Ho visto spesso, durante i ritiri di meditazione, facce cupe ed espressioni serie, l'espressione di chi si "sforza". Mentre occorre un giusto sforzo, questo sforzarsi eccessivo è proprio il contrario del "lasciare andare".Proprio perché il "Lasciare andare" è così importante nella pratica, l'atteggiamento che più gli è corrispondente è quello del rilassamento vigile. Faccio spesso l'esempio del cacciatore. Durante la pratica dell'attenzione bisognerebbe essere come il cacciatore appostato in attesa che compaiano gli uccelli. E' vigile ma non è teso e poiché fa una cosa che gli piace, è attento ma rilassato (purtoppo per le prede) e perfino gioioso. Ecco, questo è esattamente lo spirito con cui si dovrebbe affrontare la pratica. Attenzione vigile-rilassamento gioioso: ancora una volta unificazione degli opposti.
Sempre in quest'ottica, cioè quella del rilasciamento vigile e del lasciare andare, sarebbe opportuno adottare un atteggiamento di "pratica dell'obiettivo". L'obiettivo di chi pratica è quello della realizzazione, della Liberazione. Ora, anche questo obiettivo è contraddittorio: perché si può realizzare questo obiettivo solo lasciando andare anche questo stesso scopo. Se realizzazione e liberazione sono la stessa cosa, occorre liberarsi anche da queste idee. E'chiaro che se non avessimo uno scopo- che poi è quello di arrivare alla liberazione dalla sofferenza- non faremmo nessuna pratica. Nello stesso tempo questo scopo è raggiungibile solo se lo neghiamo. Che paradosso! E ancor più paradossale è che per negarlo bisogna praticarlo. Dogen, il grande maestro Zen, era già arrivato a questa conclusione: la pratica stessa è l'Illuminazione. I maestri tantrici, in forme diverse, hanno avuto la stessa idea. Questa era già presente, in embrione, nel Buddhismo primitivo. La pratica delle "sedi divine" implicava la visualizzazione di se stessi come esseri radianti e la rinascita conseguente come divinità. Il Buddha era però andato oltre. Mentre riconosceva la rinascita come divinità come positiva per il livello di molti praticanti,pure la identificava semre come una rinascita ( e tutto quello che nasce prima o poi dovrà patire la sofferenza del soffrire e del morire: è la nascita la causa della morte) . Perciò la liberazione implicava liberarsi anche da questo stato. Ma che cos'è la buddhità, la realizzazione? E' così diversa dallo stato di divinità?
Si può rispondere che è la stessa cosa ed è diversa allo stesso tempo. Lo stato di divinità implica alcune caratteristiche che sono ancora concettualizzabili: pur perdendo i confini di un corpo umano e diventando esseri radianti, resta, in qualche modo sottile, l'idea di un sé, quindi qualcosa di sostanziale e stabile [l'anima di cui si favoleggia] , di definibile e di concettualizzabile. Lo stato di un Buddha, un Tathagata ("così-andato") è invece insondabile, al di là di ogni concettualizzazione. Si potrebbe dire (usando un linguaggio di concetti che purtoppo ènecessario) che si tratta di una coscienza basata su nulla. C'è un esempio nei testi classici che lo illustra (Samyutta Nikaya, Nidanavagga, 64 ) :
" -Supponete... che ci sia una casa o una sala con un tetto a punta, con finestre sui lati nord, sud ed est. Quando il sole sorge e un raggio di luce entra attraverso una finestra, dove si stabilirebbe?
- Sul muro occidentale, venerabile signore.
- Se non ci fosse nessun muro occidentale , dove si stabilirebbe?
- Sulla terra ,venerabile signore.
- Se non ci fosse alcuna terra.dove diverrebbe stabilito?
- Sull'acqua venerabile signore.
- Se non ci fosse alcuna acqua, dove diverrebbe stabilito?
- Non diverrebbe stabilito in alcun luogo, venerabile signore."
Si potrà obiettare che noi (noi intesi come singoli individui) siamo limitati, siamo ben al di sotto di questo stato. Mentre questo va riconosciuto, d'altra parte dobbiamo fare i conti con il fatto che nessuna sostanza stabile esiste nel mondo e che tutto è costituito da processi. Se avete seguito, su queste pagine, tutta la lotta che qui viene condotta contro il concetto di sostanzialità che permea quasi tutto il pensiero occidentale ( e più che mai quello religioso) , potrete apprezzare il fatto che la visione di questa realizzazione possa essere concepita come un processo ( e allo stesso tempo come un fatto immediato) , un cambiamento in essere, una dinamicità e non una staticità. Importante è il "vedere" questa realizzazione in processo, questa dinamicità. La nostra pratica, come dice De Mello, può essere riassunta in tre parole: "consapevolezza, consapevolezza, consapevolezza".
