sabato 22 dicembre 2007

Intervista a Guy Bugault sul Buddismo

13/10/1990






Il Buddha nacque nel Nord dell'India, ai piedi dell'Himalaya, più precisamente in quello che si chiama il Terai, in un piccolo Stato repubblicano del Nepal, in prossimità della frontiera con l'attuale Repubblica Indiana, verso il 560 a.C. Il suo nome era Siddhartha, Gautama il patronimico. Tutte le fonti concordano press'a poco nel dire che Siddhartha visse 80 anni, e morì verso il 480 a.C.. All'età di 29 anni, dopo essersi sposato e dopo aver avuto un figlio, cosa molto importante in India, Siddhartha Gautama abbandonò nottetempo il palazzo paterno con il suo scudiero - dando vita a quella che la tradizione buddhista chiamerà "La grande partenza" - e si mise alla scuola di alcuni maestri di Yoga. Dopo aver passato qualche anno presso tali maestri, ottenne probabilmente dei "poteri". Tuttavia Siddhartha rimase deluso e decise di continuare la ricerca spirituale coi propri mezzi.
Si dice che verso l'età di 36 anni, cioè circa sette anni dopo avere abbandonato la famiglia e il mondo, dopo aver meditato tutta la notte sotto un albero, che fu chiamato poi "albero della bodhi", cioè del "risveglio", albero che si trova ancor oggi a Bodhgaya, nel momento in cui sorse l'aurora, Siddhartha si svegliò, si svegliò dal sogno della vita, dal sogno del mondo e comprese quella che si potrebbe chiamare la verità, benché il termine non sia pienamente adeguato. Da quel momento egli fu il Buddha, il Risvegliato.




Qual è, in sintesi, l'insegnamento del Buddha?


Ciò che ci permette di conoscere quello che ha insegnato il Risvegliato sono i sutra, i detti del Buddha, che sono stati trasmessi da una generazione all'altra, in seno alla comunità monastica. Dapprima sono stati fissati oralmente, in seguito, verso l'inizio della nostra, questi sutra e il Vinaya, cioè l'insieme delle regole monastiche, sono stati codificati per iscritto in pali, e si è venuto così a formare il Canone buddhista, cioè l'insieme dei detti del Buddha, dei suoi insegnamenti e delle regole. Ma il Canone è rimasto aperto fino a verso il IV d.C. In quei secoli si sono potute fare aggiunte agli insegnamenti dottrinali o alle regole monastiche, dettate a poco a poco dal Maestro, o dal Beato, come lo chiamavano i suoi discepoli.



Ma qual è il contenuto essenziale di questi sutra, o meglio dell'insegnamento del Buddha, che spesso veniva esposto in forma di risposte a domande formulate dai suoi discepoli o dagli uditori laici o monaci?



Tale insegnamento lo si trova condensato nel famoso "Sermone di Benares", un discorso pronunciato dal Buddha nel Parco delle gazzelle di Sarnath, nei pressi di Benares. Cinque brahmani, che avevano prima plaudito al Siddhartha asceta e poi se ne erano distaccati, gli si accostano di nuovo a causa dello straordinario irraggiamento conseguente al "Risveglio" dal sogno della vita. Davanti a questi cinque brahmani il Buddha pronuncia la sua prima predica, che per questo motivo è anche nota come la "messa in movimento della ruota della legge", o "Dharmacakrapravartana".
Tale sermone, nel quale vengono esposte le Quattro Nobili Verità, si sviluppa secondo uno schema medico che era in voga e in onore ai tempi del Buddha nel bacino del Medio Gange, zona dove andavano e venivano molti asceti medici. Ora, quando si va dal medico, questo fa una diagnosi, risale a una eziologia, formula una prognosi, e, in quarto luogo, assegna una cura. Secondo tale "schema medico" la diagnosi del Buddha è "sarvamduhkham", "tutto è malessere", "tutto è disagio". Si è tradotto talvolta tale affermazione con "tutto è dolore" o "sofferenza", ma personalmente ritengo tale traduzione eccessiva, in quanto il Buddha, in gioventù, aveva avuto una vita di piaceri e quindi sapeva perfettamente che la vita era un'alternanza di piaceri e di sofferenze. Egli dunque intende che tutto è malessere, sia in atto, ovvero quando si soffre effettivamente, sia in potenza, quando il piacere o la gioia di cui si gode è suscettibile di trasformarsi, più tardi, in pene e afflizioni. Semplificando si potrebbe dire che, per il Buddha, nella vita c'è sempre una piccola cosa che non va.. Si tratta dunque di una diagnosi solo relativamente pessimistica.
In secondo luogo il Buddha individua l'eziologia, e afferma che l'origine del malessere - o del dolore - è la sete, o "Duhkasamudaya trisna". Generalizzando si potrebbe parlare di desiderio piuttosto che di sete, ma personalmente preferisco conservare il termine concreto. La parola delicata è invece samudaya, che ho tradotto letteralmente con "origine". Ora con "origine" bisogna intendere il punto da cui si può veder sgorgare il dolore o il malessere. Non si tratta dunque necessariamente della causa, perché non c'è posto, nella dottrina buddhistica, per l'idea di una causa prima qualsiasi. La causa del malessere, che è senza principio, è nel malessere stesso, che sgorga in occasione del sentimento-sensazione della sete, o del desiderio.
In terzo luogo il Buddha fa una prognosi. Tanto la diagnosi del medico buddhista è fondamentalmente, benché relativamente, pessimistica, tanto la prognosi è essenzialmente ottimistica. Infatti il Buddha afferma che è possibile porre fine al dolore. Esiste infatti il nirodha, o il nirvana, cioè l'estinzione dell'io che ha sete, che soffre e che trasmigra. La radice verbale nirva vuol dire letteralmente estinguere, soffiare su una lampada, su una scottatura; il termine nirvana dunque significa estinzione dell'io che ha sete, che soffre e che trasmigra. Occorre riconoscere che quello che il Buddhismo propone è un rimedio eroico, poiché c'è motivo di pensare che il malato ne morirà, nel senso che non potrà conservare il suo "io" e affermare la propria individualità. Quindi la terapeutica buddhistica non è destinata a tutti, ma solo a quelli che hanno la vocazione eroica di sradicare l'io o di dissolverlo.
In quarto luogo il Buddha offre la ricetta o la prescrizione medica. Ci sono otto rimedi, che la tradizione ha raggruppato comodamente sotto tre titoli: shila, samadhi e prajna. Shila è l'ordinamento della condotta pratica, la moralità. Samadhi è l'apprendere a fissare il pensiero in modo tranquillo, l'apprendere a concentrarsi attraverso lo yoga. Per quanto riguarda la prajna, è difficile trovare un'espressione che la traduca bene; ve n'è, però, una eccellente in latino: "acies mentis", che si trova in Cicerone, nelle Tusculanae. Altrimenti è possibile anche una buona traduzione in inglese, attraverso il termine "insight". Tuttavia se dovessi tentare una traduzione direi che la prajna è la finezza, l'acuità dell'intelligenza.
Un fatto capitale, che generalmente gli europei non capiscono, è che ognuno di questi tre elementi non funziona mai separato dagli altri due. La conseguenza è questa: poiché la morale non funziona separata dallo yoga e dall'intelligenza, il Buddhismo non è un moralismo; poiché l'intelligenza non funziona separata dalla morale e dallo yoga, il Buddhismo non è un intellettualismo - cosa che lo distingue dalla filosofia, anche se esso contiene, a causa della prajna, una parte notevole di filosofia - e infine poiché lo yoga non funziona mai separato dalla morale e dall'esercizio dell'intelligenza, il Buddhismo non è uno yoga selvaggio, ma uno yoga addomesticato, subordinato a quell'esercizio di intelligenza che è la prajna.



Che cosa è il pratityasamutpada ?



La dottrina della "coproduzione condizionata", o, in sanscrito, pratityasamutpada è una dottrina profonda, o gambhira, termine per altro costantemente associato all'insegnamento del Buddha. Ora quando si va in profondità si finisce nel chiaroscuro, perciò non deve sorprendere se la spiegazione della dottrina della "coproduzione condizionata" abbia un sapore di enigma, tanto più, che tale dottrina si applica al descrivere ciò che precede la vita, ovvero all'esistenza intra-uterina.
Ma prima di presentare questa applicazione alla vita umana della coproduzione condizionata, vorrei ricordare il condensato di questa dottrina, che si trova nel Canone buddhistico, o più esattamente nel Majjhimanikaya dove si dice che se questo è, è anche quello; se questo appare, appare anche quello; se questo non è, neanche quello è; se questo cessa, cessa anche quello. In altri termini si tratta della prima esposizione dell'idea di legge o di funzione, nella letteratura filosofica dell'umanità. Naturalmente questa funzione o legge resta soltanto allo stato qualitativo, poiché a quell'epoca non era stata ancora quantificata. Tuttavia io ritengo che si tratti della prima enunciazione dell'idea di legge che non contenga l'idea di causa transitiva metafisica.
Ora, l'applicazione concreta alla vita umana della coproduzione si articola in una catena di dodici anelli. Il Buddha l'ha esposta la prima volta partendo dalla fine, dal dodicesimo anello, cioè dalla vecchiaia e dalla morte, risalendo anagogicamente fino al primo anello, che rappresenta una fondamentale e radicale ignoranza, un irrazionale che starebbe alla base della vita e forse anche del mondo. Ma poiché considero troppo ardua la spiegazione secondo il modo regressivo, o pratiloma, ritengo sia meglio esporre questa duodecupla concatenazione nel senso discendente.
Alla radice di tutto, nella vita umana, nella vita animale e nel mondo intero c'è un principio che il Buddha e molti altri in ambito indù chiamano avidya, ovvero "ignoranza", "nescienza", o ignoranza radicale. In termini moderni si potrebbe dire che l'avidya rappresenta quell'irrazionale alla radice di tutto, sia della vita che del mondo.
Il secondo anello della catena, destinato a spiegare la genesi dell'individualità psico-somatica, è rappresentato dai samskara, o "formazioni psichiche". In altre parole i samskara sono il residuo delle vite anteriori: non si tratta dunque di semplici latenze, ma piuttosto di latenze dinamiche, di tendenze. Pertanto, secondo il Buddha, su un fondo di ignoranza e di irrazionale si innestano delle forze motrici, degli schemi ideo-motori, che portano l'individuo a fare qualcosa.
Il terzo anello in questa genesi dell'individualità è il vijnana, o coscienza. Ma questo termine, che è facile fraintendere, designa al tempo stesso l'embrione nel grembo materno. A questo punto potrebbe sembrare strano che la stessa parola possa indicare una forma di coscienza o conoscenza e al tempo stesso la formazione dell'embrione nel grembo materno. Esiste tuttavia una parola che può chiarire il problema poiché ha la stessa ambivalenza: si tratta del termine "concezione". A tal proposito è importante notare che, in generale gli Indiani, e non soltanto i buddhisti, ritengono che la concezione abbia luogo con l'intervento di tre elementi: il padre, la madre e il resto sottile di una vita anteriore, che viene a bussare alla porta degli sposi e li sollecita con il piacere, li persuade a unirsi, per potersi reincarnare.
Quarto anello della catena è il namarupa. Rupa è ciò che designa il corpo, l'apparenza fisica che si mostra agli altri, ma anche il corpo proprio, e nama sono le funzioni mentali. Tali funzioni mentali, secondo la filosofia buddhista sono: vedana, la "sensibilità affettiva", che si traduce spesso in modo fuorviante con "sensazione"; samjna, o l'insieme delle nozioni, che si sono apprese a scuola, nella famiglia, per strada, in società, ma anche nei dizionari, nelle enciclopedie, e che servono nella vita; samskara, che sono le forze motrici che spingono ad agire; e infine vijnana, che tuttavia in tale contesto è da intendersi come coscienza segregatrice, discernente. Le funzioni mentali più il corpo sono i cinque elementi o skandha che compongono l'individualità psico-somatica. Le funzioni mentali, poi, sono considerate, per natura, inconsce, ed è solo perché la potenza della coscienza si sposta come un proiettore da un punto all'altro per illuminarli che questi quattro elementi diventano consci. Inoltre si fa tanta fatica a concentrarsi, proprio perché il carattere del vijnana è di essere come una scimmia che salta di ramo in ramo
Il quinto anello della catena è chiamato sadayatana, o le "sei sfere sensoriali", di cui cinque corrispondono ai cinque sensi che conosciamo e la sesta alla conoscenza mentale, manas o citta. Il sesto anello è il "contatto" o sparsha, e rappresenta appunto il mettersi in contatto dei cinque sensi, più il sesto che è il pensiero, l'organo mentale, con le sei sfere che vi corrispondono. Il settimo anello è rappresentato da vedana, ovvero la "sensazione" che sorge conseguentemente al contatto degli organi di senso con i rispettivi oggetti.
L'ottavo anello prende in sanscrito il nome di trisna, o "sete". Infatti, una volta che, dal contatto con l'ambiente circostante o anche con i propri pensieri, è sorta una sensazione piacevole o spiacevole, sorge la voglia, o "sete", di ricominciare. La caratteristica della sete o del desiderio, sia dopo che è stato soddisfatto, sia nel caso che resti insoddisfatto o frustrato, è di spingere verso un nuovo desiderio e così di seguito.
Dall'anello trisna si passa al nono anello della genesi dell'individualità psico-somatica, detto upadana, che rappresenta l' "appropriazione", il gesto del prendere qualcosa per sé e di possederlo. Ricorro volentieri all'esempio del croupier che con il suo rastrello raccoglie dal tavolo le puntate dei giocatori, ma anche a quello dei bambini quando giocano, che prima danno all'amico il proprio giocattolo, ma dopo cinque minuti se ne riappropriano brutalmente. Ciò equivale a quando si sta davanti a un bicchiere di vino e lo si trova buono, e viene voglia di bere tutta la caraffa e magari anche la botte. Pertanto ritengo che questo sia l'anello decisivo nella formazione dell'io, proprio perché è attraverso l'esercizio del "mio" che si forma e si organizza l'io, ed è proprio quando si dice: "E' mio", che si prende coscienza dell'io.
Decimo anello della catena è bhava. A questo punto il feto nel grembo materno è pronto a entrare in una nuova esistenza, nel "divenire" o bhava appunto. Personalmente ritengo sia importante insistere sul fatto che questa esistenza non è statica, ma è portata via dalla corrente della durata e del tempo, nell'impermanenza. Successivamente, quando le cose sono mature, tale esistenza esce dalla matrice, espulsa da vayu, dall'"aria compressa", - come i medici indiani chiamano l'espulsione del feto, - e ha luogo la "nascita", o jati, che rappresenta l'undicesimo anello.
Infine, col dodicesimo e ultimo elemento, l'intero percorso della vita finisce nel jaramarana, nella vecchiaia e nella morte. Si tratta del declino che tutti attende. Ma cosa c'è dopo? La risposta della tradizione buddhista è molto semplice: si ricomincia, con una rinascita assolutamente immediata, che in sanscrito prende il nome di pratisamdhi; in altre parole si è di nuovo afferrati da quell'irrazionale, da quelle ignoranze radicali, o samskara, ereditati dalla vita anteriore, e di nuovo si articola la duodecupla concatenazione, che in fondo, in noi occidentali potrebbe evocare, sia pure su un piano sentimentale, il mito di Sisifo.


