo la relazione, non esiste un sé proprio ed un sé “avversario”. Tutto accade semplicemente, vi sono eventi, non cose . E in questi eventi non c’è un vero sé all’opera, ma forze. E non ci si può attaccare a questo fascio di forze all’opera (anche se lo facciamo). Per questo si dice che a livelli ultimi non esistono il Bene ed il Male (con la Maiuscola): se esistono solo fasci di forze all’opera, quale bene e male può essere rinvenuto come assoluto? Per dirla in termini semplici, non esiste Satana; forse esistono forze, fasci di forze solidificati in qualche connessione perversa, ma non esiste il Male in assoluto. Anche Hitler, anche Stalin, anche Pol Pot hanno avuto i loro sprazzi di bontà.

Perciò, saltando qui dal piano personale a quello internazionale, dopo l’11 settembre gli Stati Uniti, nell’espressione dell’ineffabile Presidente Bush, avrebbero dovuto reagire non ciecamente, con il solito spirito della vendetta che viene dalla Bibbia (il famoso Occhio per Occhio): avrebbero forse dovuto esercitare un po’ l’introspezione e “vedere”: vedere ad es. i loro nessi di causalità con il mondo medioorientale, le forze all’opera che motivano le politiche americane (egoismo nazionalista , sete di denaro e di potere, mania di potenza), i regimi di assassini non solo messi al potere ma gli stessi assassinii perpetrati dai servizi segreti americani in decenni di politica internazionale: i vari Pinochet, Saddam ed altri dittatori, tutti i personaggi con le mani grondanti di sangue non solo finanziati ma sostenuti con interventi diretti; le armi atomiche, chimiche e biologiche sviluppate a tonnellate proprio dagli stessi USA... e così via. Se l’America avesse avuto il coraggio di guardarsi al di là dell’immagine che vuole dare, avrebbe visto qualcosa di terribile. Ma questo non significa colpevolizzare gli USA a senso unico: c’erano anche altri comprimari uguali se non peggiori: l’ex-URSS, la Cina ecc. . Però ognuno deve guardare a casa sua ed allora forse non sarebbe stato male, per gli Stati Uniti, seguire l’esempio del Papa che ha avuto il coraggio di chiedere perdono in varie direzioni per i crimini ed il sangue versato dalla Chiesa stessa nei secoli. Ma chiedere perdono significa “vedere” almeno un po’ e non sembra che il Presidente Bush disponga di questa facoltà.

Ma vi immaginate che svolta epocale sarebbe stata quella di un paese grande come gli USA che ha il coraggio di esaminare le sue colpe e non di creare il nemico, il Male, ma di chiedere perdono?

Questo avrebbe imposto una svolta epocale, la forza della non-violenza contro cui qualsiasi altro atto di violenza si sarebbe infranto, contro cui qualsiasi altra mano assassina si sarebbe sentita delegittimata. Saremmo passati finalmente dalla Preistoria alla Storia! Dalle tenebre del sé arrogante, malato di onnipotenza e di violenza alla luce della visione e della comprensione che rischiara la storia umana! Certi episodi negativi (come quello delle Twin Towers) possono essere usati come “Maestri”: Ma forse è più facile perseverare nei vecchi errori.

E’ incredibile come la nostra mente sia ancora condizionata ad agire in termini “preistorici”. Dominano ancora in essa facili rapporti elementari come il dualismo, la creazione di un mondo immaginario fatto di amici/nemici, l’assenza di vera comprensione della realtà: quindi la “staticizzazione in cose” e la mancata comprensione dell’esistenza di “forze”. Per questo si parla di Risveglio, di Illuminazione o Liberazione: occorre risvegliarsi al reale, occorre abbandonare tutto il ciarpame ideologico (politico e religioso) che un mondo vecchio ed una mente ancora preistorica hanno sedimentato e solo così potremo raggiungere la Libertà e l’inizio della Storia. Ma anche questo non va “cosizzato”. Si tratta di processi e proprio per questo occorre chiederci quante occasioni perdiamo ogni giorno per entrare nel processo personale/collettivo di passaggio dalla preistoria alla storia, dalla Mente dualistica ed ottusa a quella illuminata e liberata.

venerdì 15 dicembre 2006

Introduzione a Nagarjuna





Il secondo Buddha: Nagarjuna - Il più Grande Filosofo del Buddhismo
di David Loy
(Traduzione di Loriano Belluomini)


Questo articolo è apparso nell'edizione dell'inverno 2006 di Tricycle: The Buddhist Review.

È stato detto che, dopo il Buddha, la singola più importante figura nella tradizione buddista ed intera era un monaco chiamato Acharya Nagarjuna, qualche volta chiamato il Secondo Buddha. Come è il caso con molti giganti religiosi, noi conosciamo poco il Nagarjuna storico. Gli studiosi di solito lo mettono in qualche momento del tardo secondo secolo dell'Era cristiana, ma può essere vissuto cento anni prima o dopo quel periodo. Secondo la tradizione, Nagarjuna era un studioso-monaco all'Università di Nalanda, il grande centro buddhista di insegnamento nell'India di nord-est. Anche se noi lo conosciamo attraverso il suo corpo di scritture, noi realmente non sappiamo quanti "Nagarjuna" ci furono davvero, poiché è improbabile che tutti i lavori attribuiti a lui siano stati scritti dalla stessa persona. Ci sono potuti essere ben tre o quattro monaci tutti avendo scritto sotto lo stesso nome. 

Noi sappiamo che le scritture di Nagarjuna sono la base per il Madhyamaka, o Scuola di Buddhismo della "Via di Mezzo," e che Nagarjuna stesso divenne la figura più influente dello sviluppo del Buddhismo Mahayana che aveva cominciato ad emergere durante il primo secolo a.C. per disaccordi all'interno del sangha indiano sul percorso per l'Illuminazione. Questo nonostante il fatto che le sue scritture non menzionino mai molte delle idee di base del Mahayana, come l'ideale del bodhisattva o l'identità di forma e vuoto. Questo fa sorgere l'intrigante possibilità che questa figura importantissima nel sorgere del Mahayana possa non essere stato un Mahayana egli stesso.

La più famosa di gran lunga di tutte le scritture attribuite a Nagarjuna è, non casualmente, il più importante testo filosofico nella traditione buddhista, è il Mulamadhyamakakarika (" Versi-radice sulla Via di Mezzo"). I Karika, come spesso sono chiamati, sono composti di approssimativamente quattrocento e cinquanta brevi stanze che infine furono divise in ventisette capitoli. Questi capitoli indirizzano ai problemi filosofici e notevoli del tempo, ivi incluse la natura della causalità e la condizionalità, moto ed azione, il sé, la sua sofferenza e il suo asservimento, il nirvana e il Buddha, ma le profonde intuizioni di Nagarjuna hanno provato di essere senza tempo. 

Sfortunatamente per il lettore generale, il Sanskrito di Nagarjuna, anche se non mancante in grazia o precisione, è impersonale e denso. I Karika dovevano essere memorizzati piuttosto che letti, e normalmente sarebbero stati completati dal commentario orale di un insegnante. Ma anche in questo caso, la filosofia di Nagarjuna è notoriamente difficile capire (il che spiegherebbe perché lui sia più rispettato che studiato).

È probabile che dei buddhisti pensino a tale investigazione filosofica come incompatibile con la loro pratica contemplativa o devozionale. Ma questo è come separare la meditazione dalla saggezza. L'assorbimento nella propria pratica di meditazione sviluppa calma e chiarezza, tuttavia la pace della mente per se stessa non è la meta del percorso spirituale buddhista. Il Buddhismo enfatizza anche la visione profonda - vedere attraverso le costruzioni-pensiero a cui le nostre menti sono abitualmente aderenti - e sono queste forme di pensiero reificato che Nagarjuna decostruisce..

L'approccio filosofico di Nagarjuna era rivoluzionario, ma egli probabilmente non pensava a se stesso come a un radicale, che può essere il perché egli non enfatizzò il collegamento al Mahayana. Le sue innovazioni sono fermamente radicate negli insegnamenti originali del Buddha che rifiutò di discutere le questioni metafisiche. Disse il Buddha che dibattendo tali problemi come ad es. se il mondo aveva un inizio o no, o quello che accade ad una persona illuminata dopo la morte, era come essere stati colpiti da una freccia e rifiutare di essere curati finché non si conoscesse di che legno la freccia fosse fatta, chi l'avesse scagliata e così via. Invece di offrire un chiarimento speculativo del mondo, l'approccio del Buddha era pragmatico. Egli comparò il suo dharma ad una zattera che dovrebbe essere usata saggiamente per attraversare il fiume della vita e della morte. Una volta fatta la traversata tuttavia, non la si dovrebbe portare ulteriormente sulle proprie spalle. Ciononostante, negli anni dopo la morte del Buddha, i compilatori dell'Abhidharma ("l'insegnamento più alto") estrassero un metafisica dai suoi insegnamenti.