Praticare perciò può essere concepito nel visualizzarsi come una divinità (e nel misurare anche le nostre manchevolezze alla luce di questo standard) . E' solo un "mezzo abile" se vogliamo ma qualcosa che, partendo dal sorriso interiore e dalla radianza di gentilezza amorevole, compassione, gioia ed equanimità e
unito a consapevolezza e visione, ci porta a visualizzarci ed a praticare come divinità e come Buddha-in-processo.
Perciò, appena iniziamo la meditazione, sorridiamo lievemente come un Buddha o una divinità, creiamo una sorta di identificazione mentale con questo ideale, spargiamo il sorriso interiore in tutto il nostro corpo-mente e passiamo ad irradiare verso l'esterno in ogni direzione. Possiamo usare la gentilezza amorevole e poi, in successione inversa, l'equanimità come veicolo della nostra irradiazione o possiamo essere semplicemente consci dell'irradiazione stessa, senza oggetto o veicolo. Se usiamo gentilezza ed equanimità potremo accoppiare due aspetti della buddhità, la compassione verso ogni essere vivente e nello stesso tempo l'accettazione assoluta del destino di ogni essere (ancora una volta l'unificazione di due opposti) . Se semplicemente "stiamo", senza alcun oggetto particolare, possiamo però essere consapevoli dei vari "corridoi percettivi" che si stabiliscono fra, ad es. le orecchie e il suono, fra percezione sonora e mente, fra oggetti mentali e mente. Possiamo così realizzare una meditazione sullo spazio che comprende i vari elementi della corporeità, dei sensi, della coscienza e di questi corridoi percettivi. Questa è la meditazione sulla vacuità, dove l'unità corpo-mente si dissolve in una serie di aggregati presenti qua e là nello spazio. Il senso di questo è l'abbandono dei concetti di "io" e "mio".
Visualizzati come divinità anche durante la giornata. La consapevolezza degli stati mentali che sorgono nella vita quotidiana porterà a un confronto con lo standard di divinità o buddhità. Vedremo le nostre manchevolezze ma le osserveremo da lontano, in maniera distaccata, accettandole. Saremo consapevoli che vi sono cause e condizioni per essere come siamo e accetteremo questo.D'altra parte lo standard della divinità o buddhità fornirà un criterio con cui misurare queste manchevolezze. Ma saremo anche consapevoli che siamo "esseri in processo" e, guardandoci da lontano, in maniera distaccata, accetteremo sorridendo.
Sommario
Entrare nel primo dhyana/jhana
La visualizzazione di se stessi come divinità può portare (può-ma non è detto) a conseguire il primo dhyaana (o jhaana ) se associata alla meditazione senza-segno. I dhyaana o jhaana fanno parte del sentiero originario del Buddha al Risveglio e alla Liberazione. Prima di tutto vediamo come svolgere la visualizzazione come divinità.
Potete partire dal sorriso interiore e da una consapevolezza espansa. Irradiate in tutte le direzioni, godete della tranquillità che dà questa irradiazione. State un po' in questo stato. Vi accorgerete che dopo un po' arriveranno idee, distrazioni ecc. ; la mente umana ha sempre voglia di chiacchierare ed è anche naturale che ciò sia così, essendo noi coinvolti continuamente in cose mondane. Occorre accettare questa nostra situazione anche se forse, a prima vista, ci potrà sembrare un disturbo. Sicuramente queste idee, chiacchiere , immagini ecc. cercheranno di risucchiarci. Ecco, qui dobbiamo prestare molta attenzione: possiamo accettarle ma non farci risucchiare da esse, altrimenti ne saremo travolti. Occorre adottare l'attitudine dell'osservatore o del "pastore" . Come un pastore osserva da lontano le sue pecore senza esserne troppo coinvolto, così noi possiamo osservare le "pecore" vaganti dei nostri pensieri senza esserne disturbati più di tanto. Questa è la consapevolezza accettante. Accetto che voi esistiate ma non mi faccio coinvolgere. Vi guardo e basta.