Professor Bugault, che cos'è l'Abhidharma?



Nel corso delle stagioni delle piogge, i monaci buddhisti si davano alla discussione filosofica, dalla quale, secolo dopo secolo, ne risultò un rigoglioso sviluppo di scuole filosofiche, ognuna delle quali sviluppò un Abhidharma, ovvero un corpo di scritture che riprendeva in forma sistematica e dialettica il contenuto dogmatico degli insegnamenti del Buddha.
Ora, il Buddha aveva dettato sia il Vinaya, ovvero l'insieme delle regole monastiche, sia i sutra, o sutta in pali, o meglio i suoi insegnamenti, in "situazione" e occasionalmente, e non ex cathedra, o scrivendo dei libri. Prima di impartire un insegnamento, infatti, ogni sutta comincia con una formula stereotipa nella quale chi narra dice: ecco quello che ho sentito dire in quella circostanza, in quel luogo, in quel tempo, da quell'interlocutore. Anche in questo caso, come nelle Quattro Nobili Verità, si ritrova l'aspetto terapeutico della parola del Buddha, che non dice a tutti la stessa cosa. Ritengo infatti che l'adattarsi alle situazioni e agli uditori piuttosto che somministrare un insegnamento meccanico e uniforme abbia un grande valore dal punto di vista soteriologico e pratico.
Ma la comunità monastica, col passare dei secoli, provò il bisogno di schedare analiticamente gli insegnamenti del Buddha, punto per punto, e di farne un catalogo, ricapitolando le risposte sparse nei sutta sui diversi temi, quali per esempio l'io, la causalità, l'eternità o l'impermanenza. In tal modo si venne a formare l'Abhidharma, la cui stesura, tuttavia, non fu così semplice: la difficoltà infatti fu quella di fissare in entità scolastiche, in Esseri di ragione e di scuola gli insegnamenti in origine molto concreti e molto sfumati del Maestro.
Ma cosa vuol dire Abhidharma? Ora, il Maestro aveva insegnato il Dharma, che vuol dire la "legge", la legge del mondo, la legge della vita, la legge naturale cui bisognava conformarsi. Il Dharma di Buddha rappresenta quindi "la vera natura delle cose", e al tempo stesso l'imperativo, la legge prescrittiva, alla quale i buddhisti devono conformarsi. Il prefisso abhi invece in sanscrito vuol dire "super" o "iper". L'Abhidharma dunque è il "supertrattato della legge" che i monaci vennero formando per i summenzionati motivi.




Che cosa è il Madhyamaka?



Visti gli inconvenienti della scolastica dell'Abhidharma, verso il II-III secolo d.C. sorse la Scuola del Cammino di mezzo, o Madhyamaka, che si presentò come l'antidoto della scolastica. Il suo fondatore fu il celebre monaco buddhista Nagarjuna. Egli scrisse molte opere, tra le quali le Madhyamakakarika, le Stanze del cammino di mezzo, e la Vigrahavyavartani, che era sostanzialmente una replica alle obiezioni mosse alla sua opera.
Nei ventisette capitoli della sua opera principale, le Stanze del cammino di mezzo, Nagarjuna fa subire un esame critico, una pariksha, a tutti gli argomenti topici della comunità buddhistica, di cui certi sono attuali ancora oggi. Egli mostra, per esempio, come la causalità, la nozione di causalità transitiva, sia di natura contraddittoria e inconsistente. Nel II capitolo, poi, Nagarjuna attacca la nozione di movimento, in altri capitoli rifiuta l'idea di eternità, in altri ancora mette in questione la nozione stessa di karma. Nel XXIV capitolo mette poi in questione il "Sermone di Benares" e nel XXII capitolo mette in questione il personaggio stesso del Buddha, sotto il nome di Tathagata e infine dedica un capitolo molto importante, il XXV, all'idea stessa di estinzione, l'idea di nirvana, che, nella forma scolastica sotto cui se la rappresentavano sia i suoi correligionari, sia i suoi avversari, risulta ai suoi occhi falsa.
La sua dialettica si esercita intorno a tre principi: quello del nayujate, o della non coerenza logica, con cui porta i suoi avversari a una autocritica formale; quello del napapadyate, attraverso il quale mostra che ciò che dicono i suoi avversari è contraddetto dall'esame critico dei fatti; e infine quello del navidyate, che ritorna più spesso e che consiste nella dimostrazione dell'inutilità di una ricerca di un referente da parte dei suoi avversari. Nagarjuna infatti dice loro che i soggetti di cui trattano non si trovano nell'esperienza, o, nei termini della filosofia analitica, non hanno referente, e dunque sarebbe meglio per loro tacere.
Il grande rimprovero che mossero a Nagarjuna i suoi avversari fu quello di demolire tutto, e dunque di non lasciare nulla della comunità e di non acquisire meriti con tale severa disciplina. In breve il buon senso dei monaci si sentì minacciato e Nagarjuna, in ognuno dei 27 capitoli della sua opera principale, dopo aver dato la parola alla tesi scolastiche, si mise a confutarle dialetticamente. Prima sulla difensiva, affermando di non essere un asika, un "negatore" o un "miscredente", ma di essere piuttosto un autentico monaco buddhista, fedele al Canone e agli insegnamenti del Buddha. Successivamente passando all'offensiva, affermando non soltanto di non distruggere tutto e di non fare il vuoto, ma che addirittura erano i suoi avversari che, riempiendo il loro spirito di entità inesistenti, non potevano rendere conto né della vita di tutti i giorni né del cammino che porta al nirvana.
In particolare, nel capitolo XXIV dove si svolge il dialogo decisivo tra gli abhidharmika, i seguaci dell'Abhidharma, e Nagarjuna, questi afferma che sebbene sia stato accusato di essere nihilista, di essere un asika, egli non lo è affatto. Ma che piuttosto sono gli abhidharmika a non capire nulla della vacuità, della shunyata. Infatti ciò che egli intende sotto il nome di vacuità, non è nient'altro che la coproduzione condizionata. Dunque il parlare di vacuità e di vuoto è soltanto una metafora, un modo per parlare del cammino di mezzo, la celebre Madhyamapratipad, che resta attraverso il tempo e lo spazio e tutte le variazioni del Buddhismo.
Il Buddhismo, infatti, è sempre un cammino di mezzo. In particolare è una via di mezzo tra il dire astiti "c'è l'essere" e il dire nastiti "non c'è l'essere". Questo è espresso in un sutta assai celebre attribuito al Buddha, il Kathyayanasutra, molte volte ripreso nel Mahayana, nel quale si afferma che dire "c'è", è un estremo, quello dei brahmani e dei metafisici; dire "non c'è", o "non c'è niente", è un altro estremo, quello dei nihilisti, dei miscredenti, dei materialisti. L'obiettivo invece è quello di passare tra i due estremi: il nihilismo e il materialismo da una parte, l'ontologia e la metafisica dall'altra.




Qual è la tecnica dialettica fondamentale di Nagarjuna?




Nagarjuna, nel confutare i suoi correligionari e i suoi avversari, utilizza la pratica dialettica del prasanga pratiseda, cioè la confutazione senza contropartita positiva. Ciò che sorprende di tale procedere dialettico è che Nagarjuna non si sente obbligato, per il fatto di aver confutato una proposizione, di accettare la sua contraddittoria. In altri termini fa funzionare in maniera rigorosa e implacabile per sé e per gli altri il principio aristotelico di non contraddizione. Ma per quanto riguarda il corollario che Aristotele deduce dal principio di non contraddizione, ovvero il principio logico del terzo escluso, occorre fare una distinzione. Tale principio comporta infatti una limitazioni: se due giudizi sono contraddittori, uno deve essere vero, per cui non vi è via di mezzo, non vi è una terza possibilità che appunto resta esclusa. Ora Nagarjuna è completamente d'accordo nel dire che non ci può essere una terza soluzione, ma non accetta la limitazione che di due proposizioni contraddittorie se ne debba accettare almeno una. Su questo punto Nagarjuna scivola via come un serpente affermando che se entrambe le proposizioni non hanno senso, se sono semanticamente malformate, se sono irrelevanti o prive di senso, non si è obbligati ad adottarle.
Esiste tuttavia un'altra scuola buddhista che pratica, a differenza di Nagarjuna, il paryudasa pariseda, ovvero la confutazione accompagnata da una contropartita positiva. Principale esponente di tale scuola, detta Sautrantika-Svatantrika, è Bhavaviveka. Egli pensa che anche un madhyamika, anche un discepolo del Buddha, possa prendere la parola di sua iniziativa e dimostrare con un ragionamento affine al sillogismo la verità di ciò che va affermando, senza bisogno di confutare nulla. Personalmente ritengo tale modo di procedere sia molto più accettabile per uno spirito europeo, ma meno fedele all'ortodossia del Buddhismo, e in particolare del Madhyamaka.
Credo che nel Brahmanesimo il silenzio del prete, detto brahmano, emerga su uno sfondo di gesti e di parole, mentre nel Buddhismo è la parola che emerge su uno sfondo di silenzio e per comprenderla non c'è niente di meglio da fare che tacere e contemplare l'iconografia buddhistica, che ha l'ultima parola, poiché, come affermò Candrakirti, il modo d'essere supremo è il silenzio dei santi.




Che cosa è il Vijnanavada?



Una soluzione al presunto rigido negativismo di Nagarjuna tentò di darla la scuola logico-epistemologica del Vijnanavada. L'iniziatore di questa scuola fu, secondo la tradizione, Asanga, nato nel IV secolo d.C. nella città di Purusapuran nel Nord dell'India. Ora, Vijnanavada vuol dire scuola della coscienza o della conoscenza pura; non è un caso dunque che tale scuola fosse chiamata anche Cittamatra, che vuol dire il pensiero o la "mente" e null'altro, o anche Vijnaptimatra, che vuol dire la "comunicazione" o l' "informazione" e null'altro. Tale scuola infatti è fondamentalmente idealistica, perché vi si sostiene che, in definitiva, non c'è che il pensiero, o meglio che è il pensiero che governa tutto.
Per quanto possa sembrare strano, il Vijnanavada ha il suo fondamento scritturale nel Canone buddhistico, o almeno in due sutta canonici, in cui si dice appunto, che è il pensiero che governa tutto e che quando il pensiero è impuro l'uomo è impuro, e che quando il pensiero viene purificato anche l'uomo è purificato. Tuttavia tali sutta sono dei testi minori. Come è possibile dunque che un'intera scuola idealistica si fondi essenzialmente su di essi? Qual è in verità la sua origine più profonda? La vera origine è rappresentata da una spina nella carne dottrinale del Buddhismo. Poiché il Buddha non affermò mai l'esistenza dell'io, ma anzi lo scompose in cinque fattori di aggregazione, e tuttavia sostenne la dottrina della reincarnazione, nello spirito dei monaci sorse inevitabilmente il quesito di chi trasmigrasse dopo la morte. E allora gli idealisti immaginarono una coscienza-magazzino o alayavijnana, immaginarono cioè una coscienza del profondo, un inconscio dinamico.
Supponendo l'esistenza di un fiume mentale sotterraneo, che passava da un'esistenza all'altra, in primo luogo si arrivò a spiegare la continuità da una vita all'altra, e in secondo luogo si evitò di cadere nella teoria brahmanica, ontologica e metafisica, dell'esistenza di un atman immobile e immutabile. Ecco perché si arrivò alla scoperta della nozione di alayavijnana e all'affermazione che in ultima istanza c'era solo coscienza, sia oscura sia lucida.
L'idealismo di questa scuola tuttavia è diverso da quello europeo, in quanto va fino in fondo alle conseguenze che trae, conseguenze del tutto impreviste per degli occidentali. A tal proposito vale la pena citare Asanga il quale affermò che ciò che è altro dal pensiero, non è, e che l'altro dal pensiero è il conoscibile, letteralmente il "prendibile", grahya. Se dunque il conoscibile non è, per ciò stesso il conoscente, colui che prende, grahaka, anche lui è nulla. Dunque, alla fine, questo idealismo conseguente e dialettico, sbocca nella vacuità, nella shunyata, e pertanto, malgrado le apparenze, rappresenta un prolungamento del Madhyamaka e del Canone buddhistico.



Quale è stata la ricezione del Buddhismo in Europa nel XIX secolo e nella prima metà del XX?



Per rispondere a questa domanda vorrei riportare rapidamente le idee di alcuni autori poco ricordati ai giorni nostri, ma che hanno avuto una popolarità immensa. Nel 1860 Jules Barthélemy Saint-Hilaire, spiritualista e discepolo di Victor Cousin, in un libro che ha fatto scalpore, Le Bouddha et sa religion, scrive che ci si potrebbe chiedere se l'intelligenza di quei popoli è fatta come la nostra e se in quei climi in cui si ha la vita in orrore e in cui si adora il nulla al posto di Dio, la natura umana è la stessa che sentiamo in noi. Persone come Victor Cousin, professore al Collège de France, che avevano grande successo tra i giovani, hanno avuto opinioni più sfumate, più varie. All'inizio Victor Cousin pensava che il Buddhismo fosse qualcosa di valido, ma poi si allineò con una opinione prossima a quella di Barthélemy Saint-Hilaire e cioè che il Buddhismo fosse una dottrina, un culto del nulla.
Quinet intende il Buddha nel libro Le génie des religions del 1842, come il grande Cristo del vuoto. Renan nel 1851 parla del Buddha come del fondatore della Chiesa del nihilismo. E perfino un grande come Hegel, a partire da una documentazione, evidentemente embrionale, nelle Lezioni sulla filosofia della storia parla dell'elevazione negativa propria del Buddhismo, per il quale, secondo lui, il nulla è il principio di ogni cosa, da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna.
Anche Nietzsche si è interessato del Buddhismo sostenendo un atteggiamento a due versanti. Da un lato, infatti, afferma che il fenomenismo stretto del Buddhismo, ovvero l'impermanenza e l'insostanzialità, lo ha liberato dal platonismo che esecrava, aggiundo che «il Buddhismo è l'unica religione veramente positivistica che ci mostri la storia». (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1982, p.47), che il Buddha è un «profondo fisiologo», e la sua igiene è fondata sulla constatazione che il risentimento «che nasce dalla debolezza, non è dannoso a nessuno quanto al debole stesso» (F. Nietzsche, Ecce Homo, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1965/81 p.27), che «il Buddhismo è cento volte più realista del Cristianesimo» (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1982, p.47) e che l'Occidente cristiano avrebbe forse bisogno di un neo-buddhismo.
Ma dall'altro lato Nietzsche vede nel Buddhismo una astenia della volontà. Nell'ultima pagina della Genealogia della morale, infatti, egli dichiara, a proposito del ascetismo, che «l'uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere...» (F. Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1968/84, p.157). E analogamente spiega il misticismo come un sadismo rivolto contro se stesso. Di conseguenza afferma che la volontà del nulla ha la meglio sulla volontà di vita, e che vede approssimarsi il tempo del nihilismo e che soltanto la tragedia ci potrà salvare dal Buddismo. Ed è perciò che in definitiva Nietzsche si oppone al Buddhismo, che aveva conosciuto attraverso il suo amico Deussen, il quale, d'altronde, detestava il Buddhismo al quale preferiva il Brahmanesimo.
Nel XIX secolo, dunque, il Buddhismo, in generale è visto come una dottrina e un culto del nulla, salvo rare eccezioni, come quella rappresentata da Burnouf, con la sua Introduction à l'histoire du Buddhisme indien del 1844, e per certi aspetti da Schopenhauer. Ma anche Burnouf in definitiva, benché sia molto al di sopra dei suoi contemporanei, pensa che la volontà del nulla nel Buddhismo sia predominante. Schopenhauer forse è più lucido. Egli infatti non pensa che il Buddhismo sia un nihilismo, ma piuttosto che sia una dottrina fondamentalmente pessimistica.
Agli inizi del XX secolo vi è però un grande studioso, Louis de La Vallée Poussin decisamente in anticipo sulla maggior parte dei suoi contemporanei. Egli ha curato un'edizione critica delle Stanze del cammino di mezzo di Nagarjuna, con il commento di Candrakirti, assai dotta, sulla base di tre manoscritti. Tuttavia anche Louis de La Vallée Poussin, che è tutto, tranne che desueto, tanto è vero che ancora oggi viene salutato come un maestro da scienziati di livello internazionale, quando si interessa ai buddhisti più radicali, quali Nagarjuna, afferma che questi non era certo un nihilista, ma era un sofista, anche se un sofista così "virtuoso", così brillante, che non gliene si può volere. E aggiunge che forse di Nagarjuna, che si prende gioco di noi senza dircelo, bisognerebbe cogliere tra le righe il sorriso.