Potremmo considerare la filosofia di Nagarjuna come una terapia linguistica: essa usa il linguaggio per rivelare come il linguaggio c'inganna. Noi presumiamo che il mondo che noi esperimentiamo è il vero mondo, ma questo è un inganno. Il mondo come noi normalmente lo percepiamo è una struttura linguistica. Aggrapparsi alle elaborazioni concettuali (il prapancha) causa sofferenza, poiché esse non riflettono con accuratezza come il mondo davvero è. Come risulta da ciò, la nostra prospettiva di senso comune del mondo non è buonsenso per niente, poiché una inconscia metafisica è costruita nei modi in cui noi usiamo il linguaggio ordinariamente.

La logica rigorosa di Nagarjuna analizza questi modi di pensare e rivela che essi sono incoerenti ed auto-contraddittori. Per conto suo questo è tutto quello che egli fa. Egli non tenta di sostituire i nostri modi illusori di pensiero con una comprensione corretta con la quale noi possiamo identificarci. Invece, la vera natura delle cose (incluso noi stessi) diviene apparente quando noi lasciamo andare le nostre illusioni. Il nostro tumulto emotivo e mentale è sostituito da una beatitudine o serenità (shiva) che non può essere afferrata ma può essere vissuta.

Buddhismo è "la Via di Mezzo," tuttavia questo ha significato cose diverse in epoche diverse. Il Buddha scoprì un modo medio tra edonismo e ascetismo. Egli insegnò anche una via di mezzo tra eternalismo (il sé sopravvive alla morte) e l'annichilazione (il sé è distrutto alla morte), perché non c'è un sé e non c'è mai stato. Nagarjuna delucidò una posizione media tra l'essere (le cose esistono) e il non essere (le cose non esistono). Questa posizione di mezzo è shunyata, di solito tradotta come "vacuità."

Shunyata non significa inesistenza o vuoto, né descrive qualche realtà trascendente come brahman o Dio. Shunyata significa semplicemente che le cose non hanno un'auto-essenza o un'essenza loro propria. Tutto sorge e passa via secondo le condizioni causali. Per Nagarjuna, shunyata è un concetto euristico, uno strumento a portata di mano per riferirsi a questa assenza di auto-esistenza. Tuttavia il termine spesso è incompreso. Per alcuni, shunyata vuole dire, che niente del tutto esiste in alcun modo. Tale nichilismo è pericoloso, perché poi esso non fa alcuna differenza fra quello che noi facciamo o non facciamo, e non c'è senso nel tentare di seguire un percorso spirituale. Questo fraintende il progetto di base di Nagarjuna che è non descrivere il mondo ma confutare i modi in cui noi (mal)comprendiamo il mondo.

Nagarjuna era aspramente critico verso quelli che interpretano shunyata come nulla: guai a quelli che lo sostengono, per lui è come prendere un serpente dalla parte sbagliata. Essi confondono due livelli diversi di verità, il convenzionale (il samvriti) e l'ultimo (il paramartha). Il convenzionale non è ultimamente vero, ma è necessario per indirizzare verso la verità ultima. Shunyata è una verità convenzionale che ci aiuta a renderci conto dell'ultimo che non può essere espresso in parole. Shunyata è essa stessa vuota, ma è solamente utile per indicare che nulla ha auto-esistenza. Shunyata ci aiuta a liberarci dall'attaccamento alle cose. Ma poiché shunyata ha solamente significato in relazione a qualche cosa che non sia vuoto, e poiché non ci sono cose auto-esistenti in senso ultimo, non c'è perciò nemmeno alcuna shunyata. Come con la zattera del Buddha; noi abbiamo bisogno di lasciare andare anche shunyata. La 'verità ultima' non si riferisce a qualche altra realtà trascendente. Come un altro Madhyamika, Atisha, più tardi l'espresse: "Se usate la ragione per esaminare il mondo convenzionale come appare a noi, non potete trovare niente che sia reale (che abbia auto-esistenza). Questo non-trovare è esso stesso la verità ultima."

Nagarjuna si rivolgeva alle controversie filosofiche del suo tempo, ma le posizioni teoretiche che egli criticò erano basate sui modi ordinari in che noi umani comprendiamo noi stessi ed il nostro mondo. Il nostro inganno di base è la distinzione presa-per-garantita tra le cose e le loro attività. Ingannati dal linguaggio, noi dividiamo il mondo in nomi e verbi, soggetti e predicati. Noi comprendiamo il mondo come una raccolta di cose separate, interagenti in spazio esterno e tempo, che sorgono e passano via. Questo inganno include il modo in cui noi pensiamo a noi stessi, chiaramente. Noi di solito distinguiamo il nostro sé dalle nostre azioni e dagli eventi che ci accadono-incluse malattia, vecchiaia e morte, gli esempi classici di sofferenza che inspirarono la ricerca spirituale del Buddha. Poiché noi pensiamo al nostro proprio essere come separato dagli eventi, e da ogni altra cosa, noi anticipiamo con timore il fato inevitabile che attende il nostro sé individuale.

ANCORA E ANCORA, in modi diversi, le Karika confutano questa distinzione costruita dal pensiero tra oggetti e processi analizzando come questa stessa distinzione distorce la nostra comprensione di causalità, movimento, percezione, tempo e così via. L'approccio di base di Nagarjuna quasi sempre è lo stesso: La particolare distinzione che è esaminata è mostrata come incomprensibile, poiché, essendo stata fatta, i due differenti termini non possono più combinarsi insieme. Il problema di base, la fonte della nostra sofferenza è che i nostri modi di senso comune di capire noi stessi come separati da, ma anche nel mondo presume questa distinzione ingannevole.

Per esempio, consideriamo la relazione fra il sé ed i suoi stati mentali e fisici sempre in cambiamento (i propri pensieri, le emozioni, sensazioni fisiche ecc.). È il sé lo stesso come questi stati, o diverso da loro? Noi diciamo, "Io ho fame o io sono arrabbiato, o confuso," il che implica che "io" sto continuamente cambiando. Ma noi abbiamo anche un senso di un "io" che persiste immutato: il "io" (o sé) che lavora è lo stesso "io" che riceve un assegno per paga alla fine del mese. Nella vita di ogni giorno noi continuamente rattoppiamo questa discordanza. Qualche volta comprendiamo noi stessi in un modo, qualche volta in un altro ma comprendendo noi stessi come cose che sia cambiano che permangono allo stesso tempo è realmente una contraddizione . Il chiarimento di Nagarjuna per la discordanza è che il sé è shunya, "vuoto." In termini moderni, il mio senso del sé è, un instabile, sempre mutevole costruzione.

Nagarjuna applica il suo metodo anche a costruzioni buddhiste. Cos'è il Nirvana? Anch'esso è un concetto shunya. Se nirvana è qualche cosa di causalmente incondizionato, una realtà che non sorge o passa via, non c'è allora alcun modo di arrivare là, per noi. Se è condizionato, allora anch'esso passerà via, come ogni altra cosa condizionata. Nessuna alternativa offre salvezza spirituale. Lasciando andare i modi di pensare ai quali noi normalmente aderiamo ci permette di esperimentare il mondo come realmente è. Questo, "la fine delle elaborazioni concettuali (prapancha)," è come Nagarjuna si riferisce al nirvana.

Nagarjuna mai in effetti asserisce, come qualche volta si è pensato, che "il samsara è il nirvana." Invece, egli dice che nessuna differenza può essere trovata tra loro. Il koti (il limite, confine) del nirvana è il koti del samsara . Sono due modi diversi di sperimentare questo mondo. Nirvana non è un altro reame o dimensione ma piuttosto la chiarezza e la pace che sorgono quando il nostro tumulto mentale finisce, perché gli oggetti coi quali noi ci siamo identificati sono stati compresi essere shunya. Le cose non hanno una realtà loro propria a cui possiamo aggrapparci, poiché esse sorgono e passano via secondo le condizioni. Né noi possiamo aggrapparci a questa verità. Il verso più famoso nelle Karika (25:24) riassume magnificamente questo: "La massima serenità è il venire a riposo di tutti i modi di ‘prendere le cose', il riposo delle cose nominate. Nessuna verità è stata insegnata dal Buddha per chiunque ovunque."

La completezza metodologica con la quale Nagarjuna usa concetti per minare i modi costruiti concettualmente con cui noi capiamo il mondo ha condotto da molto tempo i critici, BuddhistI e non-buddhisti, Orientali e Occidentali, all' l'accusa di nichilismo. Effettivamente, è probabile che la scuola di Yogachara di Buddismo che enfatizza la realtà della coscienza, sia sorta in parte come una risposta ad interpretazioni così nichilistiche. Evidentemente alcuni tardi pensatori buddhisti erano preoccupati che l'approccio esclusivamente negativo di Nagarjuna - usare il linguaggio solamente, per rimuovere gli inganni creati dal linguaggio, avesse bisogno di essere integrato da descrizioni più positive del percorso buddhista e della sua meta. In ultimo i due approcci Madhyamaka e Yogachara furono capiti come complementari, offrendo quella che è generalmente accettata come la filosofia di base Mahayana .

David Loy è Professore di Ethics/Religion all'Università di Xavier a Besl ed un insegnante di Zen.



domenica 19 novembre 2006

Gentilezza amorevole,equanimità, fattori del risveglio

Come si effettua la meditazione sulle Residenze Infinite?


Mentre in passato sono state date indicazioni per lo più sulla gentilezza amorevole, qui parleremo principalmente dell’equanimità.

