sabato 19 maggio 2007

MISTICISMO: MEISTER ECKHART

Anni fa due miei compaesani vollero portarmi a conoscere due preti o frati (mi sembra frati) che tenevano la parrocchia di Gattaiola e avemmo una tranquilla discussione che il più autorevole dei due sembrò concludere con l’affermazione di “essere innamorato di Gesù”, affermazione ad effetto che ho sentito fare anche da altre persone. Una visione così ‘forte’ e passionale della propria pratica religiosa c’è stata di recente sul Forum del nostro sito Web da parte di ‘Siria’, una persona che sembra aver iniziato una sua personale crociata per ‘salvare anime’. Si legga la sua lettera ‘ Credere senza vedere’ e le risposte che le sono state date. Benché l’affermazione di quel frate mi colpisse allora in senso negativo, a oggi non mi stupisco più di tanto poiché capisco che la passionalità gioca un ruolo importante in questo mondo e si infiltra, sotto forma di ‘afferramento’, in molte pratiche di tipo religioso. Si vuole dare un senso alla propria pratica piuttosto che no, riempirla di contenuti e di ‘amore’ piuttosto che no, arricchire la propria vita.

Ovviamente si sa che quello che facciamo noi ‘meditatori’ è invece scarno, povero e volto piuttosto ad eliminare gli arricchimenti e i contenuti invece che no e che questo deriva dalla tradizione e metodologia buddhiste che parlano di impersonalità e di assenza di sostanza reale nel mondo, sostituite da una dipendenza generalizzata e instabile di tutte le cose rispetto a tutte le cose. Però non si tratta qui di rimarcare le differenze che pure vi sono e notevolissime, quanto di vedere come, non nella dottrina ufficiale della Chiesa cattolica o protestante, ma nelle sue frange periferiche di mistici e contemplativi vi siano concordanze con le pratiche buddhiste più avanzate. E questo può essere un servizio per tutti poiché c’è tanta ignoranza (nel senso di non-conoscenza) di quello che è il percorso dei mistici cristiani, sempre visti con sospetto dalla Chiesa ufficiale. Mi baso principalmente (ma non solo) su tre libri scritti da cristiani:

Hugo Enomiya Lassalle: Meditazione Zen e preghiera cristiana , Edizioni Paoline, 1989 (non so se ne esista una edizione più moderna) ;

Marco Vannini: Storia della Mistica Occidentale , Oscar Storia Mondadori (1999 / 2005 );

La Via del Distacco, un’antologia di testi eckhartiani, Piccoli Saggi, Oscar Mondadori, 1995 (sempre a cura di Vannini).

Cominceremo dal mistico cristiano più famoso, Maestro Eckhart.

MEISTER ECKHART

Cito largamente da Vannini (p. 188 e sgg.) . Il caso di Eckhart , vissuto fra il 1260 e il 1328, è davvero emblematico del destino della mistica cristiana quale compimento dell’esperienza religiosa e del suo superamento. Egli fu infatti un domenicano, membro di un Ordine che era nato per la difesa dell’ortodossia, e anche maestro a Parigi, dunque ai vertici dell’istituzione ecclesiastica; ciò nonostante subì un processo e una condanna per eresia.

Il magistero eckhartiano consiste in effetti nel far comprendere che non c’è un Dio lassù mentre noi stiamo quaggiù, ma che Dio e io siamo una sola cosa. Non riecheggia questo la celebre frase di Nagarjuna riguardo al Nirvana buddhista (sostituendo a Dio la parola Nirvana o realtà ultima o qualunque altro nome come talità, la concordanza è stupefacente) ?

“Qualunque sia il limite del Nirvana, quello è il limite dell’esistenza ciclica (samsara )".

"Non c’è nemmeno la più piccola differenza fra loro e nemmeno la cosa più sottile” (Nagarjuna, Mulamadhyamakakarika 25).

E’ chiaro che in effetti l’affermazione di Eckart non poteva non restare sospetta di eresia alla Chiesa che sostiene che Dio è creatore esterno all’Universo.

In contrasto a un modo di vivere appassionato, Eckart sostiene in uno dei suoi sermoni più famosi (Beati pauperes spiritu), il NON-VOLERE. Egli afferma che uomo veramente ‘povero’ è “colui che niente vuole, niente sa, niente ha”.