Qual è la situazione attuale del Buddhismo sia in Oriente che in Occidente?



Attualmente il Buddhismo sopravvive in India, nel Bengala, con tanti piccoli focolai, che non si sono mai spenti. Questo perché uno dei fondatori della costituzione indiana, Ambedkar, che era il leader degli intoccabili, si convertì al Buddhismo, pensando che questo fosse il modo migliore per uscire dal sistema delle caste. Egli dunque si trasferì a Bombay, dove, con un gran numero di discepoli, che erano, come lui, degli intoccabili, fondò un gruppo buddhista indiano. Sfortunatamente morì pochi mesi dopo, sicché il Buddhismo è sopravvissuto in India soltanto all'interno di cerchie assai ristrette.
Nell'Asia settentrionale il Buddhismo ha una presenza pregnante in Tibet, Cina, Mongolia, Corea e Giappone. Inoltre è presente anche in quasi tutti i paesi del Sud-Est asiatico, quali lo Sri-Lanka, la Birmania, il Laos, la Thailandia e il Vietnam. Perciò la comunità buddhistica, in senso largo, è ancora pienamente viva ai giorni nostri.
La domanda che possiamo porci è: qual è l'avvenire del Buddhismo europeo o americano? L'illustre Professore Edward Conze, buddhista praticante, si è posto la domanda circa venti anni fa, e ha risposto che il Buddhismo in Europa avrebbe sicuramente avuto uno sviluppo. Quanto a me, ritengo che il Buddhismo potrà acclimatarsi in America o in Europa, sotto forma di piccoli gruppi, che potranno diventare molto influenti, ma che non saranno mai numerosi. Il Buddhismo non può adattarsi alle masse europee o americane perché gli occidentali hanno un senso violento e pregnante dell'io. E in definitiva, nella vita quotidiana, che cosa implica dire "io" o "me"? Personalmente ritengo possa implicare due cose: il concepirsi e il sentirsi come l'autore e l'attore dei propri atti, o il sentirsi anche come il consumatore e il fruitore del proprio godere, nella buona e nell'avversa sorte. Ora, a livello dell'esperienza quotidiana, un occidentale non si potrà mai disfare dell'idea di un io sostanziale, unico e soprattutto semplice, perché si concepisce e vive, come autore dei suoi atti, responsabile dei suoi atti, nel bene e nel male, come il degustatore e il consumatore di ciò che gli accade di piacevole o di spiacevole nella vita.
Abstract:
Guy Bugault ricorda innanzitutto alcuni dati della vita di Siddhartha Gautama Bodhisattva e spiega il significato del soprannome Buddha, il risvegliato (1). I sermoni del Buddha sono stati tramandati nei "sutra" e poi redatti nel Canone; Bugault delinea quindi a grandi linee l'insegnamento del Buddha, mostrando come il buddhismo non sia né un moralismo, né una pratica, né un intellettualismo (2). Bugault illustra quindi le tappe della nostra vita anteriore ed intrauterina presentandola come una prima formulazione del concetto di legge o di funzione senza causa e descrive i dodici anelli dell'individualità psicosomatica (3). Bugault presenta poi le principali scuole buddhiste sottolineando come gli insegnamenti del Buddha fossero sempre calati nella situazione e solo in seguito fossero stati sistematizzati dai monaci: l'Abhidharma è il trattato della legge (4), la "Madhyamaka" fu fondata invece dal celebre Nagarjuna, di cui si ricordano le Stanze del cammino di mezzo contenenti una critica alla causalità, al movimento, allo stesso Buddha e al nirvana, in argomentazioni assai articolate a proposito del materialismo e del nichilismo (5). Bugault rimanda alla tecnica argomentativa di Nagarjuna nel tetralemma, alla teoria della confutazione anche rispetto al principio di non contraddizione e del terzo escluso e ricorda infine il significato del silenzio per il buddhismo (6).
Tratta poi della scuola logico-epistemologica del "Vijnanavada" e del suo fondatore, Asanga, ricordandone l'impostazione idealistica, la teoria del pensiero, della coscienza e dell'inconscio (7).
Bugault presenta quindi l'interpretazione del buddhismo nel XIX e XX secolo con particolare riguardo a Barthélemy Saint-Hilaire, Cousin, Quinet, Renan, Hegel e Nietzsche, che vi videro una sorta di nichilismo, mentre Burnouf e Schopenhauer lo interpretarono come una dottrina pessimistica (8).
Conclude ricordando che il buddhismo sopravvive in India in cerchie ristrette, mentre è più presente negli altri paesi asiatici, soprattutto in Giappone e nel Sud-Est asiatico; per quanto riguarda la sua possibile espansione in Europa o in America, Bugault ritiene che interesserà soltanto piccoli gruppi a causa della diversa concezione della soggettività e dell'io (9).

Napoli, Istituto Italiano studi filosofici, Palazzo Serra di Cassano, 13 ottobre 1990

mercoledì 19 dicembre 2007

La barca vuota

“Immaginate una barca carica che, mentre attraversa un fiume, venga urtata da un’altra barca vuota alla deriva; i marinai, anche se fossero gente irascibile, non andrebbero in collera. Ma se nella barca c’è un uomo, grideranno perché si allontani. Se non dà loro ascolto, grideranno una seconda volta; se continua a non ascoltarli, inveiranno con ingiurie. In breve, la barca non eccita la collera se è vuota; la provoca solo quando è occupata. Così, chi potrà nuocere a colui che avrà saputo vuotarsi del proprio io?



Questo brano proviene dal capitolo Shanmu del Zhuangzi (Chuang-tzu), un filosofo daoista che pur non essendo così sistematico come un filosofo buddhista, dice comunque molte cose interessanti; possiamo dire anzi che quest’opera (Zhuangzi ) ha compartecipato, insieme al Buddhismo indiano, alla fondazione del Buddhismo Chan o Zen. Benché Zhuangzi non sia così sistematico come, ad es. un filosofo buddhista, la sua lettura, molto annedotica e divertente, può essere di ispirazione e di rilassante conferma per la pratica del meditante. Una sua ottima traduzione si trova nella collezione Adelphi. Vissuto in Cina in un’epoca per molti aspetti ancora molto primitiva (intorno al 350 a.C., un po’ più di 100 anni dopo il Buddha) egli ha contribuito in maniera notevole alla critica e alla de-costruzione del concetto del sé.
Il discorso della barca, qui sopra, è connesso con il concetto di vacuità. Se le cose sono prive di un sé intrinseco, a che vale arrabbiarsi con loro? Dovremmo vedere tutto come una barca vuota. Essa potrà farci anche più danni di una barca piena di persone ma non ci verrà fatto di creare avversione nei suoi confronti. Vivremo quell’esperienza come un semplice fatto, un fatto avvenuto, un fatto impersonale. Perciò la risoluzione di ogni problema sarebbe cogliere l’impersonalità dei fatti. Questa è l'EQUANIMITA’.

Stamattina, all’inizio della meditazione, riflettevo su un mio amico d’infanzia. L’ho incontrato al bar e ho sentito che parlava di prostatite. Siccome questa è una malattia che tocca la stragrande maggioranza degli uomini, me compreso, sono intervenuto nel discorso chiedendo informazioni sulla sua salute. E’ venuto fuori che dovrà fare una biopsia attraverso un procedimento, credo, anche un po’ doloroso. Siccome è stato un compagno di infanzia e anche se le nostre vite si sono molto allontanate e quasi, direi, essendo l’una il rovescio dell’altra, ho provato dispiacere e affetto per lui. Pensando a lui, mi sono identificato con lui, con il timore che deve provare verso l’ignoto, verso l’avvenire. Benché cercasse di mascherarla, ho colto la paura nel suo discorso apparentemente spavaldo.

Mentre, come dicevo, all’inizio della meditazione pensavo a lui, mi è venuta in mente un’altra persona con lo stesso problema, venuta qualche volta a meditare. Anche questa persona angosciata, uno sguardo come di animale braccato. Anche con lui c’è identificazione, c’è com-passione. E di seguito mi sono venute in mente altre persone, con problemi di salute di altro tipo o, semplicemente, morte, talvolta molto giovani. Per tutte queste persone, oltre alla com-passione, ho sviluppato dentro di me, la irradiazione di equanimità. L’accettazione cioè che ognuno è erede delle proprie azioni. E’ quello che in oriente viene chiamato karma.

Benché a volte le connessioni possano non sembrare così chiare, mi appare ovvio come anche la malattia sia spesso, se non sempre, legata alle nostre azioni, alle nostre predisposizioni mentali, alle scelte che facciamo. In questo si può dire che ciascuno è erede delle proprie azioni o meglio delle proprie disposizioni mentali. Viviamo in un mondo intriso di mente o mentazione e non c’è da sorprenderci che quello che ci accade sia determinato dalla mente. Perciò, tornando all’irradiazione di equanimità, occorre sviluppare questa irradiazione neutra che ha per base l’empatia e la compassione ma che è pura e semplice accettazione. Accettiamo il destino degli esseri, incluso il nostro. E’ come il caso di una barca vuota.

Così ho cominciato a focalizzarmi su questa energia o irradiazione dell’equanimità. Qui ci si può focalizzare in due modi. Il primo è pensare a noi come una divinità che irradia accettazione verso il destino degli esseri. Il secondo, secondo me superiore e tipico non di una semplice divinità ma di un Buddha impersonale (un Buddha è limpersonalità assoluta!) è quello di pensare e vivere l’irradiazione senza però un centro. E’ superato anche il concetto di divinità.

Questa irradiazione sarà allora una pervasione di tutto l’universo non da parte di ‘qualcuno’(una visione irrimediabilmente dualista) ma semplicemente da parte di una forza senza centro in cui si trovano anche le nostre componenti psico-fisiche. Ho fatto questo inglobando nell’irradiazione (o meglio nella pervasione universale senza centro) tutti gli esseri. Poi ho eliminato il concetto di esseri e ho lasciato solo l’irradiazione o pervasione, nella spaziosità creatasi (lo spazio è infinito; la mente è infinita; nulla esiste - dicevano, in quest’ordine, gli antichi meditatori) .



E questo è tutto!

Un Maestro interessante: Huangbo

Riguardo alla pratica meditativa ho fatto altre volte l’esempio di uno che sta immerso in un lago e grida: “Ho sete! Datemi da bere”.

Con questo voglio dire e più volte ho ripetuto che è già tutto qui quello che ci serve, siamo già immersi nella realtà ultima, è inutile che andiamo a cercarla chissà dove. Un mio amico, Iano, mi ha scritto di recente un commento fatto di domande rispetto all’ultimo numero della newsletter. Potete trovare il testo della news intervallato dalle sue domande critiche sul forum di questo sito.

In particolare c’era una sua domanda a cui è stata data una certa risposta che forse qualcuno troverà inconsueta.

IANO: " Ma la domanda che mi viene di farti è, come sono le cose e che cosa sono le cose?
Cosa vuol dire trascendere le cose?"

Loriano: "Poiché mi sembra di ricordare che sei credente, proverò a risponderti con termini evangelici. Trascendere le cose vuol dire trovare qui in terra il regno dei Cieli. Non quindi in un'altra dimensione ma esattamente qui.
In quanto alle "cose" non posso risponderti in termini evangelici ma ti dirò che pur usando questo termine lo riconosco come improprio.

Non ci sono cose. Ci sono fenomeni, tutti passeggeri anche se hanno continuità nel loro divenire. Tutti questi fenomeni dipendono da altri fenomeni e così via. Questa è la vacuità, la mancanza di una sostanza stabile inerente alle "cose" .

Ritorno a "trovare qui in terra il regno dei cieli" . Accettare la transitorietà di tutte le cose è pacificarsi con il reale così com'è, giusto tale e quale. Questo è trovare il regno dei Cieli. Ma ragionare così significa far cessare ogni dualismo. Né bene né male, né bello né brutto, né positivo né negativo. In termini convenzionali, dualistici, noi tutti usiamo questa terminologia. Riconciliarsi con il mondo ed accettarlo com'è significa invece non riconoscerla [la terminologia] che in termini provvisori. Il regno dei Cieli non ha nè bene nè male.”

Ecco, questo è un esempio di quello che volevo dire all’inizio con la parabola dell’assetato. E questo risponde in parte anche ad un’altra questione, non posta da Iano ma che comunque appare qua e là nei discorsi della gente, cioè la validità di una esperienza di un praticante.

Praticando la meditazione si hanno talvolta esperienze di vario tipo, inclusi fenomeni di “risveglio temporaneo” . Non è una novità. Nel Canone Pali si parla di saamaykaa cetovimutti cioè “temporanea liberazione della mente” e si riporta il caso di Godikha che per sei volte raggiunse questa liberazione per poi decaderne; alla settima volta, mentre si trovava nello stato di liberato, pose fine alla propria vita evitando così di ricadere fuori dalla Liberazione.

