lunedì 13 gennaio 2003

L'altro lato della collina

(Riadattato da un discorso fatto nell'intensivo di 3 giorni 2-4 gennaio 2003)


Ci capita,durante la meditazione, di avere la sensazione di stare sciupando il nostro tempo. Benché ci leghiamo al respiro, benché ci mormoriamo "pura at-ten-zio-ne" e benché in qualche maniera abbiamo una consapevolezza di fondo, soprattutto se riusciamo a fare "un passo indietro" rispetto ai fenomeni mentali e ad osservarli da lontano, pure ci capita di provare un senso di profonda insoddisfazione. Sì, forse per qualche momento abbiamo potuto sperimentare quella calma a cui agognamo, forse per qualche momento c'è stata piena consapevolezza. Ma poi il flusso dei pensieri è ripreso forte, qualche volta forse ci ha anche travolto anche se siamo subito ritornati all'attenzione. Sorge perciò in noi quel senso di frustrazione di chi vede la libertà desiderata così lontana, di chi percepisce come la nostra mente sia ancora riempita dal fluire ossessivo dei pensieri.


Vorrei però invitare a guardare l'altra faccia della collina. Questa faccia ci resta sconosciuta, mentre ci sta ben di fronte l'aspetto chiaro e luminoso dei risultati che non riusciamo ad ottenere. L'altra faccia è appunto quella dell'assenza di risultati, una faccia che ci appare nuda, vuota, desolata, senza quei meravigliosi alberi e cespugli che ci stanno invece davanti. Ma se andiamo a vedere la praticabilità dei due lati, la libertà di movimento dei due lati, scopriremo una cosa strana: là dove il terreno ci appare vuoto, privo di alberi e cespugli, possiamo camminare liberamente, mentre invece dove ci sono bellissimi alberi e cespugli ci muoviamo a stento. Che vuol dire questo?


Ne parlavo ieri, citando una frase del Don Juan di Carlos Castaneda, una frase che cito spesso: " Viviamo in un universo predatore"; viviamo cioè in un universo dove la regola è l'afferrare, l'appropriazione, sia di cose materiali che di cose mentali. Siamo portati, anche nelle cose "spirituali", ad esercitare inconsciamente l'arte dell'afferramento. Chogyam Trungpa parla giustamente di "materialismo spirituale". Nella pratica religiosa sotto tutti i cieli e tutte le religioni questo materialismo spirituale è corrente. Basta vedere quanti sono i seguaci di Padre Pio, del vescovo (cardinale?) Milingo o, sotto altra bandiera, di alcuni guaritori Tibetani o della Soka Gakkai. La gente è talmente abituata a questa pratica dell'afferramento che una religiosità (non necessariamente una religione) che si basi sulla negazione dell'afferramento sembra una stravaganza marziana.


Ora il Buddha scoprì l'afferramento (upaadaana )come uno degli anelli della catena causale che porta in essere le cose come sono (yathabhutam ). E' perciò evidente che non può esistere purificazione mentale là dove c'è afferramento, sia pure di ordine "spirituale". E' perciò vero che qualunque nostra pratica che abbia di vista, sia pure inconsciamente, un "afferramento spirituale" ci porta in una dimensione che è quella attuale, quella dell'afferrare e di conseguenza del "far sorgere". Non voglio andare troppo lontano su questa strada per non perdere di vista l'argomento principale, che è:


IL ROVESCIAMENTO DELLA NOSTRA


CONCEZIONE:


NON CONSEGUIAMO NIENTE,


E' QUELLO CHE VOGLIAMO (sic!)


Questo è apparentemente sconvolgente ed apparentemente mina la necessità di ogni pratica. Ed invece la pratica, la consapevolezza, è assolutamente necessaria. Diceva Dogen, un famoso maestro Zen, che sedersi in meditazione ed essere realizzati non sono due cose diverse, non c'è differenza fra loro. E' cercare un obiettivo che è sbagliato. Ma se non cercassimo un obiettivo non faremmo niente. Bisogna perciò avere un obiettivo dimenticandosi l'obiettivo, uno dei tanti paradossi dell'illuminazione. L'illuminazione o risveglio è l'unificazione delle facce e dei paradossi ed un paradosso in se stessa. E' come fare un salto. Per saltare dobbiamo avere prima l'intenzione di saltare ma non è che poi, mentre saltiamo, continuiamo ad avere l'idea: "Devo saltare". Semplicemente lo facciamo.


Il risveglio o illuminazione non è un valore aggiunto, qualcosa che dobbiamo conseguire. E', come ha detto qualcuno, un cambiamento psicologico profondo ed ovviamente, aggiungo io, questo cambiamento deve avere qualcosa a che fare con la rottura del venire in essere delle cose. Questa rottura può venire nel punto dell'afferramento. Se lasciamo andare ogni pratica dell'afferrare spirituale (questo può avvenire solo in un ritiro o intensivo. Nella pratica quotidiana sono altri gli afferramenti!), noi ci ritroviamo a lasciarci andare, a divenire calmi, rilassati. Il Nirvana è considerato la calma per eccellenza. Ma la necessità della consapevolezza si disvela qui. Se fosse solo una questione di rilassamento, chiunque faccia un po' di training autogeno o yoga sarebbe illuminato, ma non è così. Rilassarsi può anzi portare all'addormentarsi che è proprio il contrario del


risvegliarsi. Allora è necessario che vi sia una consapevolezza a bilanciare il lasciarsi andare. Ed è altrettanto necessario che questa consapevolezza diventi una consapevolezza impersonale e non una consapevolezza del "io"-"mio". Occorre il saltare, non il "io salto".


Perciò siamo più avanti di quel che crediamo. Siamo già nell'acqua e forse ce ne accorgeremo prima o poi, smettendo di gridare: "Datemi da bere!". E' che bisogna decidersi ad esplorare l'altro aspetto della collina, ad accettare quell'aspetto, a rendersi conto di come si sia liberi là dove non ci sono cespugli, sia pur belli, ad ostacolarci.


Perciò è forse necessario (anzi toglierei il forse) abbandonare ogni idea di realizzazione spirituale. Ancora una volta si arriva al paradosso della quadratura del cerchio ( o forse meglio della circolarità di un quadrato): si ritorna alla semplicità (consapevole): Semplicemente stare. Semplicemente sto. Questo è già la realizzazione, la libertà. E' la rottura del circuito di cui l'afferramento è un anello. E' quello a cui accennava Dogen (anche se partendo da premesse diverse). In quanto ad ogni idea stessa di realizzazione, se ne può parlare ma per negarla. Oppure se ne può parlare, in termini convenzionali, così come si usa "io" pur sapendo che non esiste alcun "io" incondizionato. In effetti comunichiamo con il linguaggio. Oppure se ne può parlare con il silenzio che nella nostra pratica viene chiamato "il nobile silenzio". In questi giorni abbiamo sperimentato qua e là il silenzio vero. Oppure il silenzio relativo dell'osservazione. Ma anche l'accettare la mente discorsiva va bene. Le cose sono così come sono venute in essere poiché vi sono cause e condizioni per questo. Aderire alle cose come sono, accettarle è scoprire che siamo già nell'acqua!


Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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