Ad un certo punto può darsi che ci rendiamo conto però di un certo fastidio nell'osservare questa massa confusa di idee. Forse si sarà già riflettuto in precedenza (o è il caso di farlo adesso) di come tutto quello a cui la mente si attacca sia classificabile sotto i due aspetti di "desiderio" e "avversione" . Possiamo anche renderci conto che la nostra mente è attaccata a tutto questo discorrere, letteralmente "afferra" ( o aderisce a) i singoli pensieri. E l'afferramento è un importante anello della catena del "sorgere in dipendenza" . Possiamo anche decidere di rompere questa catena proprio all'altezza di questo anello. E come?
Il Buddha disse che "desiderio, avversione e illusione producono segni" . Questi segni del desiderio, avversione ecc. sono rintracciabili nel corpo e nella mente. Tensioni, discorsio mentale, immagini ecc. . Basta classificarli, quasi sempre sotto l'etichetta del "desiderio", talvolta sotto quella dell'"avversione". In genere, fatto questo, scompariranno, come un ladro colto in flagrante.
A questo punto la mente sarà prima occasionalmente, poi sempre più continuamente vuota. Continuerete a irradiare in questa vuotezza, semplice irradiazione. Continuerete ad osservare i "segni" che compaiono nel corpo-mente e a classificarli. Ci sarà una grande attenzione e consapevolezza. Poiché i "segni" non compaiono quasi più, vi sarà grande rilassamento. Qui realizzerete l'unità di concentrazione/attenzione e rilassamento.
La scomparsa dei "segni" vi porterà ad isolare la mente da desiderio, avversione, dubbio , agitazione, sonnolenza cioè dai classici "Cinque Ostacoli" alla meditazione. Nei testi antichi questo viene espresso così: " Separato dai desideri, distanziato dai dharma [oggetti mentali] insalubri..--." (Pali: vivicc'eva kaamehi vivicca akusalehi dhammehi...) .
Può darsi che vi accorgiate di stare proprio bene essendovi separati da desideri e avversioni. Può darsi che vi accorgiate di come la vostra mente stia prestando una forte attenzione a quello che state facendo. Questo si chiama vitakka che normalmente viene tradotto con "pensiero applicato": State applicando la vostra attenzione intensamente ma in forma rilassata -altrimenti si creerebbero ulteriori segni dovuti al desiderio- su qualcosa. Poiché questa applicazione vi crea interesse e una certa soddisfazione, cominciate a esplorare questa applicazione e questa sensazione di relativa soddisfazione. Decidete di "valutarla", di farne una valutazione , ma non dall'esterno in forma discorsiva bensì immergendovi sempre più nell'attenzione applicata e nella sensazione di soddisfazione. Ci ricordiamo, forse, che l'attenzione alle sensazioni è uno dei quattro fondamenti della consapevolezza. Comunque sempre più entrate nell'"apprezzamento" o "valutazione" di questa sensazione di soddisfazione. In pratica ne valutate il grado, l'intensità. Questo nei testi antichi si chiama vicaara .
Esplorando e valutando sarete coinvolti nella gioia che potrà esprimersi anche in forma fisica: a me si manifesta tramite una forma di vibrazione lungo la colonna vertebrale ma altri la sperimenteranno in forme diverse. Continuate ad esplorare questa forma di gioia. Nei testi antichi è chiamata piiti .
Ad un certo punto questa gioia comincerà a trasformarsi in qualcosa di più profondo e più rinfrescante, una sensazione più profonda e più gentile di felicità . Questa era chiamata sukha , "felicità" .
A questo punto avrete voglia di risiedere più a lungo possibile in questo stato. Avrete conseguito il primodhyaana o jhaana .