Possiamo realizzare vari tipi di Liberazione della mente (cetovimutti ): vi sono la Liberazione della mente realizzata con la Vacuità, quella con il senza-segni, quella della Non-direzionalità, quella delle Sedi Infinite. Ognuna di queste, pur partendo da un approccio particolare, contiene in sé elementi delle altre.

Prendiamo ad es. la gentilezza amorevole: quando pienamente sviluppata contiene rottura delle barriere, spaziosità, vacuità (la considerazione che ogni sé non è indipendente dagli altri) e una certa dose di equanimità. La gentilezza amorevole contiene anche consapevolezza e visione profonda.

Consapevolezza perché se visualizziamo esseri che non amiamo particolarmente sorge in noi la sensazione dell’avversione, mentre invece può sorgere consapevolezza dell’attaccamento se visualizziamo esseri a noi graditi.

L’approccio dell’equanimità, come già abbiamo detto, si basa sulle altre tre residenze infinite ma le trascende. Perciò, mentre è vero che non possiamo sviluppare equanimità senza amore e compassione per gli altri, è anche vero che l’Equanimità è una Liberazione della mente che porta al Nirvana, alla Libertà assoluta, alla Liberazione.

Ci sono sette fattori del Risveglio o illuminazione e possiamo vedere come e in quale misura essi siano contenuti nelle 4 Residenze infinite.

Il primo fattore è ' Sati ', consapevolezza. Esso è ben presente nella pratica della gentilezza amorevole, come visto sopra. D’altra parte sati ', quando è completamente purificato dall’equanimità, è un elemento del quarto Dhyana o Jhana, uno degli assorbimenti meditativi più elevati confinante con la Liberazione. Anche se non raggiungessimo mai questo Dhyana, possiamo però apprezzare pienamente questa "consapevolezza purificata dall’equanimità" come uno stato mentale elevato.

Il secondo fattore del Risveglio è chiamato ' Dhamma vicaya ', l’analisi dei fenomeni mentali. Anche questo elemento è presente nelle sedi infinite, soprattutto nella gentilezza amorevole (accorgersi di attaccamento o avversione, gioia o dolore). .

Il terzo fattore del Risveglio è ' Viriya ', che, come fa intuire il nome nella sua somiglianza con ‘ virile’, indica lo sforzo energico che applichiamo meditando. Questo sforzo non deve essere né eccessivo né scarso. Poiché le sedi infinite sono una meditazione piacevole, lo sforzo che vi applichiamo è quello giusto.

' Piti ', gioia, è il quarto fattore del Risveglio. E’ un fattore importante e come tale è anch’esso uno dei fattori dei primi Dhyana o assorbimenti meditativi elevati. Al di là del fatto che noi entriamo o no in questi assorbimenti, è però importante cogliere questo elemento di piacevolezza che sorge dalla concentrazione, dall’irradiazione e dal lasciare andare. Per questo è importante praticare il sorriso interiore, perché esso è sia espressione della gioia sia elemento induttivo della gioia.


Quando l’ego è meno presente, la gioia sorge facilmente: gentilezza amorevole, gioia altruistica e la stessa equanimità inducono facilmente la gioia.
L’apertura e l’accoglienza agli altri, al mondo, alle cose come sono, è ciò che contraddistingue un Buddha, un liberato (qui vorrei ricordare: non siate Buddhisti, siate dei Buddha!) .


' Passaddhi ', la calma, è il quinto fattore del Risveglio. Esso si realizza quando rompiamo le barriere negli stati infiniti e porta a:

' Samadhi ', il sesto fattore del Risveglio, grossomodo corrispondente al risiedere nel primo Dhyana.

' Upekkha ', EQUANIMITA’, è il settimo e ultimo fattore del Risveglio e da questo possiamo rilevare la sua importanza. L’equanimità è di vari tipi (ad es. è importante, durante una seduta, raggiungere l’equanimità verso le sensazioni corporee e mentali, conseguire quindi calma e stabilità nel corpo e nella mente) .

L’equanimità è la sede infinita più importante. Come svilupparla?

Il procedimento appare inverso rispetto a quello della gentilezza amorevole. Mentre in quest’ultimo partiamo da noi stessi e dalle persone care per giungere infine agli esseri più difficili da amare, nell’equanimità partiamo dalle persone indifferenti e poi da quelle ostili e poi torniamo a noi stessi con la considerazione che “OGNUNO E’ EREDE DELLE PROPRIE AZIONI”, cioè del proprio karma, e questo vuol dire, implicitamente, l’accettazione del destino di ogni essere, anche di quelli più cari e anche del nostro, qualunque esso sia. La Liberazione viene in essere proprio quando l’Equanimità è massimamente sviluppata e diventa l’accogliere con distacco qualunque cosa ci accada o accada ai nostri cari o nel mondo, consapevoli che VI SONO CAUSE E CONDIZIONI PER QUESTO.


In sostanza la sofferenza esiste nel mondo (è la prima Nobile Verità) ed esiste perché ne esiste una causa, l’ATTACCAMENTO. L’equanimità porta a trascendere sofferenza e attaccamento, va quindi a sboccare nella Liberazione ed è una caratteristica dell’essere liberi.

Le “Residenze infinite” sono anche dette “dimore divine” o brahmavihara perché, a detta del commentatore Buddhaghosa, sono ‘eccellenti’ e ‘immacolate', ossia immateriali, come gli dei che popolano i mondi senza forma o immateriali di Brahma, i livelli di esistenza più sottili. Perciò, secondo Buddhaghosa, “i meditanti che entrano a far parte di queste dimore, dimorano sullo stesso piano degli dei di Brahma”.

Secondo Winston L. King (La Meditazione Theravada, Ubaldini, p.80) il significato di ‘illimitatezza’ “ va senza dubbio cercato nell’analogia con la semi-infinità degli dèi in termini di tempo e spazio, e allo stesso tempo suggerisce la possibilità di raggiungere il traguardo della totale universalizzazione estendendo tali atteggiamenti a tutti gli esseri in tutti gli universi”. Sono “quanto di meglio possa esservi nel retto atteggiamento verso gli esseri”.

Riguardo alla superiorità dell’equanimità rispetto alle altre tre dimore, Buddhaghosa pone l’accento sul fatto che le prime tre sono ancora associate a un coinvolgimento emotivo con gli esseri, “perché biasimo e approvazione sono vicini [nella mente del meditante] e perché la loro associazione con la gioia è di tipo grossolano. Il meditante poi dovrebbe considerare la superiorità dell’equanimità in quanto è uno stato di quiete”.
Buddhaghosa, che amava gli esempi, esemplifica il raggiungimento della “rottura delle barriere” riguardo agli esseri in questo modo:


Supponete che un uomo sia seduto in compagnia di una persona cara, di una indifferente e di una ostile e che egli stesso sia il quarto. Ora sopraggiungono dei banditi e gli dicono: ‘Venerabile signore, consegnaci un bhikkhu (monaco)’ e, richiesti del perché, quelli rispondono: ‘ Per ucciderlo e offrire il sangue della sua gola’; allora se quel bhikkhu pensa tra sé: ‘Che si prendano questo o quest’altro’, costui non ha abbattuto le barriere. E se pure pensa: ‘Che prendano me, non questi tre’, neppure allora egli ha abbattuto le barriere.
E perché? Perché egli vuole il male di colui che desidera sia preso e vuole il bene solo degli altri tre.


Ma quando non vede nemmeno uno fra i quattro da consegnare ai banditi e dirige la sua mente con imparzialità… (allora) egli HA ABBATTUTO LE BARRIERE".

La realtà è una vacca squartata

Non vi lasciate ingannare da questo titolo truculento, vedremo poi cosa significa.

Una volta ogni uno o due anni incontro un’amica praticante con una setta esoterica cristiana che regolarmente mi vuole convertire al Cristianesimo e si stupisce perché io non sento Dio o non sono toccato dall’amore di Cristo(che sinceramente non riesco a verificare da nessuna parte in questo nostro mondo). Oppure capita spesso qualcuno che mi dice: "Ma tu credi in Dio?". Oppure qualcuno entra in questo tipo di discussioni metafisiche. Fare metafisica è stato uno dei passatempi preferiti e anche di conforto dell’umanità, fin da quando i primi Neandhertalensis o Cro-magnon cominciarono a creare idee sulle forze del mondo.

Ieri ero con un mio amico che è stato fermato da un Testimone di Geova che conosce (e che conoscevo già anch’io). Premetto che ho lo stesso rispetto per i testimoni di Geova come l’ho per i Cattolici. Sono solo una setta più piccola e insistente . Ma la stessa insistenza l’hanno avuta- in passato- e l’hanno oggi in forme più sottili i Cattolici (si pensi all’imposizione della religione cattolica_una sola fra tante che esistono_ nella scuola pubblica di fatto come un lavoro di colonizzazione forzata delle menti dei bambini. Un vero e propio lavaggio del cervello). Si pensi al lavoro di proselitismo che fanno i testimoni di Geova ( e su un altro versante la Soka Gakkai) ed a quello un po’ più obliquo dei "missionari" cattolici nel resto del mondo. Dov’è la differenza? Ce n’è davvero una? Ci si pensi onestamente, prima di rispondersi.