‘Niente vuole’ ricorda una delle Tre Porte alla Liberazione del Buddhismo, cjhiamata Aprannihita o ‘Senza-direzione’, ‘senza desiderio’: si evita cioè di pensare di dover raggiungere qualcosa. E ‘niente sa’ non si riferisce, ovviamente, a non sapere niente (Eckhart stesso era estremamente sapiente e istruito ) quanto a non farsi concezioni mentali di questo e di quello.

Eckhart afferma anche qualcosa che stupirà il credente: il non-volere non significa volersi conformare alla volontà divina. Quelli che pensano così:

"vengono stimati molto dalla gente che non conosce niente di meglio ma io dico che sono degli asini, che non comprendono niente della verità divina… Se ora uno mi chiedesse cos’è dunque un uomo povero che niente vuole, risponderei così: finché l’uomo ha questo in sé, CHE E’ SUO DOVERE COMPIERE LA DOLCISSIMA VOLONTA’ DI DIO, un tale uomo non ha la povertà di cui vogliamo parlare: INFATTI EGLI HA ANCORA UN VOLERE, con cui vuole soddisfare la volontà di Dio, e questa non è la vera povertà. Se l’uomo deve avere vera povertà, deve essere così vuoto della propria volontà creata come quando non esisteva. Perciò io vi dico nella volontà eterna: FINCHE’ AVETE LA VOLONTA’ DI COMPIERE IL VOLERE DI DIO e avete il desiderio dell’eternità e di Dio, voi non siete davvero poveri. Infatti è un vero povero soltanto colui che niente vuole e niente desidera".

E’ notevole come ciò riecheggi il ‘non-agire’ daoista o appunto il senza-direzione o senza-scopo antico buddhista. Risulta chiaro, dice Vannini, che Eckhart sottolinea che la volontà di conformarsi alla volontà divina E’ ANCORA UNA VOLONTA’ , e dunque di nuovo “un aggrapparsi all’io personale che si ritiene importante" (“salvate anime!” dice Siria!) . Ciò vale, dice sempre Vannini, per tutta la cosiddetta mistica del sentimento o dell’amore perché il cosiddetto amore di Dio e la volontà di Dio sono in realtà l’amore dell’io e la volontà propria. Si noti, dice ancora Vannini, come nelle parole del maestro domenicano, venga colto il legame tra desiderio di fare la volontà di Dio e desiderio dell’eternità e di Dio, ovvero di qualcosa che soddisfi i propri bisogni e le proprie aspirazioni. Straordinariamente, dico io, questo va a concordare con quanto diceva il Buddha nel Brahmajala Sutta dove egli prendeva in osservazione tutti i possibili punti di vista religiosi o metafisici per concludere che tutti derivano “dalla sensazione”, cioè dalla possibilità di creare
una sensazione piacevole e appagante in qualcuna di queste teorie. Sempre in contrasto con le varie teorie dell’amore, Eckhart afferma più volte: Homo divinus nihil amat , ‘l’uomo divino non ama niente’ !

Ora, se molti Cristiani osservano quello in cui SONO ABITUATI a credere, si renderanno conto di che abisso li separi dal misticismo (intendendo con questo un tipo di pratica che li porti in unione con la realtà ultima). Credo che comunque articoli come questo, senza necessariamente convincere nessuno, siano importanti, volendo offrire a persone sincere e non pregiudizialmente schierate, degli strumenti di confronto interni alla propria tradizione per espandere la propria visione. Come dicono i No-Global, un altro mondo è possibile; un altro modo di vedere è possibile, per tutti, me compreso. Questo articolo non esaurisce le cose da dire su Eckhart. Rimandiamo perciò alla prossima Newsletter.