Come ho detto all'inizio il primo jhaana fa parte di una serie di quattro samadhi o assorbimenti meditativi che portarono il Buddha all'illuminazione, alla liberazione, combinati con la visione profonda o Vipassana. Questo tipo di meditazione si chiama invece samatha . Ecco perché il nostro centro si chiama "Centro di Meditazione samatha-vipassana ". L'iIluminazione o liberazione deve avvenire al livello di uno dei quattro jhaana. Conseguire il primo jhaana è un passo importante se pur difficile(è relativamente più semplice ottenere i successivi poiché vi trovate già sulla strada) . E' trovare questa strada che è difficile! Molti non hanno fiducia che essa sia praticabile. In un altro centro di meditazione qualcuno ha sostenuto che la mia asserzione sulla possibilità del Jhaana fosse infondata-per non dire falsa, che solo i monaci potessero ottenerla. Ma non vi è alcuna proprietà privata su di esso, si tratta solo di uno stato mentale. E'questo che contraddistingue il Buddhismo da altre religioni. Le altre sono una questione di fede, questa è una religione di esperienza. Una volta sorte le condizioni per il jhaana, ecco, voi ci siete. Sostanzialmente non è nulla di speciale-e allo stesso tempo molto speciale: basta conseguire una concentrazione applicata e poi sostenuta (vitakka, vicara) e quando si svilupperanno gioia e felicità saprete da soli che quello è il primo jhaana . Tuttavia mentre è relativamente facile ad es. usare sati o consapevolezza per osservare le cose che accadono dentro di noi, più difficile è sempre stato, per tutti i meditatori, conseguire il jhaana. Vi sono le istruzioni del Buddha ma sono schematiche, non entrano nei dettagli psicologici. A quanto sembra a quel tempo la pratica era così diffusa che bastavano poche indicazioni. A volte qualcuno vi si imbatte per caso e non sa che cosa ha provato. Altri hanno letto tanto e tante notizie contrastanti su questo stato da sviluppare un forte desiderio per esso e quindi da essere impossibilitati a raggiungerlo. Altri ancora, dopo averlo provato casualmente ed averlo riconosciuto, hanno ugualmente sviluppato un forte desiderio di riprodurlo che ha loro impedito di realizzarlo di nuovo. E' stato il mio caso. Ho poi dovuto percorrere un lungo cammino per disintossicarmi da questo desiderio. Solo allora esso è tornato.
Perciò bisogna praticare il "lasciare andare" e non cercare un conseguimento. Solo quando vi imbatterete nei quattro fattori sopra esposti potrete, riconoscendoli ed essendo comunque distaccati, esplorare questo stato particolare. Ma se vi mettete a cercarli troverete il loro opposto, il desiderio.
E' perciò necessario praticare la meditazione senza segni, dove vi accorgerete di ogni minimo segno volto al conseguimento di qualcosa. Quando sarete rilassati proverete qualcosa. Indagate questo qualcosa.
IL TESTO (MN I, 247) :
‘Separato dai desideri, separato dai dharma insalubri, munito di attenzione applicata e di attenzione giudicante (savitakkam savicaaram ) , avendo raggiunto il primo jhaana sorto dal distacco e che è gioia e felicità, io vi dimorai.
Anche quando, o Aggivessana, sorse una tale sensazione di felicità, essa non prese completamente possesso della mia mente.
Con la soppressione dell'attenzione applicata e dell'attenzione sostenuta (o giudicante, indagatrice ecc.) , (essendo sorta) la pace interiore che è concentrazione del pensiero su un solo punto, senza più attenzione applicata e sostenuta,prodotto della meditazione che è gioia e felicità, questo secondo jhaana , avendolo raggiunto io vi dimorai.
Tramite il distacco dalla gioia io dimorai sereno, attento e pienamente cosciente, provando la felicità per mezzo del corpo, quello che i Santi qualificano come equanimità, come soggiorno nella felicità: vale a dire il terzo jhaana ; avendolo raggiunto io vi dimorai.
Tramite il distacco dalla felicità e dal dolore, e con la scomparsa precedente della gioia e del dispiacere, senza dolore, senza felicità, questa assoluta purezza dell'attenzione e della equanimità che è il quarto jhaana , avendolo raggiunto io vi dimorai.
Anche quando, in me, o Aggivessana, sorse tale sensazione di felicità,essa non prese completamente possesso della mia mente'
Dopo il quarto jhaana il Buddha raggiunse le Tre conoscenze supreme ed il Risveglio assoluto. Egli era un Liberato, un Risvegliato, un Buddha
Sommario
Note sulla meditazione dhyana/jhana e sul Risveglio-Illuminazione
Ho accennato alle difficoltà di realizzazione del primo jhaana. Poniamo ora l'accento su alcuni suoi requisiti, isolamento e silenzio. Specialmente all'inizio questi due requisiti sono importanti. Vedremo in seguito come l'isolamento sia non solo una delle basi ma anche uno dei risultati del primo jhaana.
Come mai, comunque, il Buddha scelse questa via a guidarlo sul sentiero del Risveglio e della Liberazione?
Quando Sakyamuni abbandonò l'ascetismo inutile ed estremo a cui si era dedicato nella sua ricerca della Liberazione e si chiese come conseguirla, ebbe un ricordo (MN 36,I, p. 246 ) :
" Allora, Aggivessana, io pensai che una volta quando mio padre, il Sakka, stava lavorando (nei campi) , io ero seduto nella fresca ombra di un albero Jambu. Separato da oggetti che risvegliano il desiderio, separato da fattori insalubri (akusalaa dhammaa ) , io raggiunsi (uno stato di) gioia e felicità (piiti-sukha ) accompagnato da contemplazione e riflessione (vitakka-vicaara ) che è il primo jhaana e vi rimasi per qualche tempo. Poteva questa, forse, essere la via (magga ) all'Illuminazione (bodhi ) ?