Ora credo che nessuno di noi voglia giungere a questo estremo. Ma ho raccontato questo episodio per fare capire che questi stati non sono infrequenti per chi medita. Mentre la tradizione Theravada è piuttosto avara nel raccontarli, essi sono frequenti nella letteratura Chan/Zen. Il problema di queste esperienze è di non reificarle, di non farne un feticcio ma di lasciarle andare, per importanti che ci sembrino.

Il mio orientamento iniziale quando ho cominciato a meditare era strettamente (direi quasi: settariamente) Theravada che è, in effetti, la più antica fra le tradizioni attualmente presenti ma, con l’andare del tempo e dopo certe esperienze, mi sono aperto anche verso altre correnti di pensiero; così la tradizione Madhyamika di Nagarjuna e la tradizione del Chan o Zen (Chan è la forma originaria cinese, Zen quella giapponese: entrambe le forme derivano da Dhyana/Jhana, “meditazione profonda” ) .

Ci sono nello Zen alcune impostazioni teoriche con cui non concordo (ad es. una certa sostanzializzazione della Mente che sembra appunto creare una sostanza là dove non ne appare il bisogno) ma l’impostazione meditativa è molto simile, per certi versi, a quella più antica, ad es. ha somiglianze con quella delle tre Porte della Liberazione e cioè la vacuità, il non-segno e la non-direzionalità.

E’ una bella liberazione non essere strettamente legato ad una tradizione. Puoi indagare, puoi cercare, non hai i limiti che una tradizione sempre pone. Si dice che il Dharma sia come un diamante con 84000 sfaccettature. Ognuno può guardare dalla sfaccettatura che preferisce, arriverà sempre verso il centro.

Un maestro antico che trovo molto interessante è il maestro Chan Huangbo (vissuto intorno all’850 d.C. e rappresentante della tradizione Chan di Hongzhou). Questo maestro avrebbe sconcertato più di un ‘credente’ buddhista. E’ mia intenzione pubblicare un articolo su di lui su “Emptiness” ma nel frattempo voglio citare qualche suo passaggio. Da una parte egli sostanzializza un po’ troppo, a mio parere, il concetto di “Mente” , facendone in qualche modo un’entità sostanziale ma per quanto riguarda l’aspetto meditativo mi sembra un maestro eccellente che ruppe con un assetto tradizionale avendo il coraggio di portare avanti idee nuove, rivoluzionarie.

Secondo Huangbo poiché noi risiediamo già nella realtà ultima (egli la chiama la Via, il Dao) , “non c’è niente che dobbiamo fare” : L’illuminazione è perciò semplicemente il risvegliarsi a questo fatto. “ Risvegliandovi improvvisamente voi arrivate a capire che la vostra mente è il Buddha, che non c’è niente da essere raggiunto né alcun atto da compiere. Questa è la vera via, la via del Buddha” .

Egli quindi svolge una critica verso la pratica concepita come una serie di stadi da raggiungere. Potremmo dire che ha una visione olistica ed immanente della illuminazione (un po’ come lo stesso Dogen, secoli dopo) . “Il Buddha reale – egli asserisce- non è un Buddha a tappe” . Se la propria mente è già nella realtà ultima allora le pratiche religiose ordinarie che presuppongono una separazione dualistica fra se stesso e lo scopo della pratica, di fatto ostacoleranno il risveglio. Perciò Huangbo chiede che si silenzino tutti i pensieri che creano una separazione fra la mente e la realtà. “ La (vera) mente non è una mente di pensiero concettuale... Se eliminate il pensiero concettuale ogni cosa sarà realizzata” .

Huangbo portò l’idea di non-attaccamento alle sue più logiche conseguenze. Come scrive Dale S. Wright, cercare il Nirvana era considerato la via alla salvazione. Di fatto questo nel tempo aveva portato a creare una “cosa” del Nirvana stesso (ad es. nell’Abhidharma) finché qualcuno (Nagarjuna fra i primi) cominciò a rendersi conto che questa stessa ricerca correva sul sentiero del desiderio di un oggetto che tale non era (il Nirvana) .

Perciò secondo Huangbo la liberazione è il risveglio dal desiderio di cercare di essere risvegliato (al proposito si leggano “L’altro lato della collina” ed anche “Esperienze 3” sul sito Emptiness... – per inciso “Esperienze 2 “ verrà pubblicato quando possibile) .

L’alternativa al “cercare” è vivere spontaneamente senza attaccamento.

giovedì 13 dicembre 2007

Visualizzati come una divinità

Ho visto spesso, durante i ritiri di meditazione, facce cupe ed espressioni serie, l'espressione di chi si "sforza". Mentre occorre un giusto sforzo, questo sforzarsi eccessivo è proprio il contrario del "lasciare andare".Proprio perché il "Lasciare andare" è così importante nella pratica, l'atteggiamento che più gli è corrispondente è quello del rilassamento vigile. Faccio spesso l'esempio del cacciatore. Durante la pratica dell'attenzione bisognerebbe essere come il cacciatore appostato in attesa che compaiano gli uccelli. E' vigile ma non è teso e poiché fa una cosa che gli piace, è attento ma rilassato (purtoppo per le prede) e perfino gioioso. Ecco, questo è esattamente lo spirito con cui si dovrebbe affrontare la pratica. Attenzione vigile-rilassamento gioioso: ancora una volta unificazione degli opposti.


Sempre in quest'ottica, cioè quella del rilasciamento vigile e del lasciare andare, sarebbe opportuno adottare un atteggiamento di "pratica dell'obiettivo". L'obiettivo di chi pratica è quello della realizzazione, della Liberazione. Ora, anche questo obiettivo è contraddittorio: perché si può realizzare questo obiettivo solo lasciando andare anche questo stesso scopo. Se realizzazione e liberazione sono la stessa cosa, occorre liberarsi anche da queste idee. E'chiaro che se non avessimo uno scopo- che poi è quello di arrivare alla liberazione dalla sofferenza- non faremmo nessuna pratica. Nello stesso tempo questo scopo è raggiungibile solo se lo neghiamo. Che paradosso! E ancor più paradossale è che per negarlo bisogna praticarlo. Dogen, il grande maestro Zen, era già arrivato a questa conclusione: la pratica stessa è l'Illuminazione. I maestri tantrici, in forme diverse, hanno avuto la stessa idea. Questa era già presente, in embrione, nel Buddhismo primitivo. La pratica delle "sedi divine" implicava la visualizzazione di se stessi come esseri radianti e la rinascita conseguente come divinità. Il Buddha era però andato oltre. Mentre riconosceva la rinascita come divinità come positiva per il livello di molti praticanti,pure la identificava semre come una rinascita ( e tutto quello che nasce prima o poi dovrà patire la sofferenza del soffrire e del morire: è la nascita la causa della morte) . Perciò la liberazione implicava liberarsi anche da questo stato. Ma che cos'è la buddhità, la realizzazione? E' così diversa dallo stato di divinità?



Si può rispondere che è la stessa cosa ed è diversa allo stesso tempo. Lo stato di divinità implica alcune caratteristiche che sono ancora concettualizzabili: pur perdendo i confini di un corpo umano e diventando esseri radianti, resta, in qualche modo sottile, l'idea di un sé, quindi qualcosa di sostanziale e stabile [l'anima di cui si favoleggia] , di definibile e di concettualizzabile. Lo stato di un Buddha, un Tathagata ("così-andato") è invece insondabile, al di là di ogni concettualizzazione. Si potrebbe dire (usando un linguaggio di concetti che purtoppo ènecessario) che si tratta di una coscienza basata su nulla. C'è un esempio nei testi classici che lo illustra (Samyutta Nikaya, Nidanavagga, 64 ) :
" -Supponete... che ci sia una casa o una sala con un tetto a punta, con finestre sui lati nord, sud ed est. Quando il sole sorge e un raggio di luce entra attraverso una finestra, dove si stabilirebbe?

- Sul muro occidentale, venerabile signore.


- Se non ci fosse nessun muro occidentale , dove si stabilirebbe?


- Sulla terra ,venerabile signore.


- Se non ci fosse alcuna terra.dove diverrebbe stabilito?


- Sull'acqua venerabile signore.


- Se non ci fosse alcuna acqua, dove diverrebbe stabilito?


- Non diverrebbe stabilito in alcun luogo, venerabile signore."


Si potrà obiettare che noi (noi intesi come singoli individui) siamo limitati, siamo ben al di sotto di questo stato. Mentre questo va riconosciuto, d'altra parte dobbiamo fare i conti con il fatto che nessuna sostanza stabile esiste nel mondo e che tutto è costituito da processi. Se avete seguito, su queste pagine, tutta la lotta che qui viene condotta contro il concetto di sostanzialità che permea quasi tutto il pensiero occidentale ( e più che mai quello religioso) , potrete apprezzare il fatto che la visione di questa realizzazione possa essere concepita come un processo ( e allo stesso tempo come un fatto immediato) , un cambiamento in essere, una dinamicità e non una staticità. Importante è il "vedere" questa realizzazione in processo, questa dinamicità. La nostra pratica, come dice De Mello, può essere riassunta in tre parole: "consapevolezza, consapevolezza, consapevolezza".


Praticare perciò può essere concepito nel visualizzarsi come una divinità (e nel misurare anche le nostre manchevolezze alla luce di questo standard) . E' solo un "mezzo abile" se vogliamo ma qualcosa che, partendo dal sorriso interiore e dalla radianza di gentilezza amorevole, compassione, gioia ed equanimità e


unito a consapevolezza e visione, ci porta a visualizzarci ed a praticare come divinità e come Buddha-in-processo.


Perciò, appena iniziamo la meditazione, sorridiamo lievemente come un Buddha o una divinità, creiamo una sorta di identificazione mentale con questo ideale, spargiamo il sorriso interiore in tutto il nostro corpo-mente e passiamo ad irradiare verso l'esterno in ogni direzione. Possiamo usare la gentilezza amorevole e poi, in successione inversa, l'equanimità come veicolo della nostra irradiazione o possiamo essere semplicemente consci dell'irradiazione stessa, senza oggetto o veicolo. Se usiamo gentilezza ed equanimità potremo accoppiare due aspetti della buddhità, la compassione verso ogni essere vivente e nello stesso tempo l'accettazione assoluta del destino di ogni essere (ancora una volta l'unificazione di due opposti) . Se semplicemente "stiamo", senza alcun oggetto particolare, possiamo però essere consapevoli dei vari "corridoi percettivi" che si stabiliscono fra, ad es. le orecchie e il suono, fra percezione sonora e mente, fra oggetti mentali e mente. Possiamo così realizzare una meditazione sullo spazio che comprende i vari elementi della corporeità, dei sensi, della coscienza e di questi corridoi percettivi. Questa è la meditazione sulla vacuità, dove l'unità corpo-mente si dissolve in una serie di aggregati presenti qua e là nello spazio. Il senso di questo è l'abbandono dei concetti di "io" e "mio".



Visualizzati come divinità anche durante la giornata. La consapevolezza degli stati mentali che sorgono nella vita quotidiana porterà a un confronto con lo standard di divinità o buddhità. Vedremo le nostre manchevolezze ma le osserveremo da lontano, in maniera distaccata, accettandole. Saremo consapevoli che vi sono cause e condizioni per essere come siamo e accetteremo questo.D'altra parte lo standard della divinità o buddhità fornirà un criterio con cui misurare queste manchevolezze. Ma saremo anche consapevoli che siamo "esseri in processo" e, guardandoci da lontano, in maniera distaccata, accetteremo sorridendo.
Sommario


Entrare nel primo dhyana/jhana


La visualizzazione di se stessi come divinità può portare (può-ma non è detto) a conseguire il primo dhyaana (o jhaana ) se associata alla meditazione senza-segno. I dhyaana o jhaana fanno parte del sentiero originario del Buddha al Risveglio e alla Liberazione. Prima di tutto vediamo come svolgere la visualizzazione come divinità.


Potete partire dal sorriso interiore e da una consapevolezza espansa. Irradiate in tutte le direzioni, godete della tranquillità che dà questa irradiazione. State un po' in questo stato. Vi accorgerete che dopo un po' arriveranno idee, distrazioni ecc. ; la mente umana ha sempre voglia di chiacchierare ed è anche naturale che ciò sia così, essendo noi coinvolti continuamente in cose mondane. Occorre accettare questa nostra situazione anche se forse, a prima vista, ci potrà sembrare un disturbo. Sicuramente queste idee, chiacchiere , immagini ecc. cercheranno di risucchiarci. Ecco, qui dobbiamo prestare molta attenzione: possiamo accettarle ma non farci risucchiare da esse, altrimenti ne saremo travolti. Occorre adottare l'attitudine dell'osservatore o del "pastore" . Come un pastore osserva da lontano le sue pecore senza esserne troppo coinvolto, così noi possiamo osservare le "pecore" vaganti dei nostri pensieri senza esserne disturbati più di tanto. Questa è la consapevolezza accettante. Accetto che voi esistiate ma non mi faccio coinvolgere. Vi guardo e basta.


Ad un certo punto può darsi che ci rendiamo conto però di un certo fastidio nell'osservare questa massa confusa di idee. Forse si sarà già riflettuto in precedenza (o è il caso di farlo adesso) di come tutto quello a cui la mente si attacca sia classificabile sotto i due aspetti di "desiderio" e "avversione" . Possiamo anche renderci conto che la nostra mente è attaccata a tutto questo discorrere, letteralmente "afferra" ( o aderisce a) i singoli pensieri. E l'afferramento è un importante anello della catena del "sorgere in dipendenza" . Possiamo anche decidere di rompere questa catena proprio all'altezza di questo anello. E come?


Il Buddha disse che "desiderio, avversione e illusione producono segni" . Questi segni del desiderio, avversione ecc. sono rintracciabili nel corpo e nella mente. Tensioni, discorsio mentale, immagini ecc. . Basta classificarli, quasi sempre sotto l'etichetta del "desiderio", talvolta sotto quella dell'"avversione". In genere, fatto questo, scompariranno, come un ladro colto in flagrante.


A questo punto la mente sarà prima occasionalmente, poi sempre più continuamente vuota. Continuerete a irradiare in questa vuotezza, semplice irradiazione. Continuerete ad osservare i "segni" che compaiono nel corpo-mente e a classificarli. Ci sarà una grande attenzione e consapevolezza. Poiché i "segni" non compaiono quasi più, vi sarà grande rilassamento. Qui realizzerete l'unità di concentrazione/attenzione e rilassamento.