Comunque questa persona(il testimone di Geova) ha iniziato un discorso, prendendolo alla larga, sullo scopo della vita, sul fatto che vi deve essere uno scopo, un disegno, ed attaccando l’evoluzionismo come improbabile, sostenendo quindi il creazionismo. Io l’ho lasciato fare ma riguardo all’evoluzionismo mi sono permesso di dire che probabilmente un tipo particolare di devianza succede che sia , in un determinato momento, la risposta più adatta al particolare tipo di cambiamento di un ambiente. La devianza è un fattore abituale della vita, basti pensare a quella delle cellule che deviano e diventano cancerogene, o alla devianza sessuale; o alla stessa devianza che a volte avviene negli umani o in altri esseri.

Per farla breve questa persona, peraltro molto colta ed intelligente, ha esposto tutta una serie di idee che essi hanno, idee che provengono dalla Bibbia. Al che gli ho fatto rilevare che la Bibbia l’hanno scritta uomini, con tutte le loro predisposizioni e che ovunque vi siano predisposizioni umane c’è inquinamento, l’inquinamento che viene dal desiderare e dall’avversare. A queste persone faccio la solita domanda che pongo a tutti coloro che parlano di questi massimi sistemi: quali sono le forze che muovono l’universo. La mia amica di cui all’inizio, ineffabilmente mi ha risposto: " La luce divina" cioè è uscita fuori con qualcosa di assolutamente inverificabile. Infatti se vogliamo andare avanti con la fede, cioè con presupposti dogmatici ed inverificabili, posso asserire qualunque cosa. Non sarà invece che dobbiamo cominciare a vedere le forze all’opera in noi e cominciare a liberarci di tutto quello che appare inquinato? Per esempio a liberarci dall’adesione a qualunque tipo di idea? E perché? Ma perché è inquinata dalle nostre predisposizioni ed in particolare dai nostri desideri ( o dal loro rovescio, le avversioni).

Purtroppo questa, che appare come l’unica vera purificazione, cozza contro l’adesione all’immagine del sé che abbiamo creato e coltivato così a lungo. In effetti è questa costruzione di un sé che sta dietro a tutto il proliferare delle idee. Ma anche questo "sé" è osservabile distinto nelle sue forze. Il Buddha è l’unico che l’ha visto chiaramente: nel Brahmajala sutta , esaminando tutti i punti di vista possibili, ha fatto vedere come in ultima analisi tutti, anche i più raffinati intellettualmente, sorgano dal contatto e dalla sensazione. Se andiamo a vedere con la meditazione di consapevolezza noi vediamo sorgere in noi varie forze: la sensazione (che sorge dal contatto) è una di queste. E’ il contatto che fa sorgere (in cooperazione con le nostre predisposizioni, i nostri "semi" mentali) la sensazione, piacevole, spiacevole o neutra. Ci attacchiamo ad una sensazione piacevole e respingiamo una sensazione spiacevole. La sensazione piacevole fa sorgere il desiderare, questo fa sorgere l’afferrare, questo fa nascere (la vita –ecco spiegato il discorso delle rinascite-, oppure anche le normali situazioni della vita). Perciò la realtà ultima è una vacca squartata. Questa è una famosa parabola fatta dal Buddha. E’ come, egli disse (ma cito a memoria), è come un macellaio che uccide una vacca. Sia quando la uccide che quando inizia a tagliarla, egli ha il concettodi "vacca". Per un periodo, pur continuando a tagliare, egli ha ancora questo concetto di "vacca". Andando avanti egli però comincia a perdere questo concetto di "vacca" e comincia a pensare in termini di "coscia", "costole" e così via, finché il concetto di vacca è sparito.

Nella meditazione di visione profonda è lo stesso. Si parte da una visione del sé e poi si procede esaminando le sue componenti, le forze all’opera: cominciamo a vedere allora: sensazioni, percezioni, pensieri ( o meglio la funzione del pensare) e ci rendiamo conto come tutto sorga dal contatto: contatto con oggetti, contatto con concetti. Riguardo a quest’ultimo tipo di contatto, si pensi alla soddisfazione che dà l’adesione a questa o quella teoria politica o religiosa. Quando ero marxista, dal contatto mentale con questa teoria traevo una grande soddisfazione (leggi: sensazione piacevole) [per inciso trovo molte somiglianze metodologiche fra marxismo e visione profonda: entrambi rigettano l’idealismo e vanno a cercare le vere forze all’opera]. Poi ho visto che anche questa era una forma di inquinamento mentale, una sorta di gratificazione del sé e l’ho lasciato.

Perciò, come il macellaio, bisogna perdere il concetto di un sé e cominciare a vedere le componenti ultime. E’ lo stesso lavoro che viene svolto dai fisici attuali, quando arrivano alle componenti ultime della materia, ai quark . Il fisico moderno è come scisso in due: da una parte vive come tutti il mondo materiale, dall’altra sa che questo mondo come lo conosciamo è irreale, è privo di sostanza stabile: tutto dipende da tutto. Il fisico moderno scopre che la materia non è indipendente dalla coscienza e che la coscienza a sua volta non è indipendente dalla materia. Esattamente le stesse conclusioni del Buddha.

Ma si avrà il coraggio di staccarsi dalle NOSTRE opinioni? Di riconoscerle come inquinamenti? Di distaccarsi da ogni teoria, anche la più nobile?

Accettare

Un paio di settimane fa il mio vecchio cane Flok (uno spinone meticcio) è sparito. Avevo lasciato il cancello aperto e, tornando a casa a sera tardi, non l’ho visto. Siccome Flok era vecchio (16 anni), sordo, mezzo cieco e con l’Alzheimer (non si rinveniva più tanto), mi sono preoccupato e sono andato subito a cercarlo con una lampadina. Non l’ho trovato ed anche i miei tentativi nei giorni successivi sono stati vani.



Ero molto legato a Flok, questo vecchio cane fedele, che ogni volta che uscivo con la macchina lasciando il cancello aperto (=viaggio breve) si piazzava in mezzo alla strada ad aspettarmi. Osservare il suo lento invecchiare, prendendo atto del deterioramento continuo delle sue capacità fisiche e mentali non è stato dissimile da quando osservavo esattamente gli stessi fenomeni in mio padre e mia madre. In entrambi i casi provavo una stretta al cuore osservando i sintomi del cambiamento e accettando nello stesso tempo che questa sia la deriva degli esseri.

Nel caso di Flok mi ha fatto sofferenza il pensare non tanto che fosse andato a morire (ma dove? Viste le sue condizioni: ormai camminava quasi trascinandosi), quanto l’immaginare che, dovuto alla sua demenza senile, avesse perso l’orientamento e se ne andasse vagando qua e là senza più trovare casa.

La riflessione che ne è scaturita è stata questa: " Devi accettare che anche Flok, come tutti, è soggetto alla sofferenza e che questa è imprevedibile e incontrollabile. Nessuno può garantire a nessuno una vita che finisca in pace, in serenità. Come si nasce siamo sottoposti ad ogni possibilità".

Questa accettazione mi ha dato subito pace. E’ così, accettare crea pace. Purch non si tratti di rassegnazione o di una accettazione per obbligo. E’ importante avere una visione di come stanno le cose. Questo viene dalla Vipassana. Per avere questa visione profonda occorre la meditazione basata sulla consapevolezza. Non basta pensare: ma queste cose sono banali, io le so già! In realtà chi pensa così, poiché non è allenato a guardare le cose in profondità e ad accettare, una volta arrivato a situazioni tragiche (e nello stesso tempo assai normali) come il declino e la morte di una persona cara, crolla e si dispera! Di cosa allora bisogna essere consapevoli? Proverò a fare un esempio, prendendo il caso di Flok.

Prima di tutto posso offrire a Flok, ovunque sia, un’irradiazione di mettaa o gentilezza amorevole. Poi posso osservare quello che c’è, qui ed ora. Noto che c’è un senso di sofferenza ma noto anche che è solo un fluire mentale, un processo di pensiero. In realtà non so nulla di Flok, non so cosa sia meglio o peggio per lui, non so se stia soffrendo o abbia sofferto. Quello che c’è realmente è solo un processo di pensiero.

Siamo anche abituati a vedere di che "colore"(chiamiamolo così) è impregnato questo processo di pensiero, il colore della sofferenza e, risalendo a monte, del desiderio di non soffrire. Buffo: si soffre perché non si vuole soffrire. Questo "colore" di sofferenza è un "segno"(nimitta ) e come tutti i segni può nascere solo da tre condizioni: " Lust is a maker of signs, hate is a maker of signs, delusion is a maker of signs" (Mahaavedalla sutta, MN 43, traduzione Bhikkhu Bodhi ) che possiamo tradurre in senso lato: " Il desiderare è produttore di segni, l’avversare è produttore di segni, l’illusione è produttrice di segni". Se noi perciò scopriamo in noi segni di qualsiasi tipo, possiamo farli risalire a queste tre categorie, in ultima analisi poi riconducibili ad una: il desiderare. Così osservandoli, intuendo automaticamente la loro origine, questi segni (sia fisici-la stretta allo stomaco, le varie contrazioni ecc. – che mentali: il desiderio, la passione, l’avversione) vengono lasciati andare,scompaiono o diminuiscono in forza. E quando scompaiono possiamo osservare quello che c’è ed anche quello che non c’è più, registrare cioè la loro assenza (un passaggio contemplato nel Sutra sui Quattro fattori della consapevolezza) e dimorare in una mente tranquilla e concentrata, salvo poi registrare di nuovo il sorgere di segni, il lasciarli andare di nuovo e così via, finchè i segni diventano sempre più rari e la mente più libera. E questa è una delle tre vie verso la liberazione, la via del senza-segni. Praticare questa via implica un’attività di osservazione mentale intuitiva: è una via e già un arrivo.