La saggezza della volpe

Fino a poco tempo fa vedevo le meditazioni del pomeriggio (durante gli intensivi o ritiri) come un momento fastidiosamente opprimente. Sono i momenti del dopo-pranzo: se ti sei riposato, magari dormicchiando un po’, resti semi-addormentato e un po’ intontito; se non ti sei riposato, sei già stanco prima di cominciare. A ciò si aggiunge il peso della digestione e, inevitabile o quasi, la sonnolenza. Proprio quest’ultima è micidiale. Ricordo momenti in cui mi piantavo le unghie nelle mani per non addormentarmi, prendevo profondi respiri… tutto sembrava vano, il sonno era micidiale. Ricordo che una volta, ad un ritiro con Corrado Pensa, nella zona intorno a Roma, l’insegnante che in genere alla prima meditazione del pomeriggio era presente, non lo fu per qualche motivo. Fu allora uno spettacolo vedere come la sala piano piano si trasformava. Mentre, con l’insegnante presente, nessuno si muoveva ed un relativo silenzio veniva mantenuto, in base all’assunto che “quando il gatto è via i topi ballano” Lentamente la sala silenziosa comiciò ad animarsi. Un sospiro di qua e un movimento di là all’inizio, poi un manifestarsi generale di insofferenza sempre più vistoso. Avevo davanti a me una signora veneziana che ammiravo tantissimo per la sua compostezza, disciplina e pertinacia. Bene, rimasi colpito a vedere come anche lei, quella volta, cedette e cambiò posizione (cosa che non le avevo mai visto fare) .

Da non molto tempo invece la meditazione sonnolenta del pomeriggio è divenuta un appuntamento interessante. Per vari motivi: primo perché ho imparato finalmente a riuscire ad osservare ed accettare la sonnolenza senza esserne inghiottito; secondo perché vengono a galla pensieri, canzoncine ed altro ed io riesco ad accettare che la mia mente, in quel momento, in base a cause, condizioni e predisposizioni che ben conosco“sia così” ; terzo perché rifletto che non sto ottenendo niente e questo mi dà una certa felicità. Sono infatti consapevole che vi è sempre, in me (come, penso, in altri) l’ansia di “conseguire qualcosa” . Conoscendo questo mio materialismo spirituale, sono contento di non ottenere niente.

Un’altra causa di relativa felicità è trovarmi solo (come mi è accaduto in alcuni ritiri recenti) . Poiché spesso ho guidato le sedute di meditazione, sono consapevole che uno dei rischi che corro è quello di affezionarmi alla mia figura come “leader” . Trovarmi solo è un indizio che non sto “avendo successo” come leader e questo mi permette di osservare mie eventuali reazioni di dispiacere o, come accade , di gioia. Proprio perché non c’è nessuno a dipendere da me.

Questo “non avere successo” è un motivo ricorrente della mia vita. Prendiamo per esempio il Kungfu. Non posso certo dire di avere avuto successo in questo campo-anche se in questo momento il corso è abbastanza affollato. I miei corsi (di Kungfu, di Taijiquan ecc.) sono un porto di mare dove pochissimi restano e moltissimi transitano. Una volta mi recavo in Cina, spendendo un bel po’ di soldi e, durante il ritorno, fantasticavo sui futuri successi che avrei avuto quando avessi dispiegato tutte le cose che avevo imparato… ma, ahimé, erano solo speranze e la gente preferiva fare altre cose. Dopo un po’ ho capito che per me questo era un bene. Sarà la storia della volpe e l’uva, la conosciamo tutti, no? La volpe vuole l’uva ma non riuscendo a raggiungerla va via dicendo: “Tanto era acerba”.

Mi viene fatto spesso di paragonarmi a quella volpe ma trovo che in fondo quella volpe era molto saggia: si era adattata alla realtà in qualche sua maniera. Lo stesso accadde a me. Semplicemente non ebbi successo. Però mi era capitato di vedere un altro istruttore, lui sì riuscito, un istruttore che vive in una piccola città vicino a Lucca. Lui era l’esempio (anche nell’aspetto fisico, nei vestiti eleganti) del manager di successo: aveva una palestra sua, aveva un nugolo di allievi ed era inserito a livello dirigenziale nella Federazione Italiana tal dei tali (vi fui anch’io per qualche anno, come semplice gregario) . Però era preoccupato, era stressatissimo,era sempre angosciato che i suoi allievi andassero da qualche altra parte, arrivava quasi a spiarli, se li vedeva parlare fra loro cercava di sapere cosa si dicevano….

Così quando anni dopo persone,in varie occasioni, mi hanno sollecitato a mettere su un centro per conto mio, ho sempre detto: “No, grazie” . Non volevo diventare come quell’istruttore, dovermi preoccupare se le persone pagavano il mensile, se i miei introiti calavano ecc. ; avevo capito insomma che il successo può essere bello ma può non fare dormire la notte. Anche per questo ho sempre evitato di pensare a un centro di meditazione così come si intende un ‘vero’ centro di meditazione: con una sua sede pubblica, magari con gli altarini e l’incenso che brucia; perché non voglio starmi a preoccupare di un affitto da pagare, della gente che non viene ed anche perché ritengo che affitti, incensi e altarini abbiano ben poco a che fare con il risveglio e la liberazione.