La scomparsa dei "segni" vi porterà ad isolare la mente da desiderio, avversione, dubbio , agitazione, sonnolenza cioè dai classici "Cinque Ostacoli" alla meditazione. Nei testi antichi questo viene espresso così: " Separato dai desideri, distanziato dai dharma [oggetti mentali] insalubri..--." (Pali: vivicc'eva kaamehi vivicca akusalehi dhammehi...) .
Può darsi che vi accorgiate di stare proprio bene essendovi separati da desideri e avversioni. Può darsi che vi accorgiate di come la vostra mente stia prestando una forte attenzione a quello che state facendo. Questo si chiama vitakka che normalmente viene tradotto con "pensiero applicato": State applicando la vostra attenzione intensamente ma in forma rilassata -altrimenti si creerebbero ulteriori segni dovuti al desiderio- su qualcosa. Poiché questa applicazione vi crea interesse e una certa soddisfazione, cominciate a esplorare questa applicazione e questa sensazione di relativa soddisfazione. Decidete di "valutarla", di farne una valutazione , ma non dall'esterno in forma discorsiva bensì immergendovi sempre più nell'attenzione applicata e nella sensazione di soddisfazione. Ci ricordiamo, forse, che l'attenzione alle sensazioni è uno dei quattro fondamenti della consapevolezza. Comunque sempre più entrate nell'"apprezzamento" o "valutazione" di questa sensazione di soddisfazione. In pratica ne valutate il grado, l'intensità. Questo nei testi antichi si chiama vicaara .

Esplorando e valutando sarete coinvolti nella gioia che potrà esprimersi anche in forma fisica: a me si manifesta tramite una forma di vibrazione lungo la colonna vertebrale ma altri la sperimenteranno in forme diverse. Continuate ad esplorare questa forma di gioia. Nei testi antichi è chiamata piiti .


Ad un certo punto questa gioia comincerà a trasformarsi in qualcosa di più profondo e più rinfrescante, una sensazione più profonda e più gentile di felicità . Questa era chiamata sukha , "felicità" .


A questo punto avrete voglia di risiedere più a lungo possibile in questo stato. Avrete conseguito il primodhyaana o jhaana .


Come ho detto all'inizio il primo jhaana fa parte di una serie di quattro samadhi o assorbimenti meditativi che portarono il Buddha all'illuminazione, alla liberazione, combinati con la visione profonda o Vipassana. Questo tipo di meditazione si chiama invece samatha . Ecco perché il nostro centro si chiama "Centro di Meditazione samatha-vipassana ". L'iIluminazione o liberazione deve avvenire al livello di uno dei quattro jhaana. Conseguire il primo jhaana è un passo importante se pur difficile(è relativamente più semplice ottenere i successivi poiché vi trovate già sulla strada) . E' trovare questa strada che è difficile! Molti non hanno fiducia che essa sia praticabile. In un altro centro di meditazione qualcuno ha sostenuto che la mia asserzione sulla possibilità del Jhaana fosse infondata-per non dire falsa, che solo i monaci potessero ottenerla. Ma non vi è alcuna proprietà privata su di esso, si tratta solo di uno stato mentale. E'questo che contraddistingue il Buddhismo da altre religioni. Le altre sono una questione di fede, questa è una religione di esperienza. Una volta sorte le condizioni per il jhaana, ecco, voi ci siete. Sostanzialmente non è nulla di speciale-e allo stesso tempo molto speciale: basta conseguire una concentrazione applicata e poi sostenuta (vitakka, vicara) e quando si svilupperanno gioia e felicità saprete da soli che quello è il primo jhaana . Tuttavia mentre è relativamente facile ad es. usare sati o consapevolezza per osservare le cose che accadono dentro di noi, più difficile è sempre stato, per tutti i meditatori, conseguire il jhaana. Vi sono le istruzioni del Buddha ma sono schematiche, non entrano nei dettagli psicologici. A quanto sembra a quel tempo la pratica era così diffusa che bastavano poche indicazioni. A volte qualcuno vi si imbatte per caso e non sa che cosa ha provato. Altri hanno letto tanto e tante notizie contrastanti su questo stato da sviluppare un forte desiderio per esso e quindi da essere impossibilitati a raggiungerlo. Altri ancora, dopo averlo provato casualmente ed averlo riconosciuto, hanno ugualmente sviluppato un forte desiderio di riprodurlo che ha loro impedito di realizzarlo di nuovo. E' stato il mio caso. Ho poi dovuto percorrere un lungo cammino per disintossicarmi da questo desiderio. Solo allora esso è tornato.


Perciò bisogna praticare il "lasciare andare" e non cercare un conseguimento. Solo quando vi imbatterete nei quattro fattori sopra esposti potrete, riconoscendoli ed essendo comunque distaccati, esplorare questo stato particolare. Ma se vi mettete a cercarli troverete il loro opposto, il desiderio.



E' perciò necessario praticare la meditazione senza segni, dove vi accorgerete di ogni minimo segno volto al conseguimento di qualcosa. Quando sarete rilassati proverete qualcosa. Indagate questo qualcosa.
IL TESTO (MN I, 247) :

‘Separato dai desideri, separato dai dharma insalubri, munito di attenzione applicata e di attenzione giudicante (savitakkam savicaaram ) , avendo raggiunto il primo jhaana sorto dal distacco e che è gioia e felicità, io vi dimorai.


Anche quando, o Aggivessana, sorse una tale sensazione di felicità, essa non prese completamente possesso della mia mente.


Con la soppressione dell'attenzione applicata e dell'attenzione sostenuta (o giudicante, indagatrice ecc.) , (essendo sorta) la pace interiore che è concentrazione del pensiero su un solo punto, senza più attenzione applicata e sostenuta,prodotto della meditazione che è gioia e felicità, questo secondo jhaana , avendolo raggiunto io vi dimorai.


Tramite il distacco dalla gioia io dimorai sereno, attento e pienamente cosciente, provando la felicità per mezzo del corpo, quello che i Santi qualificano come equanimità, come soggiorno nella felicità: vale a dire il terzo jhaana ; avendolo raggiunto io vi dimorai.


Tramite il distacco dalla felicità e dal dolore, e con la scomparsa precedente della gioia e del dispiacere, senza dolore, senza felicità, questa assoluta purezza dell'attenzione e della equanimità che è il quarto jhaana , avendolo raggiunto io vi dimorai.


Anche quando, in me, o Aggivessana, sorse tale sensazione di felicità,essa non prese completamente possesso della mia mente'



Dopo il quarto jhaana il Buddha raggiunse le Tre conoscenze supreme ed il Risveglio assoluto. Egli era un Liberato, un Risvegliato, un Buddha
Sommario


Note sulla meditazione dhyana/jhana e sul Risveglio-Illuminazione


Ho accennato alle difficoltà di realizzazione del primo jhaana. Poniamo ora l'accento su alcuni suoi requisiti, isolamento e silenzio. Specialmente all'inizio questi due requisiti sono importanti. Vedremo in seguito come l'isolamento sia non solo una delle basi ma anche uno dei risultati del primo jhaana.


Come mai, comunque, il Buddha scelse questa via a guidarlo sul sentiero del Risveglio e della Liberazione?


Quando Sakyamuni abbandonò l'ascetismo inutile ed estremo a cui si era dedicato nella sua ricerca della Liberazione e si chiese come conseguirla, ebbe un ricordo (MN 36,I, p. 246 ) :


" Allora, Aggivessana, io pensai che una volta quando mio padre, il Sakka, stava lavorando (nei campi) , io ero seduto nella fresca ombra di un albero Jambu. Separato da oggetti che risvegliano il desiderio, separato da fattori insalubri (akusalaa dhammaa ) , io raggiunsi (uno stato di) gioia e felicità (piiti-sukha ) accompagnato da contemplazione e riflessione (vitakka-vicaara ) che è il primo jhaana e vi rimasi per qualche tempo. Poteva questa, forse, essere la via (magga ) all'Illuminazione (bodhi ) ?


Dopo questo ricordo, Aggivessana, io ebbi questa conoscenza: questa è la via all'Illuminazione. Allora , Aggivessana, io pensai: perché dovrei avere paura di questa felicità che non ha niente a che vedere con oggetti che risvegliano il desiderio e niente a che fare con fattori insalubri? Allora, Aggivessana, io pensai: non ho paura di questa felicità che non ha niente a che fare con oggetti che risvegliano il desiderio e niente a che fare con fattori insalubri" .


Perciò Sakyamuni si rivolse a rievocare quello stato che aveva provato da ragazzo e vi riuscì, realizzando il primo jhaana e poi in successione gli altri tre dopodiché conseguì il Risveglio.


Possiamo chiederci perché il Buddha intuì che il Jhaana era la via che portava all'Illuminazione. Quale sua caratteristica lo colpì intuitivamente? Ora poiché la caratteristica principale e la causa del primo jhaana è la SEPARAZIONE della mente dagli oggetti mentali negativi, probabilmente fu questa caratteristica a colpirlo, nonché il fatto che questo creava uno stato di contentezza e felicità nella mente, stato che alludeva alla felicità del Nirvana. Per la prima volta Sakyamuni vedeva che la mente poteva essere separata, in una maniera non costrittiva ma anzi felice, dalla ruota del mondo, dalla catena degli afferramenti e del sorgere condizionato. Applicando la consapevolezza a questo primo stato mentale si rese poi conto come contemplazione e analisi mentale fossero ancora fattori di disturbo e passò ad eliminarli, realizzando così uno stato dove questi due fattori erano silenziati,il secondo jhaana che sorgeva ormai non più dalla SEPARAZIONE ma dalla concentrazione del Samadhi ottenuto alla fine del primo jhaana ( e indicato dalle parole ‘ egli vi rimase per un certo tempo') . Successivamente, applicando l'analisi, si accorse che un altro fattore era ancora di disturbo per una maggiore quiete e purificazione della mente, un fattore ancora grossolano, la gioia, e passò ad eliminare anche quello, rimanendo in uno stato di felicità purificata, il terzo jhaana. Ancora però questo gli apparve come uno stato di un qualche disturbo, sia pure sottile, ed eliminatolo rimase in una equanimità purificata. Questo spiega anche perché nell'elenco dei sette fattori del Risveglio l'equanimità è l'ultimo ed il più elevato. Non è una qualsiasi equanimità, è l'equanimità jhanica. Inoltre non era solo l'equanimità di una mente offuscata. No, c'erano perfetta equanimità e consapevolezza (upekkhaa-sati-paarisuddhi ) . Si era realizzata una mente pura ed affilata come un diamante. Fu come essere entrato in un'altra dimensione. Intuitivamente si accorse come questo stato fosse al di là di sofferenza e gioia, del tutto equanime, il che, sempre intuitivamente, rimandava a quando c'era sofferenza/insoddisfazione e, sempre intuitivamente, all'origine dell'insoddisfazione, al desiderio. Ecco che in un lampo di intuizione venne uno dei contenuti tradizionalmente ascritti come uno dei contenuti del Risveglio: c'è una liberazione dal desiderio e attaccamento che sono la fonte dell'infelicità.


In seguito questo fu riformulato come le Quattro Nobili Verità: esiste la Sofferenza o Insoddisfazione, c'è un'origine di questa sofferenza, c'è una Liberazione da questo stato di insoddisfazione ed ovviamente c'è (c'era stata) una via che porta alla liberazione dall'insoddisfazione. Ma sicuramente la forma intuitiva originaria fu quella di una consapevolezza di libertà che illuminò su quello da cui ci si sentiva liberi. Così pure fu in seguito sistematizzato l'Ottuplice Nobile Sentiero che porta alla Libertà assoluta ed il nobile Sentiero aveva come sua punta massima il Samadhi che è la stessa cosa dei Jhaana. In ogni caso l'intuizione che vi era stata una Liberazione e dei fattori da cui si era liberato (quello che poi fu sistematizzato come le Quattro Nobili Verità) fu uno dei contenuti del Risveglio, una insight o introspezione di ciò che era accaduto e di ciò di cui si era liberato . Egli riconobbe anche (forse in seguito, forse subito ( l'illuminazione intuitiva è meravigliosa) di essere stato l'unico uomo a realizzare tale visione e Liberazione.

lunedì 19 novembre 2007

Evoluzione / reazione

L’ultimo numero di questa News ha suscitato qualche approvazione e qualche discussione.
La discussione è sorta sul problema linguistico, se cioè occorra o no accettare il cambiamento anglofono che sta avvenendo nella nostra lingua con l’introduzione di una notevole quantità di parole inglesi.

Questo potrà sembrare un tema piuttosto secondario e poco ‘congruente’ con una News (ancora!) chiamata ‘Meditazione’ ma lo è invece molto in quanto riguarda la nostra visione delle cose, la visione che abbiamo del mondo. Una mia collega, peraltro progressista, non ha esitato a definirsi (benevolmente) reazionaria rispetto a questo.

Il fatto è che mentalmente, da Aristotele in poi, siamo portati a ‘reificare’, a ‘cosizzare’, a costruire ovunque ‘sostanze’ più o meno immaginarie e IMMOBILI (nella nostra fantasia) laddove invece esistono solo processi, processi dinamici in continua trasformazione /evoluzione.

Questo è anche testimoniato storicamente: la Chiesa pensava che Dio, nella sua perfezione, avesse creato il mondo ‘così com’era’ , come cioè appariva, già bell’e apprestato, con gli animali che c’erano, gli uomini che c’erano (Adamo, Eva e la loro discendenza, già uguali a noi come siamo ora), il paesaggio che c’era... Ogni idea di evoluzione contraddiceva l’immobilità della perfezione.

Per questo la Chiesa si oppose violentemente a Darwin e a tutt’oggi certi fondamentalisti (ad es. i testimoni di Geova) la negano. Ora, l’evoluzione è importante e non è limitata solo alla specie umana o al mondo animale ma è avvenuta prima ancora nel mondo vegetale e ancor prima a livello cellulare. Riguarda ogni aspetto della Vita.

Poiché insegno in una Terza Elementare, mi capita spesso di parlare di evoluzione e cito, a volte, questo esempio:

Il nostro dito ‘piccolo’ del piede sta scomparendo ed è probabile che fra qualche migliaio di anni (ma forse anche meno) esso sia scomparso del tutto. Il motivo è semplice: scesi dagli alberi quando eravamo scimmie, questo dito cominciò a servire sempre meno. Anche grandi imperi che si immaginavano eterni, con la missione di civilizzare il mondo, sono crollati e scomparsi (anche noi siamo stati testimoni di uno di questi crolli, quello dell’Unione Sovietica e stiamo assistendo, sembra, al declino di quello americano) .

Un altro caso: se l’evoluzione, invece di essere un processo impersonale e indifferente ai risultati fosse una forza/Dio o guidata da uno spirito divino, il tentativo medioevale del Papato di diventare una entità governante gli uomini del mondo intero in nome di Dio, sarebbe pienamente riuscito.

Cosa ci sarebbe stato di meglio, di superiore rispetto a un governo gestito, sia pure indirettamente, da Dio? Poiché, però, questo presunto agire in nome di un’entità superiore non aveva nulla a che fare con le motivazioni reali che muovono il mondo e con l’impersonalità dei suoi processi, il Papato come entità fisica e politica ha fatto la fine miserabile di tutti gli altri imperi, riducendosi a pochi edifici in Roma.