Dopo questo ricordo, Aggivessana, io ebbi questa conoscenza: questa è la via all'Illuminazione. Allora , Aggivessana, io pensai: perché dovrei avere paura di questa felicità che non ha niente a che vedere con oggetti che risvegliano il desiderio e niente a che fare con fattori insalubri? Allora, Aggivessana, io pensai: non ho paura di questa felicità che non ha niente a che fare con oggetti che risvegliano il desiderio e niente a che fare con fattori insalubri" .
Perciò Sakyamuni si rivolse a rievocare quello stato che aveva provato da ragazzo e vi riuscì, realizzando il primo jhaana e poi in successione gli altri tre dopodiché conseguì il Risveglio.
Possiamo chiederci perché il Buddha intuì che il Jhaana era la via che portava all'Illuminazione. Quale sua caratteristica lo colpì intuitivamente? Ora poiché la caratteristica principale e la causa del primo jhaana è la SEPARAZIONE della mente dagli oggetti mentali negativi, probabilmente fu questa caratteristica a colpirlo, nonché il fatto che questo creava uno stato di contentezza e felicità nella mente, stato che alludeva alla felicità del Nirvana. Per la prima volta Sakyamuni vedeva che la mente poteva essere separata, in una maniera non costrittiva ma anzi felice, dalla ruota del mondo, dalla catena degli afferramenti e del sorgere condizionato. Applicando la consapevolezza a questo primo stato mentale si rese poi conto come contemplazione e analisi mentale fossero ancora fattori di disturbo e passò ad eliminarli, realizzando così uno stato dove questi due fattori erano silenziati,il secondo jhaana che sorgeva ormai non più dalla SEPARAZIONE ma dalla concentrazione del Samadhi ottenuto alla fine del primo jhaana ( e indicato dalle parole ‘ egli vi rimase per un certo tempo') . Successivamente, applicando l'analisi, si accorse che un altro fattore era ancora di disturbo per una maggiore quiete e purificazione della mente, un fattore ancora grossolano, la gioia, e passò ad eliminare anche quello, rimanendo in uno stato di felicità purificata, il terzo jhaana. Ancora però questo gli apparve come uno stato di un qualche disturbo, sia pure sottile, ed eliminatolo rimase in una equanimità purificata. Questo spiega anche perché nell'elenco dei sette fattori del Risveglio l'equanimità è l'ultimo ed il più elevato. Non è una qualsiasi equanimità, è l'equanimità jhanica. Inoltre non era solo l'equanimità di una mente offuscata. No, c'erano perfetta equanimità e consapevolezza (upekkhaa-sati-paarisuddhi ) . Si era realizzata una mente pura ed affilata come un diamante. Fu come essere entrato in un'altra dimensione. Intuitivamente si accorse come questo stato fosse al di là di sofferenza e gioia, del tutto equanime, il che, sempre intuitivamente, rimandava a quando c'era sofferenza/insoddisfazione e, sempre intuitivamente, all'origine dell'insoddisfazione, al desiderio. Ecco che in un lampo di intuizione venne uno dei contenuti tradizionalmente ascritti come uno dei contenuti del Risveglio: c'è una liberazione dal desiderio e attaccamento che sono la fonte dell'infelicità.
In seguito questo fu riformulato come le Quattro Nobili Verità: esiste la Sofferenza o Insoddisfazione, c'è un'origine di questa sofferenza, c'è una Liberazione da questo stato di insoddisfazione ed ovviamente c'è (c'era stata) una via che porta alla liberazione dall'insoddisfazione. Ma sicuramente la forma intuitiva originaria fu quella di una consapevolezza di libertà che illuminò su quello da cui ci si sentiva liberi. Così pure fu in seguito sistematizzato l'Ottuplice Nobile Sentiero che porta alla Libertà assoluta ed il nobile Sentiero aveva come sua punta massima il Samadhi che è la stessa cosa dei Jhaana. In ogni caso l'intuizione che vi era stata una Liberazione e dei fattori da cui si era liberato (quello che poi fu sistematizzato come le Quattro Nobili Verità) fu uno dei contenuti del Risveglio, una insight o introspezione di ciò che era accaduto e di ciò di cui si era liberato . Egli riconobbe anche (forse in seguito, forse subito ( l'illuminazione intuitiva è meravigliosa) di essere stato l'unico uomo a realizzare tale visione e Liberazione.