La liberazione ha a che fare non con i rituali ma con la semplicità. Ha a che fare non con gli obblighi, ma con l’essere liberi. E’ una premessa concettuale.

A proposito dei concetti, ieri, nella meditazione del sabato, che da qualche tempo è estremamente silenziosa, di un silenzio profondo e coinvolgente, è venuto fuori, in seguito ad un argomento tirato fuori da Doretta, anche il discorso dei concetti. Nagaarjuna disse a suo tempo che lui non aveva niente da dire, niente da affermare. Disse anche che il Buddha, in decine di anni di predicazione del Dharma, non aveva detto niente. E’ un paradosso, naturalmente, ma disse proprio così: il Buddha non ha mai detto niente. Cosa voleva dire con ciò? Mi fa venire in mente un maestro zen che ho conosciuto: parla, parla, parla tanto ed è davvero interessante sentire ciò che ha da dire, è stimolante. Però arrivi in fondo ai suoi discorsi e ti chiedi: ‘Ma che ha detto?’ . Però è stato stimolante. Dall’altro lato della collina conosco qualcuno che parla, parla, parla tanto (non di cose meditative, si tratta di un’altra situazione) e arrivi in fondo e ti chiedi: ‘ Ma che ha detto?’ . E lì te lo chiedi davvero.

Perché il Buddha e Nagaarjuna non hanno nulla da dire, nulla da affermare? Riflettiamoci (la soluzione è in fondo a questo testo, riferita alla vacuità o assenza di sostanza intrinseca del reale, ma non andateci, prima riflettetevi intuitivamente) .

Avere tesi particolari implica sofferenza. Sono le ossessioni, specialmente le ossessioni metafisiche, basate su opinioni e costruzioni mentali varie. Quello di cui non ci rendiamo conto è che noi “aderiamo” spesso a contenuti, ci attacchiamo emotivamente a questi contenuti (spesso ricevuti fin dai primi anni di vita) . Quindi non è importante parlare, discutere su questo o quello. Importante è vedere cosa c’è davvero mentre si discute. Quando U –Vijaya mi interrogava e mi diceva: “Che hai visto?” e io gli dicevo che avevo percepito davvero questa o quella cosa, lui , bruscammente mi diceva: “Sì, ma che hai visto?” ed io restavo perplesso e sconcertato. Io esponevo dei contenuti e lui riportava bruscamente l’attenzione su quello che c’era davvero. Dei bei pensieri, delle belle opinioni, fatte sulla base di insegnamenti, letture, credi religiosi…. Tutte cose di cui l’ego ha bisogno per attaccamento, consolazione… ma cosa c’era davvero?

Buddha, Dharma e Sangha non esistono in ultima analisi. Molti buddhisti sono attaccati a questi concetti. Ricordo invece una volta che io e Fabio eravamo a casa con mia zia d’America, ottantenne e un po’ istintiva. Parlavamo di meditazione e Buddhismo e lei, d’istinto, disse: “ Il Buddha non sa di nulla” . “E’vero” risposi “davvero il Buddha non sa di nulla” . Lei continuò il suo attacco e noi che ridevamo e scherzavamo dandole ragione. Fu davvero divertente. Perché Buddha , Dharma e Sangha sono la vacuità, l’assenza di sostanza di tutti i fenomeni e di tutti i concetti. Per esempio Naagaarjuna critica inesorabilmente ogni concetto, ogni opinione, buddhista e non buddhista di cui mostra l’assurdita e la contraddittorietà.Concetti come gli aggregati, gli elementi,il karma, la rinascita, la sofferenza, il Buddha, il Nirvana… e su altri versanti il concetto di un creatore ecc.,tutto si frantuma sotto la sua critica. “Se io avessi qualche tesi”, egli dice ne “Lo Sterminio degli Errori” “sarei vittima di questi [stessi] controsensi. Ma io non ho nessuna tesi e quindi non mi si può imputare nessun controsenso” .

Perciò nessuna tesi; piuttosto: “Che c’è davvero?”

domenica 13 maggio 2007

Naagaarjuna e Wittgenstein

Il tempo purtroppo è padrone delle nostre vite.