L’evoluzione, si potrebbe dire, è l’impermanenza descritta con altro nome. Essa ha caratteristiche particolari: tutto ciò che è utile o comunque capace di adattamento al mutare delle circostanze (le ‘condizioni’ di cui si parla nel discorso meditativo) sopravvive, tutto ciò che è inutile o non adattabile scompare.

L’evoluzione è un processo impersonale, non è un ENTE che distingua tra ciò che è buono e ciò che è cattivo: è una forza impersonale o meglio, non è nemmeno questa: c’è il rischio di reificarla, cosizzarla, renderla un ‘qualcosa’.

Si pensi a quando, anche parlando in termini evoluzionistici, diciamo: la Natura ha provveduto a dotare l’animale X di artigli ecc. per cacciare e difendersi. Come si vede il linguaggio non è neutro: la dove esistono forze anonime in movimento permanente, abbiamo involontariamente creato un Ente, la Natura.

Ma l’avete mai vista la Natura, con la N maiuscola? Eppure il nostro inconscio crea in continuazione entità astratte: ci sembra di vederla la Natura, appena nascosta dietro il velo delle cose, una matrona seduta (è di genere femminile) che dice: “ A te servono artigli: che ti spuntino!”, “ A te non serve più la coda; che scompaia!”. Simpatica scenetta, no? Personalmente mi rendo conto che il mio inconscio la vede così. Ciò è significativo e può far riflettere su come facilmente sorgano le religioni teiste (poli- o mono- che siano). Viviamo in un mondo di costruzioni mentali, un mondo immaginario che copre e vela il reale. E’ un mondo dove il pensiero e il linguaggio giocano ruoli fondamentali.

Si pensi a come un pensiero o una parola hanno cambiato le nostre vite o quelle del mondo. Se ci accorgessimo dell’oceano concettuale che oscura il reale, potremmo apprezzare la lotta ai ‘punti di vista’, alle costruzioni mentali che ci accecano.

Qui torno al discorso della lingua. Le lingue dominanti sono, normalmente, quelle degli imperi dominanti. Al tempo dei Romani era il Latino. Oggi l’impero dominante è quello americano. L’affermazione sempre più rapida dell’Inglese è dovuta a questo ma anche a una sua modalità particolare: l’Inglese è ‘semplice’ e, come tale, trova facilità di adattamento alle circostanze.

Vi sono parole utili e pressoché insostituibili. Con cosa sostituiremmo software? Insomma, la sua ‘condizione’ lo rende adatto al mutare delle condizioni.

Anche le lingue non sono cose, sostanze, ma fenomeni in continua evoluzione. Non esiste una ‘cosa’ chiamata Italiano: esistono processi linguistici definiti come ‘Italiano’. Ci può dispiacere che l’Italiano cambi, ma solo perchè abbiamo una visione possessiva (io, mio, il mio paese, la mia lingua, statica e ‘cosistica’ della realtà. Perché allora non ci lamentiamo dell’intrusione di parole italiane nelle altre lingue? Perfino in Cina dicono ‘pizza’ e una volta, all’aereoporto di Hongkong, volendo chiedere degli spaghetti, chiesi dei ‘noodles’ e mi dissero: “Spaghetti?”. E non è, tutto sommato, meglio se l’umanità va verso una maggiore integrazione, anche linguistica, superando le forme egoistiche del passato che tanto male (guerre, odio) hanno provocato?

Tutte le cose, tutti i fenomeni e tutti i concetti, sono privi di sostanza reale. La lingua non fa eccezione, anzi forse è uno dei fenomeni più labili fra la labilità dei fenomeni. Anch’essa dipende da cause e condizioni. Paradossalmente è così difficile accettare questo! Chi pratica la ‘visione profonda’ non può essere ‘reazionario’, creare attrito con l’evoluzione dell’esistente. Ma se ci accorgiamo che questo attrito c’è, OK (dai!), accettiamo anche questo (la furbizia del meditante: con la visione profonda si riesce a salvare capra e cavoli).

Meditazione senza saggezza?

Può esistere una meditazione che miri alla liberazione ma che sia priva dell’aspetto conoscitivo?

Per qualcuno sembra che la meditazione possa essere solo una specie di limbo più o meno piacevole. Sempre per qualcuno l’impegno conoscitivo rispetto al reale andrebbe evitato. Soprattutto non sarebbe necessario né auspicabile mettersi in crisi, esplorare a fondo quelli che sono i propri bagagli culturali...non sarebbe necessario per esempio vedere come i propri bagagli culturali siano in realtà una congerie informe di contenuti che vanno dalla scientificità alla superstizione, il tutto mescolato in proporzioni variabili, e come , quindi, non vi sia prova certa o dimostrata dei contenuti che proponiamo. In sostanza si vuole salvare capra e cavoli. Datemi un bel rilassamento che non mi faccia pensare (non a caso molte persone, parlando, ci dicono: “ Tu, che sei esperto di rilassamento....” ) .

Invece noi pensiamo che meditare debba servire soprattutto come un modo per migliorare il vivere ( e sicuramente qualche manciata di minuti di rilassamento non basta-subito dopo i problemi si ripresentano) e per darci una prospettiva sulla realtà ultima, una prospettiva che non abbia a che fare con i concetti. Quest’ultima frase può sembrare contraddittoria con il fatto che siamo qui ad usare una logica concettuale stringente ma certamente noi, come tutti, dobbiamo fare uso del linguaggio per comunicare. Però non abbiamo nessun concetto da propagandare o da difendere- non chiediamo a nessuno di credere in qualcosa, offriamo solo un metodo di lavoro. Non chiediamo di credere in un Dio, in un Gesù, in un profeta, in un guru, in un Buddha; non accendiamo incenso e non alziamo altari né Gonzohon; non chiediamo di aderire a Cristianesimo, Islam o Buddhismo. Volutamente non abbiamo nemmeno un Centro di Meditazione vero e proprio, “professionale” per intenderci ma solo un ritrovo casalingo. Non proponiamo paradisi o inferni. Proponiamo una pratica scarna che porta a cercare la trascendenza non in altri mondi, paradisi o dimensioni, ma una trascendenza nelle cose, la trascendenza delle cose come sono. A chi pratica chiediamo solo di realizzare in sé un’esperienza di osservazione interiore, di cercare di vedere ciò che c’è davvero, non quindi dei contenuti ma il brulicare incessante del dualismo contenutistico e chiediamo di separare con la maggior chiarezza possibile l’esperienza dai concetti: questa è l’esperienza di un dato fisico (contatto, rumori, vista) , questi sono i concetti conseguenti ai dati sensoriali; questo è il corpo, questa è la coscienza e, nello stesso tempo, questo è il complesso corpo-coscienza.

Cominciando a vedere così, cominciamo forse a renderci conto delle volte in cui la concettualizzazione entra in campo e trasforma (inquina) l’esperienza. Ecco che le cose non sono più “come sono” ma “come le vediamo”- in genere come le vogliamo vedere o come siamo condizionati a vederle. Cominciamo forse a vedere il momento in cui i concetti sorgono. Potremo forse cominciare a chiederci come sorgono i concetti – buffo come la conoscenza si alimenti con nuova conoscenza; è come quando comprai il primo computer. Timoroso com’ero posi subito dei limiti: “ questo computer mi servirà solo come macchina da scrivere” – ma subito dopo i primi impauriti tentativi, man mano le nuove conoscenze spingevano verso nuove conoscenze.

Poiché i concetti hanno generalmente a che fare con giudizi di valore (positivo o negativo, bello o brutto, spirituale o materiale e così via) possiamo probabilmente dedurre che questo schema di valori sorga dalle nostre predisposizioni vicine, lontane e più che lontane. Se queste predisposizioni (che hanno origine dalla sensazione, piacevole o spiacevole) ci portano a concetti dualistici (buono, cattivo ecc.) e sono in noi così radicate e inquinanti, com’è possibile che esse non entrino in ciascuna delle nostre idee, credenze, fedi, visioni del mondo?

E’ questo che rende ciechi tutti gli “aderenti” a qualcosa. Aderiscono, si afferrano a qualcosa. Questo qualcosa è qualcosa che a loro piace (sensazione gradevole) , qualcosa che dà quindi loro consolazione, che permette anche, in una certa misura, di vivere meglio. Come tali queste predisposizioni non hanno sempre un valore negativo. Vanno però colte nel loro aspetto relativo: “ Io, X tal dei tali, abitante in Y, con la posizione sociale Z, vedo le cose così e così” . Questo per far capire che la “verità” espressa da questa persona X sarà relativa, determinata dalla sua condizione sociale, dalla sua cultura, persino dalla sua posizione geografica. Sempre per chiarire: Berlusconi vede una realtà diversa da quella di Follini e ancor più diversa da quella di Prodi o Fassino. Buffo: partecipano tutti della stessa situazione geo-socio-culturale eppure ognuno la vede con occhi diversi. E sono tutti sinceri! E lo stesso ci accade nella vita di ogni giorno. Una persona in salute, con un buon lavoro, vedrà le cose in maniera molto più “bella” di chi sia angosciato dalla mancanza di salute e/o di lavoro. Ecco come si spiegano le varie visioni del mondo, incluse quelle politiche e religiose. Ecco che qualcuno, in una determinata posizione, potrà pensare: “ Il mondo è meraviglioso, Dio ci vuole davvero bene e ci fa provare sensazioni splendide” mentre qualcun altro, un pastore eritreo alla fame per la siccità incalzante, con i propri animali pelle e ossa e i propri cari morenti di fame e malattia, potrà pensare che questo mondo è un inferno, magari raccomandandosi allo stesso Dio, in questo caso stranamente indifferente.

Perciò tutto è relativo e in relazione alle predisposizioni ed alle condizioni esistenziali di chi dà il giudizio. La stessa verità è relativa, nonostante tutta la polemica attuale contro il relativismo, portata avanti dal nostro buon conterraneo, senatore Pera. L’’unica verità assoluta sembra essre la mancanza di una verità assoluta o, detto meglio, che proprio la relatività dei vari tipi di verità è la verità. Ma anche questo è solo un concetto e va accettato nella sua relatività (vedo già che questo scatenerà la voglia di discussione di molti lettori) .

Ci sono persone che praticano la meditazione da anni e che nonostante ciò sono portatori di contenuti vari, accettandoli acriticamente o quasi senza neanche rendersene conto, essendosi accostati alla pratica con la tazza già piena e senza la voglia di svuotarla per cui continuano ad asserire qualcosa. Tutti asseriamo qualcosa nella vita quotidiana però il problema è se siamo consci della sua relatività o se dentro di noi la consideriamo una verità assoluta. Se siamo su questo piano non potremo mai metterci in discussione, la nostra tazza sarà sempre piena di contenuti ed avrà poco a che fare con il silenzio della mente. Anche questo comunque è un giudizio e come tale relativo.

venerdì 19 ottobre 2007

HO VISTO LA VOLPE / standing in the shadow

Ieri sera, tornando dalla palestra, passando attraverso il paduletto di Massa Macinaia, con la coda dell'occhio ho intravisto, infrascata nei cespugli alla mia sinistra, la volpe. E' tanto tempo che non vedevo una volpe e così mi è venuto in mente di tornare indietro per darle da mangiare. Tengo sempre nella bauliera della macchina una scatola di carne per i casi di emergenza (un cane randagio affamato ad es.). Quando questo pensiero si è formato ero però già lontano e ho deciso che probabilmente la volpe se n'era già andata. Mi è tornato in mente quello che facevo nei primi anni di meditazione. Lasciavo sempre del cibo dove sapevo che vi erano i passaggi della volpe.

Mi è venuto da fantasticare che se avesse trovato il barattolo di carne forse si sarebbe saziata e, per quella sera, avrebbe risparmiato altri piccoli esseri viventi. Non mi manca di venire in mente, in questi casi, il fatto che la volpe è un predatore e che ogni sera che esce deve trovare qualche altro essere con cui riempirsi la pancia. Offrirle la carne avrebbe forse fatto risparmiare qualche altro essere. D'altra parte la carne della scatola viene a sua volta da un altro essere ancora, predato a sua volta da quello che è il più grande predatore del mondo, l'uomo. Apparentemente c'è una contraddizione nel voler risparmiare la vita di altri esseri con la carne di altri esseri. Però, questo è il mondo. Il nostro è un mondo di predatori dove tutti depredano tutti. E' un mondo di ferocia insomma, ben lontano da quel mondo ‘bello' di cui parlano i religiosi, i poeti e tutti gli illusi in genere. L'accettazione di questa verità (che poi è la prima nobile verità del Buddhismo: ("Al mondo c'è la sofferenza"), crea l'equanimità, cioè l'accettazione delle cose come sono: e cioè che al mondo c'è sofferenza e che nessuno, proprio nessuno, nemmeno un Buddha o un Gesù, può sfuggire alla sua dose. Mi vengono in mente i bambini quando, a scuola, vengono da me lamentandosi per una piccolissima ferita e io gli dico: "Ma non è niente!" e loro rispondono: " Sì, ma a me fa male!". Ognuno vede la propria sofferenza come massima!

Tornando al discorso della volpe, sorge in me sofferenza anche per lei. Più che sofferenza però la chiamerei com-passione. Io partecipo cioè della sua terribile necessità di nutrirsi ogni sera a spese di qualche altro essere. Naturalmente partecipo allo stesso modo alla necessità di qualche altro essere di non far parte di questa soddisfazione della fame della volpe. E allora? C'è un'apparente contraddizione: devi scegliere, o la volpe o gli altri. In realtà non devo scegliere, devo semplicemente ACCETTARE, accettare che la realtà è questa, complessa e senza scampo, e che ognuno partecipa del destino generale di questo mondo predatore. Il che non toglie che io possa far qualcosa per alleviare la sofferenza di chi soffre. Non ho ucciso un essere per dare la carne in scatola alla volpe: semplicemente utilizzo quello che questo mondo mi offre. Ma non c'è partecipazione volontaria all'uccisione di altri esseri.

Lo scopo principale della meditazione è l'accettazione, l'accettare. Questo non è indifferenza. L'accettare è l'equanimità, dovuta all'accettazione del fatto che vi sono cause e condizioni per cui il soffrire esista, ma ciò non toglie che io non possa cogliere la sofferenza degli esseri e parteciparvi. Mi piace la storia ma ogni volta che leggo di battaglie, di guerre, mi viene alla mente tutta la terribile sofferenza di un campo di battaglia: le morti atroci, le gambe amputate, la lentezza stessa di certe morti, le sofferenze mentali dopo la guerra. E i genitori, le mogli, i figli che soffriranno per la mancanza del loro figlio, marito, fratello ecc.

Osservo criminali storici come Giulio Cesare (che all'assedio di Alesia fece volontariamente morire di fame una parte della popolazione della città che voleva andare via), come Napoleone, che per la propria ambizione egoistica sacrificò le vite di un'intera generazione di giovani europei. Come Hitler che fece uccidere milioni di Ebrei, comunisti, zingari, come Mussolini (che cinicamente entrò in guerra perché occorreva mettere sul piatto delle trattative ‘la morte di qualche migliaio di Italiani'), come Stalin che fece massacrare milioni di contadini. E tuttavia, anche pensando a questi episodi storici, non posso non vedere anche la sofferenza individuale di questi stessi personaggi.