Quando lasciamo andare i segni, lasciamo andare. Ci disponiamo cioè in una condizione in cui il minimo desiderare, anche lo stesso desiderio della liberazione, viene notato per quello che è. Un desiderio, un segno. L’abbandonare anche questo fa "stare semplicemente". Questa appare come la seconda via alla liberazione, la via del "senza-direzione", "senza-scopo" o "senza desiderio".

La terza via, che nei testi è in realtà la prima, è quella della vacuità, dell’assenza di un "io" e "mio". Questa viene dall’osservazione di sensazioni, pensieri… elementi, fenomeni che si svolgono nello spazio, senza un io centrale che li raccoglie. Un semplice osservare.

Tutte queste "tre porte" alla liberazione sono in realtà punti di vista diversi della stessa situazione, si può usare una porta oppure un’altra ma si entra sempre nella stessa stanza. E il percorso è anche l’arrivo.

giovedì 19 ottobre 2006

Le residenze infinite

Ci sono 4 “Residenze infinite” o “incommensurabili” in cui si può vivere (o tentare di vivere) e sono precisamente la gentilezza amorevole, la com-passione, la gioia per la gioia altrui, l’equanimità.

Si può osservare come le prime tre di queste “residenze” siano sfumature di una stessa emozione, quella della nostra empatia verso gli altri. Perciò in genere si prende in considerazione, fra queste, la “gentilezza amorevole” che, grosso modo, comprende anche gioia altruistica e compassione. Essa è anche la base del sorriso interiore empatico, quello che si espande dentro di noi e irradia fuori di noi.

La quarta “residenza” è quella dell’equanimità che ha un’importanza particolare, superiore alle altre anche se realmente inseparabile da esse. Se l’equanimità non fosse infatti stemperata da amorevolezza, compassione e gioia altruistica potrebbe facilmente divenire fredda indifferenza. Si tratta, in effetti, di una sorta di indifferenza partecipativa.

Detto così il concetto può apparire sgradevole: indifferenza partecipativa- che mai vorrà dire? Si tratta di una contraddizione (ho spesso portato all’attenzione come la pratica meditativa porti a questi paradossi. E come potrebbe non essere così visto che si va, in essa, al superamento dei dualismi? Questo superamento richiede, in effetti, di andare a unificare gli opposti) .

L’indifferenza partecipativa appare come uno di quei vecchi tavolini rotondi da bar che andavano di moda anni fa dove il sopra, piano, era tenuto su da tre gambe. Benché di questo tavolino noi usiamo solamente il sopra, non potrebbe esservi un vero tavolino senza le tre gambe. Il lettore scaltro avrà già capito che il sopra è l’equanimità e il sotto sono le altre tre forme di empatia. Quindi l’equanimità è superiore ma non può dispiegarsi pienamente se non basandosi sulle altre tre gambe.

Ma perché l’equanimità sarebbe superiore?

A prima vista non sembrerebbe così. La nostra tradizione cristiana ci porta a considerare l’amore come virtù primaria. Il problema della parola “amore” è che copre aspetti assai diversi tra loro, dall’amore sensuale all’amore per l’umanità intera ( purtroppo la tradizione in cui siamo stati allevati non contempla l’estensione dell’amore a tutti gli esseri viventi, cioè non vi contempla ad es. gli animali, considerati quasi come “ oggetti a nostra disposizione”) .

Ora se l’amore per l’umanità intera è un concetto “nobile” che va sicuramente oltre ciò che riguarda la nostra sola persona e porta ad uno stemperamento dell’ego, è anche vero che ad es. l’amore sensuale è su un’altra lunghezza d’onda rispetto all’amore per l’umanità, essendo in genere basato su spinte che vengono dall’ego e confinando con stati come possessività, rancore, odio e sofferenza. L’amore sensuale, per bello che sia, è come il miele spalmato sul filo di un coltello affilatissimo. Lo puoi leccare e goderne ma puoi facilmente tagliarti e sanguinare. Tutti ne abbiamo fatto esperienza. Perciò la parola “amore” è per lo meno ambigua e nella pratica meditativa preferiamo la parola gentilezza amorevole ( o benevolenza) .

La gentilezza amorevole può essere portata a perfezione quando la estendiamo al massimo, quando cioè diviene qualcosa di incommensurabile, quando la rendiamo, come residenza, una residenza “infinita” e per fare questo non ci possiamo limitare a un singolo compartimento della vita, quale l’umanità, ma dobbiamo estenderla a tutti gli esseri viventi, inclusi i non-umani.

Nella nostra pratica includiamo anche la sua estensione agli animali, alle possibili divinità e ai possibili demoni, identificando questi ultimi non come “il Male” ma come forme vitali mentali di sofferenza. Fra gli esseri la estendiamo anche a quelli che normalmente aborriamo. Faccio spesso l’esempio di Hitler, Stalin ecc. ma io ho una ripugnanza istintiva, direi un terrore atavico, per i coccodrilli che talvolta sono arrivato perfino a sognare.

Bene, quando pratico la meditazione amorevole e arrivo al mondo animale, dopo averlo preso in considerazione in generale a partire dai nostri amici più gradevoli, porto la mia attenzione sul coccodrillo (o, talvolta, sullo squalo) e mi identifico con esso: comprendo le sue motivazioni primordiali e compulsive – mangiare, mangiare- ed ho compassione per questo essere la cui vita è limitata ad un livello così basso da precludergli (probabilmente) i livelli di comprensione superiori tipici ad es. di un gatto, di un cane o ancor più su di noi umani. Pure anche questo essere avrà una forma primitiva di amore (per la sua prole ad es.) . L’identificazione con questo essere mi porta a rompere la barriera dell’avversione.

Estendere la nostra benevolenza verso tutti gli esseri significa perciò abolire ogni distinzione, significa liberare la mente. E’ qualcosa da non sottovalutare. Però la gentilezza, insieme alle sue due sorelle , va unita all’equanimità verso gli esseri.

Nel Buddhismo le quattro dimore infinite vengono sempre raccomandate ma talvolta considerate come un accessorio della Vipassana. Però studiosi moderni, come Richard Gombrich, hanno dimostrato come il Buddha le considerasse una via vera e propria alla Liberazione (ne parlerò in seguito) . Naturalmente si deve parlare di tutte e quattro le dimore, non solo della gentilezza amorevole. Infatti se nella pratica generalizzata e infinita di quest’ultima andiamo all’identificazione empatica con tutti gli esseri, nella pratica dell’ EQUANIMITA’ ci installiamo saldamente nella pratica di cui sopra (la benevolenza) per poi andare a prendere in considerazione il destino degli esseri. Infatti l’amorevolezza porta a forme di attaccamento, sia pur gentili e altruistiche: porta perciò anche a soffrire per il destino degli esseri. Non è ancora liberazione anche se è una liberazione della mente, una cetovimutti . Una forma di superamento dei propri limiti che però arriva a confinare con attaccamento e sofferenza.

L’equanimità come pratica meditativa , si esegue invece prendendo in considerazione il destino degli esseri e ACCETTANDOLO. E’ UNA FORMA DI ACCETTAZIONE.

L’equanimità è una presa d’atto dell’ineluttabilità della sofferenza per gli esseri, dovuta al fatto che gli esseri sono eredi delle proprie predisposizioni (non foss’altro la predisposizione a “voler vivere”) . E’ difficile da praticare perché ci è difficile accettare l’inevitabilità della sofferenza dei nostri cari e del nostro destino, qualunque esso sia. Ma proprio per questo possiamo percepire come essa ci porti bene“al di là” delle nostre concezioni abituali.

Liberarsi dalle ossessioni

Vado a camminare con una mia amica, la mattina, e talvolta abbiamo delle conversazioni, come capita. Stamattina ne abbiamo avuta una sul fato,sul destino. Dice lei:” Il Fato, per me c’è il Fato a governare le nostre vite, è quello che fa succedere le cose, che mette in unione le persone e così via”. Sono rimasto un attimo in silenzio. Conviene sempre prendersi una piccola pausa quando si entra in una discussione. Ci serve a guardarci, a vedere le nostre reazioni di fronte all’argomento, di fronte all’emotività che è sempre connessa con le discussioni. Occorre fare, insomma, quello che io chiamo “un passo indietro”e vedere come sta reagendo, di fronte alla situazione X l’entità Y (in questo caso io stesso). Questo serve anche per entrare in una conversazione senza aggressività, senza quell’irruenza che viene spontaneamente quando il nostro ego si sente coinvolto e quindi tende a difendere qualcosa, qualche opinione. In questa pausa che mi prendo mi faccio anche la domanda: “ Sto per difendere qualcosa? Sono attaccato a qualche punto di vista?”

“Tu pensi che esista il fato?”


“Sì, penso che esista, lo vedo nelle cose che succedono, c’è qualcosa che regola la nostra vita.”