Mentre scrivo questo breve articolo mi rendo conto che manca qui una descrizione essenziale del pensiero di Nagarjuna e mi rendo conto che manca anche, in Italiano, un'opera che esamini compiutamente il suo pensiero. L'unica esistente, quella di Murti [1] è ormai superata e abbondantemente criticata dagli studiosi moderni come un tentativo di inquadrare Nagarjuna in una visione di tipo kantiano.


In quanto a Ludwig Wittgenstein (1889-1951) egli si definisce l'ultimo dei filosofi, quantunque filosofi ve ne siano stati dopo di lui. La sua personalità egocentrica e comunque geniale, lo portava a pensare che dopo di lui la filosofia non potesse più esistere [2] . Di lui viene detto che egli fu eminentemente un logico e che la sua soluzione ai problemi della filosofia consistette nel ridurli a logica. Paul Strathern, a cui si deve questo giudizio, dice che tutto il resto fu escluso - la metafisica, l'estetica, l'etica e alla fine perfino la filosofia stessa [3]. Già in questo si vedono le prime somiglianze con Nagarjuna. Quest'ultimo si applicò su base logica a scardinare tutti i luoghi comuni del Buddhismo, non per distruggerlo ma piuttosto per spazzar via i detriti ideologici accumulatisi nel corso del tempo, ad es. in parti dell'Abhidharma, e per riportare alla luce il discorso originale del Buddha, se vogliamo anche in forma più radicale.


Alcune formulazioni di W. Contenute nel Tractatus Logico-philosophicus sono rimaste come perle rifulgenti negli anni, scarne e proprio per questo affascinanti. " Il mondo è tutto ciò che sia il caso che sia.(1.1.) Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose" . Fatti, non cose: questo sembra subito riecheggiare la polemica anti-sostanzialista di Nagarjuna e il discorso buddhista de " le cose come sono venute in essere" . Come scrive Strathern [4] un'affermazione nitida e squillante segue l'altra, correlata dal minimo assoluto di giustificazione o argomentazione: "(1.13) I fatti nello spazio logico sono il mondo", "(1.2) Il mondo si divide in fatti" , per poi concludersi con la famosa frase: " Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere" .


Dio rientra inevitabilmente [5] in questa categoria di cose di cui non è possibile parlare. Non possiamo dire nulla di Dio in quanto il linguaggio non fa che descrivere la realtà. Al contrario di Nagarjuna però, che critica con logica stringente l'idea di un Creatore, Wittgenstein che ebbe una vita piena ora di angosce ed ora di esaltazioni, ritiri di studio quasi mistici e paure (si vedano i suoi Diari del 1930-32 e 1936-37: " Io sono molto spesso o quasi sempre pieno di paura" [6] ) , pensa tuttavia che cose come Dio esistano veramente, solo che non possono essere dette o pensate: " Esistono, in effetti, cose che non possono essere tradotte con le parole. Esse si rendono manifeste .Sono ciò che si dice mistiche".(6.522) Per questo il Tractatus viene definito da Strathern una irresistibile miscela di logica e misticismo .


In effetti di molte delle cose di cui non si può parlare (per non fare metafisica) occorre parlare, un paradosso che ritroviamo spesso negli scritti buddhisti (un altro paradosso è che la tradizione Zen che, a parole, ha rifiutato la trasmissione dottrinale per via scritta ha poi prodotto quasi più testi di ogni altra tradizione) .


Per tornare alle cose di cui non si può parlare, non si può parlare di bene e di male o di giusto e sbagliato. Nagarjuna dice sostanzialmente lo stesso ma ponendo avanti due categorie di verità (non di realtà, si badi bene, in ciò concordando con il discorso sul linguaggio che farà in seguito W.) . Le due verità sono quella assoluta e quella relativa. Se si parla dal punto di vista della verità o discorso assoluto non ha senso parlare di niente, tantomeno di categorie così relative come bene e male ecc; d'altra parte nel discorso relativo di ogni giorno si parla di bene e male, giusto o sbagliato ecc. Ma è chiaro che, se come dice Nagarjuna, il mondo della trasmigrazione ed il Nirvana coincidono, da un punto di vista mistico ha poco senso tenere separati questi due livelli di verità. Ecco perché i libri di aforismi zen sono pieni di cose incomprensibili. Chi parlava parlava da un punto di vista della verità mistica e la trasposizione di questi aforismi nel linguaggio di tutti i giorni mostrava un discorso pressoché incomprensibile. In effetti è solo dall'interno di un'esperienza mistica che si può dire che la buddhità è uno spazzolino per pulire il cesso. Solo chi ha provato questo tipo di esperienza può realmente comprenderlo [7] .