Venendo al mondo d'oggi, riguardo a tutti i casi stravaganti di omicidio che si vedono o di cui si legge, sono tendenzialmente dalla parte dei sospettati: una Franzoni o quel ragazzo (Alberto?) sospettato a lungo dell'omicidio di Chiara - dove? Mi sfugge ma non ha importanza. E sono tendenzialmente con loro non perché sia innocentista: magari sono davvero colpevoli, che ne so. Ma perché credo e penso che la sofferenza e lo spaventoso stress che essi subiscono in queste inchieste e processi devono essere terribili e, se il caso, già una terribile punizione. Semplicemente partecipo della loro sofferenza. L'obiezione più semplice è: ma allora tu non provi pietà per coloro che sono stati assassinati. Certo che sì, ma questo ormai è passato! Io vivo nel presente e, nel presente, vedo queste persone che soffrono. Il motivo mi interessa poco. Vedo queste persone che soffrono, ora. E' la sofferenza che mi colpisce, non capire chi ha ragione o torto.

D'altra parte cerco di stare nel mondo con il piede in due staffe; da una parte la staffa della partecipazione: tutti, in qualche maniera, partecipiamo alla vita di questo mondo; dall'altra la staffa dell'equanimità e dell'accettazione, per cui tutto è come deve essere (per lo meno in questo preciso attimo storico; fra un altro attimo sarà già diverso). Ma quello che è importante, in ultima analisi, è vedere il mondo dal punto di vista dell'equanimità, dell'illuminazione.

Essere illuminati, come dice il termine stesso, significa avere chiarezza e questa chiarezza è riferita ovviamente al mondo e a noi stessi come processi inseriti in altri processi. Avere questa chiarezza è vedere la causalità negli avvenimenti: questo avviene perché è avvenuto quello, questo non avviene quando non sia avvenuto quello. E' la meraviglia dell'ovvio. Se si vede questo (chiamato anche ‘coproduzione condizionata') il mondo è perfetto (nella sua imperfezione assoluta), è così com'è e va preso e accettato com'è.

De Mello in un suo libro diceva che l'essenza della meditazione è: consapevolezza, consapevolezza, consapevolezza. Io aggiungo: l'essenza della meditazione è: accettare, accettare, accettare. Se si accetta, va tutto bene, si è in armonia con le cose come sono (e che devono necessariamente essere così. Ho messo il titolo mezzo in italiano e mezzo in inglese volutamente: ho un'amica infatti che si irrita per gli anglicismi nella nostra lingua. Ma il mondo va così, anche la nostra lingua cambia e questo va accettato senza rimpianti. Questo vale anche per tutti coloro che si lamentano per ‘la decadenza dei valori'. Ma i valori non sono assoluti, anch'essi sono condizionati ed è naturale che mutino col mutare delle cose.

Resistere al cambiamento significa mettersi in attrito col mondo, creare avversione verso il mondo, spesso e volentieri essere dei reazionari brontoloni.

Lasciare i punti di vista, discernere il reale

Parlando con persone che sono interessate alla visione del mondo, siano esse religiose o agnostiche o altro, e poiché io esercito la critica verso tutte le posizioni , mi viene invariabilmente chiesto : “ Ma allora cosa dici tu?”, al che io rispondo che non dico nulla, che non asserisco nulla. E’ vero questo? Sapendo che il mio background è buddhista,le persone sospettano naturalmente che la mia sia una posizione strumentale, cripto-buddhista si direbbe, un modo astuto per criticare gli altri e portare al Buddhismo l’interlocutore. In realtà non occorre essere cripto-buddhisti, fingere di non dire nulla, poiché questo è esattamente il cuore del Buddhismo. Cioè che non c’è nulla da dire. Qualcuno, nella tradizione mahayana, arrivò a quello che sembra un estremo, a dire che in tutta la sua vita di predica della visione del mondo buddhista, il Buddha realmente non disse nulla! Per questo si può essere d’accordo con mia zia che, volendo screditare il Buddha (il cui insegnamento peraltro non conosce come non lo conosce quasi nessuno) disse una volta che il Buddha non sapeva di nulla.

Possiamo dire questo, enunciare questi paradossi, perché il cuore della metodologia buddhista è la visione analitica del reale. Se si va ad un’analisi approfondita del reale, come fanno ad es. i fisici o come si arriva a fare nella meditazione di visione profonda, ci si accorge che realmente non c’è nulla... o meglio non c’è nulla di stabile in questo mondo, che tutto dipende da cause e condizioni e che poiché queste sono continuamente mutevoli, come sabbie mobili, si può effettivamente dire che nulla esiste, che cioè nulla esiste come intrinsecamente esistente, intrinsecamente stabile. Se possono bastare alcuni gradi in più di aumento del clima a distruggere forse l’intera razza umana, ci rendiamo conto di come la nostra orgogliosa esistenza sia proprio basata sulle sabbie mobili di cause e condizioni continuamente mutevoli e quindi sul nulla.... “Castelli di sabbia che sbatto giù...” diceva anni fa una canzone (per inciso è notevole come a volte i poeti offrano forse involontariamente spunti eccezionali di critica del reale: un’altra canzone mi sembra dicesse: “Ho scritto t’amo sulla sabbia,e il vento a poco a poco se l’è portato via con sé”,  esprimendo così una critica ad uno dei concetti base della nostra civiltà-l’eternità di una sensazione- ed una notevole visione profonda del reale...) . E’ perciò questa visione profonda, che cioè esistono solo cause e condizioni (e nient’altro) per l’esistenza di tutti i fenomeni, una posizione quindi che non trova alcunché di stabile nel mondo (l’impermanenza) , che non trova alcuna sostanza stabile in esso (l’insostanzialità, la negazione che esista una sostanza stabile nei fenomeni, nelle cose) che viene chiamata vacuità, cioè assenza di un sé. Ma il sé esiste, potrà dire ciascuno di noi. Lo tocchiamo, lo verifichiamo giornalmente! Ma se andiamo un po’ più in là nella riflessione ci rendiamo conto di saper bene di essere impermanenti, di essere sottoposti a degrado, declino, morte e di come basti il mutare di qualche condizione vitale per mettere in pericolo la nostra esistenza.

Da questa comprensione che tutto è vacuo, che tutto è in movimento continuo come diceva già Eraclito (“tutto scorre” ) , mi è sorta, nel tempo, l’intuizione che TUTTO E’ GIA’ QUI, che non ci può essere la separazione che la mente dualistica crea fra il mondo reale e l’assoluto, sia esso chiamato Paradiso o Nirvana (c’è il mondo terreno,questa prigione corporea in cui la sostanza-anima sarebbe trattenuta e c’è invece un mondo celeste di felicità in cui, liberatasi dalla prigione, l’anima andrebbe) . Non ci può essere un passaggio da un mondo in cui niente ha vera sostanza ad un mondo sostanziale, oppure anche se l’altro mondo fosse privo di sostanza stabile vorrebbe dire che non vi è separazione reale fra i due, che entrambi sono lo stesso mondo sotto forme diversificate....Ci avevate mai pensato? Che cosa voglio dire, in sostanza? Che la visione tradizionale, dualistica, crea due mondi o totalmente diversi e quindi incomunicabili o totalmente uguali e dove quindi non avviene alcun passaggio. In entrambi i casi non è possibile la Liberazione. Non solo: questa concezione mette in crisi anche tutta una serie di altre idee. Idee. Quali? Tutte le idee sulle quali la mente dualistica ha costruito nei secoli . Non dirò quali perché ricevere le soluzioni spiattellate non è il miglior modo per crescere e perchè  l’ego, il sé si sentirebbe attaccato nelle sue auto-convinzioni e nel suo continuo ri-assicurarsi di esistere in forma assoluta.

In realtà in questa intuizione sono stato influenzato dalla critica radicale che il filosofo buddhista Nagarjuna portò verso i primi secoli dell’era cristiana a tutto il mondo delle idee e delle concezioni possibili in campo metafisico. Egli distrusse tutti gli assoluti dualistici propri sia delle filosofie tradizionali sia di quelle buddhiste, predicando la via di Mezzo fra questi assoluti, Madhyamika.

Mi si dirà che sono aspro in questa critica, ma mi chiedo come si possa risvegliarci continuando a sognare ad occhi aperti, basandoci su concetti dualistici vecchi di secoli e storicizzabili come sorti in società primitivo-pastorali. Certo questo va apparentemente contro un’immagine di tolleranza e di accettazione. Ma dare pane al pane è intolleranza? Io accetto, credo, tutti; capisco, credo, perchè cause e condizioni abbiano portato le persone ad essere così come sono! Ma posso dire (specialmente se richiesto) che il bagaglio di secoli di credenze che ci portiamo dietro è gonfio di sentito dire, superstizione e inverificabilità? Senza criticare le persone, che sono condizionate, posso però criticare la cecità, l’addormentamento? Se andiamo a rileggere il Canone buddhista possiamo renderci conto di come i discorsi del Buddha fossero, ad esempio, una critica radicale del mondo di credenze in cui si trovava a vivere. Criticava le credenze dei Brahmini dell’India che è un po’ come criticare la chiesa cattolica qui da noi. Ma non le criticava riproponendo una diversa teoria. No, lui proponeva la visione profonda del reale e invitava tutti a sperimentarla, non a credere! Dopo il Buddha, Nagarjuna radicalizzò ancor più la critica. Eppure è opinione comune oggi, al contrario di quanto si pensava un tempo, che egli semplicemente approfondisse il discorso del Buddha. E il centro di questo discorso, o meglio di questa visione, è la vacuità. Cogliendo la vacuità di tutto il mondo fenomenico, non c’è niente che si possa proporre, non c’è nessuna teoria da abbracciare, da difendere. Nel Vigrahavyavartani Nagarjuna , rispondendo all’accusa di riproporre egli stesso una teoria e quindi un errore, dice:

Se io avessi una qualsiasi proposizione

Allora anch’ io avrei quell’errore

Poiché io non ho alcuna proposizione

Io non ho alcun errore.

Ma sia chiaro, questo non è un modo di fare i furbi (non dico niente così non mi puoi attaccare) . No. Non dico niente perchè ogni asserzione è vuota, è espressione di un punto di vista che ha come riferimento il sé e poichè il sé (con tutte le sue esigenze di autoconsolazione e di autoconferma ) non esiste come sostanza stabile, ecco che non c’è nulla da asserire se non la critica stessa. Esistono cause e condizioni, esiste un inter-essere di tutti i fenomeni per cui esistendo quello esiste questo e non esistendo più quello cessa di esistere anche questo.

D’altra parte non si può entrare in contatto con “le cose come sono” se la nostra mente è piena di concetti a cui attaccarci. Per questo è importante abbandonare i punti di vista, le sottili ossessioni che creano il nostro modo di essere. E’ importante arrivare al silenzio della mente e solo allora la mente diverrà libera, avrà fatto pulizia. Per questo è importante praticare la meditazione: perché solo così si arriva al silenzio mentale. Certamente si può arrivare al silenzio mentale in una seduta meditativa ma nella vita di tutti i giorni daremo giudizi, si dirà. Ma forse i giudizi che verranno da una mente più silenziosa e più attenta saranno più precisi e meno inficiati da quello che una mente consapevole definisce subito come avversione. Tutti i mistici hanno elogiato il silenzio mentale ma questo silenzio deve essere esteso anche al non avere alcuna teoria, alcun punto di vista perché sono tutti relativi e basati sul sé, costruiti come autoconferma del sè. Ecco perchè la filosofia indiana usa la doppia negazione (né...né) : per mettere a tacere le concettualizzazioni, usando una critica negazionista verso gli assoluti, negando il dualismo degli assoluti (il bene e il male per es.) e coltivando la Via di Mezzo (Madhyamika) .




DISCUSSIONE SU “LASCIARE I PUNTI DI VISTA...” (1)

Mi fa piacere quando ricevo lettere riguardo a ciò che scrivo, soprattutto quando sono ‘intriganti’ come lo sono quelle qui sotto riportate. Queste lettere oscillano garbatamente tra l’ironia, la presa in giro e l’approfondimento. Perciò, anche le più brevi, sono per me un esempio di ricchezza mentale e mostrano che coloro che le hanno scritte hanno una riflessione non comune sulla realtà.

1)

From: M. Maria Antonietta

piccola riflessione: anche il pensiero del Buddha è vecchio di secoli.

E quella canzone di Franco 1 e Franco 4 era veramente fenomenale. Bentornato,

baci,

mam

Anche l'uomo è vecchio di secoli. Il pensiero del Buddha è solo un metodo: come dire che sommare 2 e 2 si farà sempre allo stesso modo.

Lo

2 )

From: Cattalini

Franco IV e Franco I; me li ero quasi scordati.

Se esiste una via di mezzo, a che è in mezzo, negando il dualismo degli assoluti (il bene e il male per es.) ?

Risposta: “Appunto a il bene e il male egli altri dualismi. Questo significa non negare che esistono realtà convenzionali. Esse esistono ma sorgono in dipendenza. A queste realtà siamo tentati di dare il valore di assoluti (ad es. il Bene e il Male) e in nome di questi assoluti presunti si fanno le guerre (per gli Arabi gli USA sono il male assoluto; per gli USA Bin Laden è il male assoluto (in precedenza era il Comunismo)). Trovare il Mezzo è rifiutare questi assoluti. Nota che non si afferma nulla, si usa una metodologia negativa. Questo porta al relativismo contro cui si schiera per es. oggi Ratzinger. Ovviamente questa potrebbe essere una visione riduttiva e in una certa misura lo è. Dove si trova il Mezzo? Anche questo è relativo. Non esiste un mezzo assoluto, potrà esistere solo un mezzo dipendente, dipendente dalle cause e condizioni in essere. Il discorso della Vacuità arriva anche a negare se stesso e quindi a coincidere con l'esistente, le cose come sono appunto. Ma è la qualità dell'osservazione che è diversa.”

3) From:  Sandro G.

”Delle due l' una:
a) Dio c'è (Dio, Jeova, Allah, Shiva, eccetera)
b)dio non c' è
per l'ipotesi b) non ci sono problemi, abbiamo risolto
tutto, non ci possiamo nemmeno sfogarci a bestemmiare.

per a) si può meramente constatare tutti, indistintamente (sfido chiunque, di
qualsiasi religione a dimostrare il contrario) che Dio (con la D
maiuscola) fa di tutto per non rivelarsi, per nascondersi. Quindi,
perchè non accontentarlo?S.
Risposta: Uhm, mi trovo stranamente d'accordo con te!
4)

From: Silvia

..."non ci può essere passaggio da un mondo in cui niente ha vera sostanza ad un mondo sostanziale , oppure anche se

l'altro mondo fosse privo di sostanza stabile vorrebbe dire che non vi è separazione reale tra i due , che entrambi sono lo stesso

mondo sotto forme diversificate .."..."la visione dualistica crea due mondi o totalmente diversi e quindi incomunicabili o totalmente uguali e dove quindi non avviene nessun passaggio.In entrambi i casi non è possibile la Liberazione."