“Ma come fai a dirlo? Non c’è nessuna prova di questo.”

“Come non c’è nessuna prova? Eppure io lo verifico nelle cose: a uno succede di essere ricco, bello, fortunato in tutto e ad un altro succede che è uno sgorbio, povero e disgraziato. Non è il fato questo? Sono nata qui ma potevo essere nata nel Terzo Mondo…”.

Rifletto. Potrei dirle: “ Mah, io credo piuttosto nel karma…” ma non mi piace molto usare queste terminologie, anche se a volte lo faccio trattandosi di un concetto conosciuto. Inoltre si tratta anche qui di una concettualizzazione. Scelgo quindi un’altra strada.

“ Mi sembra che si tratti piuttosto di una tua interpretazione dei fatti. I fatti sono, poi noi ci mettiamo la nostra interpretazione”.

“Ma allora secondo te non c’è niente? Che cos’è allora la vita?”

“La vita è il vivere, e basta. Questo è il dato di fatto. Il resto sono nostre interpretazioni.”

Non sto a raccontare tutta la discussione anche perché non me la ricordo (anche il dialogo qui sopra è solo una ricostruzione approssimativa). Voglio però prenderne spunto per un discorso sull’importanza di non avere opinioni, di non avere nulla da difendere.

In ciò seguo la via aperta dal Buddha e da Naagaarjuna.

Prendiamo l’idea di karma. Karma significa semplicemente “azione” ed, in senso lato, l’idea di causalità per cui tutto ciò che avviene ha cause e condizioni per avvenire. In sé anzi questo concetto esprime l’idea di vacuità dei fenomeni, la mancanza di una sostanza stabile in essi (tipo anima, Dio o che altro). Detto con una formula: X avviene in dipendenza dalla causa Y e dalle condizioni Z. Per esempio: tu sei un bravo dottore, mettiamo un dottore di successo perché hai studiato sodo (causa principale) con l’aiuto delle condizioni seguenti: avevi i soldi per andare all’università, avevi degli ottimi professori, sei stato sostenuto da amici e familiari e così via. Questa è la causalità, quello che governa il mondo. E’ chiaro che la scomparsa di alcune delle condizioni secondarie o della causa principale (l’aver studiato sodo) indeboliranno o faranno addirittura scomparire il fatto di essere un buon dottore. Questa è la vacuità. Le condizioni sono purtroppo prive di sostanza stabile (potevano esistere come no, dipendendo a loro volta da altre condizioni) e quindi tu sei un buon dottore sulla base di condizioni effimere, vuote; addirittura può darsi che, mancando alcune condizioni del passato (per es. un professore che ti abbia inculcato nella mente la necessità di un continuo aggiornamento) da domani tu non sia più considerato un buon dottore.

Questa è la causalità (o karma o co-produzione dipendente). Si può intuire come questa causalità non contenga cose, ma fenomeni di pendenti da altri fenomeni dipendenti da altri fenomeni. E’ vuota di sostanza stabile (altrimenti niente succederebbe nel mondo). Quindi la Vacuità, l’assenza di sostanza, la dinamicità è la base perché il mondo sia come è. Dinamico, in evoluzione.

Il problema nasce quando noi ci attacchiamo a questo concetto. E’ vero che si tratta di un concetto empirico, facilmente verificabile. Non è verificabile invece che esista un Fato, che esista Dio. Uno può “sentire” dentro di sé che queste entità esistono :ma è probabile che ciò venga da un desiderio di sicurezza dell’ego, allo stesso modo come l’esistenza di una sostanza chiamata anima. Invece la causalità è verificabile. Sappiamo empiricamente che il mondo funziona così.

Però se ci attacchiamo a questo concetto possiamo stravolgerlo, inconsciamente farlo divenire “sostanza” a sua volta, quindi accettarlo formalmente (come assenza di sostanzialità) ma negarlo nei fatti. Questa mia amica ha fatto proprio questo stamattina, ad un certo punto del discorso: “Beh, allora la causalità è il Fato (o Dio )”.

La tentazione è sempre forte: creare un’entità, un’essenza che governa il mondo. Mi accorgo che fa spesso capolino anche nella mia mente. Parlando con quest’amica ad un certo punto ho parlato di “talità”, intendendo con ciò alludere alle cose come sono, fenomeni, senza interpretazione.

Pure anche questo concetto può essere reificato, cioè trasformato in “cosa” (dal latino res “cosa”), in sostanza. Una sostanza nella mente, puramente mentale, ma sempre sostanza.

Ma che pericolo c’è in questo,si dirà.

C’è grande pericolo invece, è in nome di queste sostanze mentali (prendiamo ad es. una religione, una filosofia o altro) che sono state fatte le guerre di religione o di politica, che esiste il fondamentalismo, che esistono i conflitti.

Perciò la via alla Liberazione non può prescindere da una critica a tutto ciò che viene trasformato in sostanza e a cui ci attacchiamo. Ci attacchiamo alle cose, ai concetti e quando pensiamo di “possederle” dobbiamo difenderle. Sotto questi processi c’è sempre la credenza in un sé stabile e la presunzione che il mondo(l’”esterno”) sia qualcosa fuori da noi: soggetto ed oggetto di percezione, un dualismo pernicioso che impedisce di cogliere il fatto che non esistiamo noi e il mondo : noi e il mondo siamo la stessa cosa , fenomeni in un mare di fenomeni.

Come si vede il discorso è complesso.

Ma la sostanza è semplice. Per essere liberi (e con questo intendo sia le libertà più immediate che quella assoluta) occorre essere liberi dalle ossessioni , intendendo con questo nome una vasta gradazione di fenomeni mentali, dal grado minimo al grado massimo. Perciò

Se mi chiedi se la mia pratica è religiosa

Io lo nego

Se mi dici che la mia pratica non è religiosa

Io lo nego

Se mi chiedi se il karma esiste

Io lo nego

Se mi dici che il karma non esiste

Io lo nego

Se mi chiedi se un altro mondo esiste

Io lo nego

Se mi dici che un altro mondo non esiste

Io lo nego

Se mi chiedi se il Nirvana esiste

Io lo nego

Se mi dici che il Nirvana non esiste

Io lo nego

Se mi chiedi se sono Buddhista

Io lo nego

Se dici che non sono Buddhista

Io lo nego

martedì 19 settembre 2006

Appunti di viaggio

Giornata della finale del Campionato Mondiale di Calcio agli inizi di Luglio.



Sono in macchina, diretto a vedere la partita conclusiva, Italia-Francia, e rifletto. Mentre di recente ero in Cina mi faceva piacere vedere l’Italia in gioco.



Oggi però, finito il condizionamento dell’Italiano all’estero, mi interrogo. Vedo giovani con le bandiere sopra gli scooter e altre bandiere qua e là lungo la strada. Mi coglie un senso di disagio personale.



Come mi pongo rispetto a questa partita che pure anch’io ho aspettato? Ho piacere che vinca l’Italia? Questo è indubbio. Desidero che vinca l’Italia? Anche questo è in parte indubbio. Ci resterò male se l’Italia perderà? In parte, sicuramente. Perché? In effetti è facile cogliere nei condizionamenti la risposta.



Si nasce, si vive in un luogo fisico circondati da un continuum mentale e se ne fa parte. Accetto perciò di avere un po’ di partecipazione. Ma guardo questa mia partecipazione all’evento e vedo che essa ha una gradazione assai limitata, vedo che la mia mente è attenta e consapevole.



Per questo noto in me da una parte un senso di perplessità e dall’altra un senso di piacere, il piacere dell’attenzione e della consapevolezza.



Mi vengono in mente alcune scene viste in TV, mi sembra riferite alla sconfitta della Germania da parte dell’Italia. Ho visto una ragazza che piangeva. Che cosa strana mi è sembrata. Addirittura piangere per un’identificazione .




Capisco piangere per identificazioni con la sofferenza di un altro essere umano o di un animale, ci si ritrova in questo tipo di esperienze ma piangere per un ‘ideale’...


Nella mia mente vedo il piacere del gioco e probabilmente anche quello della partecipazione. Ma si tratta di divertimento...


>  Ho ritrovato (oggi 27 Agosto) questi appunti che avevo preso quella sera.


Ricordo che mi trovai in macchina in un ingorgo stradale mentre tutt’intorno a me la gente agitava bandiere e gridava. Attraverso il finestrino aperto qualcuno mi strinse addirittura la mano.


Ricordo che osservavo la mia mente e che provavo gioia senza partecipazione. Buffo, no? Provavo gioia per la gioia degli altri ma nello stesso tempo distacco.


Non era, sia chiaro, un distacco antagonistico. Ero pienamente in quella gioia, senza alcuna contrapposizione e nello stesso tempo ero distaccato. Fu veramente una cosa curiosa.



L’altro giorno, ad un passaggio a livello, arrivo e mi metto pazientemente ad aspettare. Ne approfitto per essere consapevole della pazienza.

Sono su una via trasversale e davanti a me c’è la fila di auto della via principale. Passa il treno e io guardo il primo automobilista della via principale. Gli faccio un gesto, sorridendo, di avviarsi ma lui, anche lui sorridendo, mi fa un gesto di andare prima io. Io vado e mi sento improvvisamente ricolmo di gioia. Non certo per il fatto di avere avuto la precedenza ma per lo scambio di consapevole e gioiosa gentilezza che c’è stato.


Questa gioia è stata davvero forte, mi ha pervaso tutto e mi ha accompagnato per tutta la giornata. Tuttora, se vi penso, ne risento la forte onda.



La mia gatta Prilla è tornata. Dopo forse un mese e mezzo. Dove sarà stata? Gioia.

Una notte, sto dormendo, quando a un tratto sento suonare il campanello e un vociare confuso. Guardo assonnato la sveglia e vedo che sono le cinque e mezzo. Sento una persona gridare e ne riconosco la voce, è quella di un vicino (in realtà abita a 400 / 500 m. da me, quindi relativamente lontano) che grida: “ Loriano, vieni a prendere i tuoi cani che è tutta la notte che abbaiano. Se non li tieni , uno di questi giorni compro il fucile e ci penso io” .

Ancora mezzo addormentato, dal letto grido di rimando: “ Ma sono dentro, li tengo dentro” ma poi mi affaccio, vedo il vicino che se ne sta andando e le mie cagne, Tea e Lea che sono dentro sì, ora, ma con il cancello mezzo aperto. Allora mi viene in mente che la sera prima le avevo lasciate uscire ripromettendomi di farle rientrare. Poi me ne ero dimenticato.


Intanto sento il vicino che continua a gridare nella notte. Questa volta se la prende con un altro cane, Fido, il leader-fidanzato delle mie due. Quando si mettono insieme, rifletto, fanno branco e abbaiano a destra e a sinistra. Continuo a pensare un po’ a loro, un po’ al mio vicino. Sono leggermente seccato ma non posso non pensare che la colpa è stata mia.



Dopo un altro po’ lo sento ancora, questa volta spostato più oltre, che grida contro altri cani. Colgo l’esasperazione nella sua voce e mi identifico nella sua sofferenza. E’ un commerciante poco più giovane di me, forse già faceva fatica a dormire con tutti i pensieri che può avere, in più i cani, con il loro continuo abbaiare, devono averlo portato all’esasperazione. Mi identifico quasi totalmente con la sua sofferenza. Capisco la sua rabbia.

I giorni successivi ci capita di incontrarci ma sempre da lontano o con tempi sfalsati. Sono incerto, vorrei avvicinarlo per scusarmi e rassicurarlo, ma sono un po’ timoroso di provocare una reazione ancor più forte. Poi, l’altro giorno, lo vedo passare a piedi e gli faccio cenno di venire. Mentre si avvicina mi chiedo come reagirà. Ma gli spiego con gentilezza che ho sbagliato, che ero certo di aver chiuso le cagne in “corte” mentre invece avevo lasciato aperto il cancello, che mi preoccupo sempre di tenerle dentro, che capisco come deve avergli dato noia e che non succederà più.


Man mano che parlo noto che lui reagisce bene, forse all’inizio pensava che volessi litigare mentre invece il mio tono e le mie scuse lo hanno fatto ricredere. Si instaura un rapporto tranquillo e di comprensione e già allora e poi dopo ancor di più sento la gioia che mi pervade, sento che si è creato un rapporto di comprensione reciproca e gentilezza.



La pratica della gentilezza amorevole è considerata una “dimora divina”e anche una pratica illimitata, cioè senza alcun limite o barriera, così come la gioia per la gioia degli altri e la com-passione.

Praticare queste dimore divine o illimitate porta all’abbattimento delle barriere con gli altri e, si badi bene, non solo verso gli umani ma anche verso i non-umani nostri fratelli, come gli animali, gli spiriti, le divinità e gli stessi demoni, perfino, se vi sono, gli abitanti di altri mondi.


Nessuna pratica di amore può essere perfetta se limitata ad una sola specie. Nella mia pratica cito espressamente anche i grandi e crudeli tiranni come Hitler, Stalin, Mussolini, Mao Zedong e ultimamente Bush, Bin Laden ed elementi della nostra politica. A volte penso ad Hitler e Mussolini e provo una grande compassione per i momenti tragici della loro fine. Altrettanto, anzi di più, per tutti coloro che hanno sofferto e sono morti per colpa loro.


Non esiste il Male assoluto, concetto a cui fanno continuamente riferimento coloro che praticano il dualismo. Anche Hitler, Stalin, Mussolini ecc. avevano sentimenti umani, sia pure pervertiti dalle logiche di potere o dall’odio verso determinate categorie.


Così pure trovo negativo che si agitino ancora categorie divisorie come “comunisti”, “rossi” , “fascisti” , “neri” . Con la fine dei blocchi sentii una grande soddisfazione.


Ma l’essere umano è riuscito semplicemente a spostare l’asse del conflitto.

Ricapitolazione

A quindici anni dall’inizio della pratica meditativa e nell’anniversario della morte dei miei genitori, si dà un’occhiata all’esperienza di questo lungo periodo.

Quindici anni fa iniziò l’esperienza della pratica meditativa. Ero in una forte crisi personale e questo mi porta ad una considerazione. Non c’ è progresso senza crisi. Bisogna toccare il fondo per riemergere. Una crisi, sia pure dolorosa quanto può essere la fine di un matrimonio, può essere il punto di svolta, in positivo, di una vita. Dirò di più: solo qualcosa di doloroso può spingere ad osservarsi realmente. A me accadde giusto questo:perché le cose erano andate così? Perchè costantemente, nella mia vita, mi ritrovavo a fare sempre gli stessi errori ed a produrre sofferenza per me e per gli altri?Non c’era forse qualcosa di sbagliato in tutto quanto?Questo mi portò ad un’autocritica impietosa:d’un tratto, sotto il peso del rimorso, mi vidi com’ero realmente, vidi tutto il mio egocentrismo, la mia fatuità, la potenza assoluta dell’ego. Riconsiderai la mia vita precedente e vidi come tante spinte, anche quelle più “nobili”, ad es. quelle del mio “impegno politico”,avessero come sottofondo il marciume del mio ego, il porsi al centro dell’universo, la volontà di affermazione.(Da allora quando vedo un politico, anche il più piccolo, non ascolto realmente quello che dice: ascolto quello che traspare dalla sua personalità, noto le variazioni della potenza dell’ego, osservo la fatuità del suo agire!).

Siamo quello che pensiamo! Ed io mi ero costruito addirittura un’ideologia del desiderare. Erano anni in cui queste ideologie erano di moda, i titoli di libri e canzoni che inneggiavano al desiderio erano numerosi; c’era perfino il titolo di un pezzo di jazz: “A scuola di desiderio”; figurarsi! Come se ci fosse bisogno di una scuola per questo!Ne abbiamo già anche troppo ed è proprio quello che crea la nostra sofferenza. Il desiderare implica sempre qualcosa che non c’è. E’ un turbinio mentale che rende ciechi al presente e ci proietta lontani nella mente. Non vivendo pienamente il presente, persi nei nostri sogni, disprezziamo il reale e ci trastulliamo con l’immaginario. Non siamo felici mai, siamo addormentati rispetto a quel che c’è, la nostra vita vera è nella mente. Sempre ad inseguire qualcosa, non abbiamo tempo per apprezzare l’esistente!

Un’altra cosa che ci costruiamo addosso sono le maschere. “Il politico”, “il rivoluzionario”, “il professionista”, “la femminista” “quello/quella di sinistra” (o di destra) e così via. SONO FONTE DI SOFFERENZA! Ce ne accorgiamo soltanto quando qualcosa ci spinge a lasciarle. Com’è duro sbarazzarsene. Me ne accorsi a mie spese quando, sotto la spinta del cambiamento che mi veniva dalla meditazione, dovetti abbandonare la mia maschera precedente, quella del “politico-più-o-meno-rivoluzionario”. Che fatica! Fu un problema grosso: sapevo che gli altri avevano su di me aspettative di un certo genere, insomma mi avevano inquadrato in un certo modo, e sapere che andavo a sfare questa bella costruzione: per un attimo mi sarei trovato NUDO!Ecco ancora una volta la paura del nostro pseudo-sé che sempre VUOLE DIFENDERSI, vuole impedire che la realtà com’è davvero irrompa nella vita.(Quindi da allora guardo “strano” coloro – e ne conosco- che dicono :”Io sono uno/una che…”anche quelli/quelle che hanno una visione romantica di se stessi – il che significa che non riescono a vedere la vita com’è).

Di nuovo: siamo quello che pensiamo, o meglio come pensiamo.

LA DISGRAZIA! La gente pensa di vivere in un mondo buono, che lassù qualcuno ci ami e prega per evitare le disgrazie. Ma le disgrazie sono inevitabili,crollano perfino le chiese in testa ai preti ed anche il papa si ammala. Per inciso ammiro molto questo nostro papa per la sua forza di volontà ma resta il fatto che nessuno sfuggì mai alla sofferenza fisica in questo mondo! Però ci fu chi superò completamente la sofferenza mentale. E poiché tutto quello che viviamo lo viviamo con la mente, questo è il punto, qui salta!

La sofferenza fisica è come una freccia che ci colpisce. Sta a noi evitare che ci colpisca la seconda freccia, quella della sofferenza mentale (il lamento continuo, l’insoddisfazione, il “perché è toccato a me?”). La realtà è che il nostro controllo sulla vita è minimo. “C’è una cosa a cui nessuno sfugge,né essere umano né divino, né uomo comune né asceta: precisamente il soffrire fisico, l’ammalarsi e il morire”, questo riconobbe 500 anni prima di Cristo il Buddha.