Stavo pensando ...i due mondi di cui parli non potrebbero essere semplicemente dati da livelli di percezione diversi , separati sì

ma uniti , nello stesso tempo , attraverso la capacità di percezione che ognuno di noi possiede e può sviluppare , la quale capacità ti permette di vedere oltre questa realtà ( certamente insostanziale, certamente sostanziale)...? Perchè , mi chiedo , la

consapevolezza dell'esistenza di più dimensioni , non certo solo due , dovrebbe impedirmi la strada alla Liberazione ,o alla Liberazione stessa ,come la chiami tu ?

Queste autoconvinzioni dell'ego , di cui fai spesso menzione, non potrebbero essere semplicemente date dai livelli di

percezione diversi ? Oltre alla visione analitica , utile fino a un certo livello , non ci potrebbe essere anche una visione intuitiva ?

Riguardo alla soluzioni spiattellate , che preferisci non comunicare,...mi hai messo una certa curiosità...i miei soliti giochi

dell'ego..ha ha...

ps

quest'ultima lettera l'ho trovata interessante e un pò seriosa

Risposta: Cara Silvia

la tua lettera permette di approfondire qualcosa. Cito:

"i due mondi di cui parli non potrebbero essere semplicemente dati da livelli di percezione diversi , separati si

ma uniti , ". Separati o uniti? Questi due termini sono antitetici ed autoescludentisi. Non che non capisca il senso di relativismo che vuoi loro dare ma a volte questo senso di relativismo può portare o deriva dal voler salvare capra e cavoli . Cerco di spiegare meglio: qui si parla di due cose opposte: ad es. l'anima è intesa come sostanza (materiale, spirituale, sottile o come vuoi ma sempre sostanza) oppure come insostanziale? E il mondo di là, la Liberazione, è inteso come un mondo sostanziale (Paradiso diciamo) o insostanziale? Cerchiamo di stabilire le relazioni due a due.

1) L'anima è sostanziale. Anche il mondo di là è sostanziale. Come dici tu, possono esserci vari livelli di materialità e quindi nessuna obiezione a che la nostra coscienza possa percepire altri livelli di sostanzialità. Con gli strumenti adeguati possiamo ad es. percepire le onde radio, gli ultrasuoni ecc. , cose che normalmente non sono a disposizione della nostra percezione. Però in questo caso - e come è il caso per gli ultrasuoni ecc.- il mondo al di là di cui si parla fa parte del nostro stesso universo e poiché noi e il nostro universo siamo condizionati, cioè nasciamo dall'interazione continua di cause e condizioni (e questo è difficilmente negabile) ne deriva che questo mondo al di là è anch'esso un mondo condizionato, un'altra dimensione, come giustamente dici tu, di un universo condizionato. Non è l'incondizionato.

2) L'anima è sostanziale ma il mondo di là è insostanziale. Come può una sostanza entrare in una non-sostanza? I due termini si escludono. La nostra mente, che notoriamente vuol salvare capra e cavoli, alzerebbe delle obiezioni a questo ma se ci pensiamo bene andiamo a finire o nel punto 1 o in uno degli altri punti.

3) L'anima è insostanziale ed il mondo di là è insostanziale. Ma come possono comunicare in qualche modo due non-sostanze?

4) L'anima allo stesso tempo è sia sostanziale che insostanziale. Ma i due termini si escludono a vicenda.

5) L'anima allo stesso tempo nè è sostanziale né insostanziale. Come è possibile ciò? Certo, si può dire tutto, ma dobbiamo avere una base razionale quando ci si mette a discutere, altrimenti si può dire qualunque cosa.

Ecco, questi sono i termini con cui ragionava Nagarjuna nella sua critica alle affermazioni correnti nel nostro linguaggio. Faccio mia questa serie di sillogismi non per negare che esista un eventuale mondo al di là o per negare qualsiasi altra cosa. Altri mondi sono certamente possibili, probabili. Quello che importa è superare i limiti di un universo condizionato. I Buddhisti chiamano questo stato- se così si può convenzionalmente definire, col nome di Nirvana. Però anche questo stato può essere sottoposto a critica se lo reifichiamo, se ne facciamo cioè una sostanza. La soluzione è che è precisamente il sorgere condizionato, è la vacuità del sorgere condizionato,è insomma questo stesso mondo che è il Nirvana. Visto con altri occhi.

C'è un altro paradosso infatti che ti voglio sottoporre. A cosa può corrispondere la vacuità della stessa vacuità?

Loriano

5) SILVIA :

Subject: risposta

Chi ha detto che si deve avere una base razionale quando si parla ?

Razionale rispetto a che cosa? forse alla nostra percezione?

E se ogni individuo percepisce in maniera diversa dove sta la base razionale ?

Se io vedo cose che tu non vedi , per esempio , e tu mi parli della vacuità , della insostanzialità ,

forse e dico forse mi dovrei far vedere da un medico , oppure fingere ?

Forse , per esempio ,sono schizofrenica e non mi sono mai curata ? chissà...può essere

Come vedi invece di rispondere alla tua domanda , aimè per me incomprensibile e un pò

inutile formulo altrettante domande , non si finisce mai ...

Loriano: Se io dico: "Dio è un maialino rosa, ne sono sicuro" tu potrai obiettare quello che vuoi ma io o resterò ugualmente della mia idea o addirittura potrò portare a sostegno quelle che sono le mie 'intuizioni' in proposito. Quindi è implicito in ogni discussione che occorre usare criteri di razionalità accettati da entrambi. Questo ha dei limiti ma è il criterio necessario per discutere di qualcosa.

Riguardo alla percezione mi sembra che tu abbia colto il nocciolo del problema. Dici:

"E se ogni individuo percepisce in maniera diversa dove stà [a proposito, si scrive senza accento] la base razionale ?" . Infatti. La percezione, come ogni altra cosa non ha valore assoluto ma è dipendente da cause e condizioni (per es. una malattia visiva, come dici tu) . La razionalità a cui mi riferivo non è la percezione ma solo un sistema comunicativo, un uso del linguaggio su basi comuni minimamente accettate (ad es. tutti, credo, accettiamo la legge di causa-effetto) . Per il resto la percezione soffre della solita malattia di tutte le cose mondane: non ha un'esistenza e una validità proprie , ma sorge determinata das cause e condizioni. E' vuota di sostanza stabile!

Per questo ho sempre criticato il basarsi su propie percezioni. Non è un criterio valido. Perciò, come vedi, su questo siamo d'accordo. O no?

Lo

PS. La vacuità della vacuità corrisponde a “ sole cono me ceso” . Anagrammalo




DISCUSSIONE SU “LASCIARE I PUNTI DI VISTA...” 2 ( continuazione)



LA DISCUSSIONE SULLA NEWSLETTER DI SETTEMBRE HA EVIDENTEMENTE APPASSIONATO POICHE’ SONO ARRIVATI ALTRI CONTRIBUTI. SONO TUTTI INTERESSANTI. DISPIACE PER IL TONO FORTE DI QUALCHE LETTERA MA OCCORRE ACCETTARE LE COSE COME SONO. MI RENDO CONTO CHE E’ FACILE PER ME AVERE L’ULTIMA PAROLA MA....

ANDREA SPIEZIA: X Sandro:

(Sandro dice:) per a) si può meramente constatare tutti, indistintamente (sfido chiunque, di qualsiasi religione a dimostrare il contrario) che Dio (con la D
maiuscola) fa di tutto per non rivelarsi, per nascondersi. Quindi,
perchè non accontentarlo?S.

Hai dato per scontata una cosa assolutamente relativa, il fatto che Dio fa di tutto per nascondersi e' frutto di quello che la tua mente ha costruito. Posso perfettamente, nella mia "illusione" affermare il contrario: Dio fa di tutto per rivelarsi, noi facciamo di tutto per non ascoltarlo. gesu' ripeteva sempre : " Chi ha orecchi intenda "
Ciao,

Andrea

SANDRO (risposta): Se così fosse, vorrebbe dire che la mia mente è uguale a quella di dio, per cui io posso competere con lui....... cazzo, non mi credevo così
dotato!
Comunque, se hai un figlio (io ne ho uno) o, comunque, provi ad
immaginare di averne uno, cosa faresti se ("pervaso da immenso amore
per lui") tu lo vedessi in pericolo, lo lasceresti fare aspettando che
si perdesse solo perchè lui non ti ascolta, solo perchè gli hai
conferito il "libero arbitrio"?
Chi ha dannato Adolf Hitler? Qualcuno me lo vuole spiegare?
Perchè lui è stato il figlio di puttana che è stato? Che colpe ha avuto? Io lo avrei salvato, non lo avrei fatto
nascere, lo avrei fatto morire da bambino.....

Rifletti, giuggiolone,
e non ti crogiolare nelle frasi fatte.
ps
Gesù perlomeno era coerente, immaginati se il papa si comportasse secondo i suoi dettami, ne vedremmo delle belle!

DANIELA: Caro Loriano visto che ti fa piacere ricevere lettere riguardo a ciò che scrivi , avrei anche io un mio "punto di vista". Sono favorevole alle varie tecniche di meditazione che aiutano a contattare la nostra essenza più profonda, ma il disquisire su certe faccende "spirituali" mi sembra un deviante bisogno dell'ego/mente che ha tanta paura di essere destabilizzato . Se ci si lasciasse semplicemente andare al sentire....

Con affetto, Daniela

LORIANO: E perchè mai il sentire dovrebbe essere una garanzia, visto che è condizionato (inquinato) da ciò che vogliamo sentire?

DANIELA: la mente (che mente) con le sue paure tenta di impedirci di sentire la nostra essenza più profonda, ma se, magari con l'ausilio delle tecniche meditatve, riusciamo a distaccarcene per un attimo, in quell'attimo di abbandono possiamo sentire la Verità,non ti è mai successo?

LORIANO: sì, certo.

DANIELA: ...dunque "Dio" non fa di tutto per restare nascosto, la nostra mente limitata non può comprenderlo ma---si può "contattarlo" con qualcosa di immenso!!!

Hai notato che Gesù viene dipinto nel gesto di indicarsi il cuore?

LORIANO: Cara Daniela , la mia risposta alla tua domanda diceva di sì , nel senso che la mente concentrata può arrivare a livelli di intuizione notevoli (ma non sempre sicuri) . Il resto sono concetti mentali che la nostra mente opera a nostra consolazione. Certo, ognuno può mettere sull'esperienza i cappelli che vuole. io penso che sia meglio limitarsi all'esperienza e diffidare di queste concettualizzazioni.

Ciao

MAINATO: Caro Loriano,la via di mezzo è il tanden. Ognuno può guardarselo e bearsi mentre sta seduto. Il mondo fuori è terribile. Che male c'è?

LORIANO: Giusto

CLAUDIA SOLDATICH: (CON RISPOSTE DI Loriano nel testo in maiuscolo)
> Ho letto casualmente la sua news letter di settembre, concordo sul fatto
> che nulla esiste, come intrinsecamente esistente e stabile...non c'è nulla
> di stabile.
> Mi trovo a pensare..... liberarsi dai condizionamenti vorrebbe dire andare
> verso la libertà, ma penso a quanto sia difficile sfuggire ai
> condizionamenti! PIU' CHE GIUSTO!
> Affermare che nulla esiste come intrinsecamente esistente, mi riporta
> all'immagine dualistica (immagine probabilmente determinata da idee
> condizionate) del nulla contrapposto all'esistenza, come parlare di
> silenzio e di suoni, non si può parlare di suoni senza ammettere
> l'esistenza del silenzio, come di esistenza senza ammettere l'esitenza del
> nulla e viceversa.

ATTENZIONE. NON SI DICE CHE NULLA ESISTE. SI DICE CHE
OCCORRE EVITARE L'ESTREMISMO DEGLI ASSOLUTI (CIOE'
DELL'ESISTERE E DEL NON-ESISTERE) . SI USA UNA FORMA NEGATIVA:
LE COSE NE' ESISTONO NE' NON ESISTONO. SI DICE CHE NON
ESISTONO IN FORMA ASSOLUTA MA CERTAMENTE ESISTONO
IN FORMA RELATIVA. COME DICI GIUSTAMENTE, ESISTERE E
NON-ESISTERE SONO RECIPROCAMENTE DIPENDENTI.
> Mi sorge un pensiero: potrebbe invece l'essere, essere disposto come su di
> un continuum rispetto al nulla?

CREDO CHE ANCHE QUI SIA VALIDO IL DISCORSO PRECEDENTE.
STIAMO REIFICANDO QUESTI DUE CONCETTI DELL'ESISTERE E
DEL NON ESISTERE. E' UN'ANTICA TENDENZA UMANA
CHE VIENE DAL TIMORE DELL'ANNULLAMENTO. MA ESISTERE
E NON-ESISTERE NON ESISTONO IN FORMA ASSOLUTA
COME GIUSTAMENTE FACEVI NOTARE PRIMA NE' TANTO
MENO ESISTE UN CONTINUUM DI FRONTE A UN NULLA.
ESISTENZA E NON ESISTENZA SONO RECIPROCAMENTE
(CONCETTUALMENTE) DIPENDENTI.
L'esistenza sarebbe un continuo tendere al
> nulla o meglio "esistere sarebbe come de si-tuarsi da questa puntualità
> (l'impermanenza di cui lei parla), disporsi nel cammino dell'assenza, ove
> è possibile rinvenire un senso"...(Galimberti). Mi rendo anche conto che
> questa visione potrebbe nascere da un punto di vista che ha come
> riferimento il se', ma un sè instabile, in tensione. In questo momento di
> tensione verso il nulla, momento di espressione della "vitalità"
> dell'uomo, non potrebbe esservi la liberazione?
UN SE' INSTABILE, IMPERMANENTE, è CORRETTO.
TENSIONE VERSO IL NULLA E'
A MIO MODO DI VEDERE SBAGLIATO. ASSOLUTIZZA IL NULLA.
FORSE E' PIU' CORRETTO DIRE TENSIONE CONTINUA
FRA ESISTENTE E NON ESISTENTE. MA NEMMENO
QUESTO MI SEMBRA CORRETTO. REIFICA/ASSOLUTIZZA
QUESTI DUE CONCETTI, NE FA DELLE ENTITA'.
> Non so se sono stata comprensibile, subito la newsletter mi è apparsa
> molto chiara, ma in un secondo momento mi ha fatto sorgere tutta una serie
> di pensieri, in parte anche contraddittori, che ho sentito la necessità di
> comunicarle.
BELLO QUESTO. "SUBITO LA NEWSLETTER MI E' APPARSA MOLTO CHIARA" .
UN LAMPO INTUITIVO.
TI RINGRAZIO PER QUESTA LETTERA CHE MOSTRA UNA FORTE TENSIONE A CAPIRE....

Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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