Poiché la seconda freccia è mentale, è solo esercitando la mente che si può vincere o almeno attutire l’impatto di questa seconda freccia. Ma ci vuole allenamento! Ci vuole training. Così come siamo, nonsiamo attrezzati per superare la sofferenza. E’ solo imparando il “lasciare andare” della meditazione, imparando a “vedere ed accettare”che possiamo migliorare la nostra salute mentale. Ma le persone non sono pronte! E’ fatica guardarsi e lavorare sulla mente! Vuoi mettere una bella pillola(o una preghiera, che se non atro è già meglio)? Così non devo fare la fatica di dover cambiare nulla di me (mi piaccio così!). Che importa se mi intossico con i medicinali e se poi devo prendere altri medicinali per rimediare ai danni dei primi medicinali?L’importante è rimanere nelle nostre maschere e nelle nostre inerzie.

Tornando alla disgrazia! I migliori anni della mia vita sono stati quelli della disgrazia, cioè della malattia e poi morte dei miei genitori! Che ricchezza in quel periodo! Presenza ed attenzione continua, individuazione di ciò che era reale e di ciò che era immaginazione, sviluppo dell’equanimità e dell’accettazione, la gioia della consapevolezza di sapere vivere il presente e di godersi dunque quelle care persone finchè era concesso…

Un’ultima curiosità: Come si è evoluta in questi anni la pratica meditativa? Beh, all’inizio ero molto tecnico ora tendo invece ad una maggiore attenzione all’aspetto psicologico. Ci sono state, in questi quindici anni , esperienze interessantissime ed anche profonde. Ma non occorre attaccarvisi. Anche queste vanno lasciate andare. La stessa idea della Liberazione, che è il nostro scopo, va lasciata andare. Questo è davvero un paradosso no? A ciascuno risolverselo, rendendoci conto che la realtà ultima è l’integrazione degli opposti nell’unità. Perciò,semplicemente VIVERE (“tenendo d’occhio però l’orologio”dice la fatina a Cenerentola riguardo alla fatidica mezzanotte). Anche la Liberazione, la Libertà non ha sostanza. Che sostanza potrebbe mai avere? E nello stesso tempo è come un’altra dimensione, una dimensione della mente. Ma se la sostanzializziamo non è più libertà!

Insomma , che ricchezza di paradossi!

sabato 19 agosto 2006

Vacuità

"Emptiness" da Thanissaro Bhikkhu



© proprietà letteraria riservata 1997 Thanissaro Bhikkhu



La vacuità o vuotezza è una maniera di percezione, una via di guardare all’esperienza. Aggiunge nulla e prende nulla dai dati crudi degli eventi fisici e mentali. Guardi agli eventi nella mente ed ai sensi senza alcun pensiero se vi sia qualche cosa dietro di essi.

Questa maniera è chiamata vacuità perché è vuota delle presupposizioni che di solito aggiungiamo all’esperienza per trarne un senso: le storie e la visione del mondo che foggiamo per spiegare chi siamo ed il mondo in cui viviamo. Benchè queste storie e punti di vista abbiano i loro usi, il Buddha trovò che alcune delle domande più astratte che esse sollevano--della nostra vera identità e della realtà del mondo fuori--attirano l’attenzione via da un'esperienza diretta di come gli eventi si influenzano l'un l'altro nel presente immediato. Così ostacolano nella via quando cerchiamo di capire e risolvere il problema della sofferenza.

Per esempio, voi state meditando ed un sentimento di rabbia verso vostra madre appare. Immediatamente, la reazione della mente è identificare la rabbia come la"mia" rabbia, o dire che"sono" adirato. Essa poi elabora sulla sensazione, sia elaborando nella storia della vostra relazione con la madre, o sul vostro punto di vista di quando e dove la rabbia verso la propria madre possa essere giustificata. Il problema con tutto questo, dalla prospettiva del Buddha, è che queste storie e punti di vista comportano molta sofferenza. Più siete coinvolti in essi, più venite distratti dal vedere la causa reale della sofferenza: le etichette di "io" e "mio" che hanno messo il processo intero in moto. Come risultato, non potete trovare la via di portare alla luce quella causa e portare la sofferenza a una fine.

Se, comunque, potete adottare la modalità della vacuità—non agendo o non reagendo alla rabbia, ma semplicemente osservandola come una serie di eventi, --potrete vedere che la rabbia è vuota di qualche cosa degna di identificazione o di possesso. Dominando la modalità della vacuità in maniera sempre più efficace, potrete vedere che questa verità è valida non solo per emozioni così aspre come la rabbia, ma anche per gli eventi più sottili del regno dell’ esperienza. Questo è il senso in cui tutte le cose sono vuote. Quando vedete questo, comprendete che le etichette di "io" e "mio" sono improprie, non necessarie, e causano nient'altro che stress e pena. Potete allora lasciarle cadere. Quando le lasciate cadere totalmente, scoprite una maniera di esperienza che si trova più in profondità, uno che è una che è totalmente libera.

Dominare la modalità della vacuità della percezione richiede addestramento in ferma virtù, concentrazione, e discernimento. Senza questo addestramento la mente tende a stare nella maniera che continua a creare storie e visioni del mondo. E dalla prospettiva di quella maniera, l'insegnamento della vacuità suona semplicemente come un’altra storia o un altro punto di vista sul mondo con nuove regole di base. Nei termini della storia della vostra relazione con la madre, sembra dire che non c’è realmente nessuna madre, nessun voi. In termini dei vostri punti di vista del mondo, sembra dire sia che il mondo non esiste realmente, sia che la vacuità è il terreno della grande base indifferenziata dell’ essere da cui noi tutti siamo venuti ed alla quale un giorno o l'altro tutti noi ritorneremo.

Queste interpretazioni non solo mancano il significato di vacuità ma anche trattengono la mente dall’ ottenere la modalità corretta. Se il mondo e la gente nella storia della vostra vita non esistono realmente, allora tutte le azioni e reazioni in quella storia sembrano come una matematica di zeri, e vi potrete chiedere se vi sia qualche senso nel praticare la virtù. Se, d’altra parte, vedete la vacuità come il terreno dell’ essere al quale dobbiamo tutti ritornare, allora che bisogno c’è di addestrare la mente in concentrazione e discernimento, poichè stiamo tutti andando là in ogni modo? E anche se avessimo bisogno di addestramento per ritornare al nostro terreno di essere, cosa ci potrebbe trattenere dal riemergerne e dal soffrire di nuovo, ancora e ancora? Così in tutti questi scenari, l'idea di addestramento della mente sembra futile e spuntata. Per focalizzarsi sulla domanda se vi sia o non vi sia realmente qualcosa dietro l’ esperienza, essi impigliano la mente in problemi che la trattengono dal restare nella modalità del presente.

Ora, storie e punti di vista, servono a uno scopo. Il Buddha li proponeva quando insegnava, ma non usò mai la parola vacuità quando parlava in queste maniere. Egli narrò le storie di vite della gente per mostrare come la sofferenza proviene dalle non-abili percezioni dietro le loro azioni, e come la libertà dalla sofferenza possa provenire dall’ essere più percettivi. Ed egli descrisse i principi di base che sono posti sotto il ciclo di rinascita per mostrare come azioni cattive intenzionali conducano alla sofferenza in quel ciclo, mentre realmente azioni abili (buone) possano portarvi al di là di questo ciclo. In tutti questi casi questi insegnamenti sono stati mirati a ottenere che la gente si focalizzasse sulla qualità delle percezioni ed intenzioni nelle loro menti nel presente--in altre parole, ottenerli nella maniera della vacuità. Una volta là, essi possono usare gl'insegnamenti sulla vacuità per il loro scopo intenzionale: allentare tutti gli attaccamenti a punti di vista, storie, ed assunzioni, lasciando la mente vuota di ogni avidità, rabbia, ed inganno, e così vuota di sofferenza e stress. E quando arrivate lì, questa è la vacuità che conta realmente.

Nota a questo testo:

La vacuità è intesa come la mancanza di sostanza reale in tutte le cose, la mancanza di io e mio. Il che non esclude l’esistenza di una verità relativa, quella della vita di tutti i giorni. Per es. Naagaarjuna distinse chiaramente tra verità assoluta e verità relativa. Poiché tutto dipende da tutto (inter-essere o "coproduzione condizionata") non vi è niente nell’esperienza che possa essere dichiarato come sostanza reale delle cose. A meno che, naturalmente, non ci si basi su qualche sostanza "misteriosa". Ma proprio questo produce i punti di vista più svariati e l’attaccamento ai punti di vista, che porta al conflitto, alle guerre di religione, all’integralismo fanatico. E poiché non vi è liberazione se si è attaccati…

La vacuità è una delle tre porte alla Liberazione. Vi è uno specifico samadhi della Vacuità. Gli altri due sono i samadhi della non direzionalità o assenza di scopo ed il samadhi del "senza segni". La stessa Liberazione va vista come vuota di sostanza. Questo è interessante. Cosa suggerisce per la pratica meditativa?

Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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