Wittgenstein si trovò ad affrontare il problema del linguaggio. Applicando la logica, una proposizione può essere dimostrata vera o falsa senza preoccuparsi dei suoi elementi costitutivi. Se per es. diciamo: " Questa mela è rossa o non rossa" questa proposizione è sempre vera (tautologia) . Se invece diciamo: " Questa mela non è né rossa né non rossa" otteniamo una contraddizione, cioè la proposizione è sempre falsa. Secondo W. le proposizioni logiche, in quanto tautologie, "non dicono effettivamente nulla" . Perciò egli dichiara il fallimento della Filosofia.


Nell'esperienza logico-mistica di Nagarjuna si fa ricorso al famoso tetralemma , che sembra fare uso del principio di contraddizione. Il tetralemma era stato in realtà già esposto dal Buddha ed è un tipico espediente dell'intelligenza indiana che preferisce usare la negazione (neti...neti... ) invece che l'affermazione. Il tetralemma nega che la realtà ultima sia conoscibile come:


A


Non-A


Sia A che non-A


Né A né non-A


Tre esempi trovati nelle "Strofe del Cammino di Mezzo" (Muulamadhyamakakaarikaa, qui abbreviato in MK ) si dispiegano uno in forma positiva e due nella consueta forma negativa:


Ogni cosa è reale e non è reale,


sia reale che non reale,


né reale né non reale,


questo è l'insegnamento del Signore Buddha


(MK 18:8)


"Vacuo" non dovrebbe essere asserito.


"Non vacuo" non dovrebbe essere asserito.


Né entrambi né nessuno dovrebbe essere asserito.


Essi sono solo usati come nomi


(MK 18:8)


Essendo passato nel Nirvaana, il Vittorioso Conquistatore (il Buddha)


Né trovò evidente l'esistenza


Né trovò la non-esistenza.


Né entrambe né nessuna sono così evidenti


(MK 25:17)


Nell'ultima parte della sua vita Wittgenstein cambiò indirizzo rispetto al Tractatus Logico-philosophicus e pubblicò le Ricerche Filosofiche dove si proponeva di svelare gli errori del nostro pensiero, che poi sono errori linguistici. Il linguaggio non è una descrizione del mondo bensì una sorta di fili di discorso strettamente uniti fra loro e reciprocamente dipendenti.


"La gente dice sempre che la filosofia non fa progressi e che gli stessi problemi filosofici che già impegnavano i Greci continuano ad occuparci anche oggi. Ma chi parla in questo modo non comprende perché le cose stanno così. Il motivo è che il nostro linguaggio è rimasto lo stesso e ci porta sempre verso gli stessi quesiti. Fintanto che esisterà un verbo ‘essere' che pare funzionare come i verbi ‘mangiare' e ‘bere', fintanto che vi saranno aggettivi come ‘identico' , ‘vero' , ‘falso', ‘possibile', fintanto che gli uomini parleranno di uno scorrere del tempo e dell'estensione dello spazio ecc.; fintanto che si verificherà tutto ciò, gli uomini andranno a urtare contro le stesse noiose difficoltà e continueranno a guardare fisso qualcosa che nessuna spiegazione sembra in grado di eliminare" (L. Wittgenstein, The Big Manuscript, p. 424).


Il linguaggio è fuorviante poiché esso può presentare concetti diversi in forme simili. Il verbo ‘esistere' sembra simile a verbi come ‘mangiare' o ‘bere' , però, scrive P. M. S. Hacker, mentre è del tutto normale chiedere quanti studenti non mangiano carne o bevono vino, non lo è altrettanto chiedere quanti studenti non esistano. Essere rosso è una caratteristica che alcuni oggetti hanno e altri no, ma l'esistenza è una proprietà che alcune cose hanno e altre no? [8]


Quindi questi verbi - per estensione le parole- non sono descrittivi della realtà ma agiscono in un contesto autoreferenziale (altri possono avere contesti linguistici diversi) . Cioè quello che usiamo per ‘descrivere' la realtà è un ‘gioco privato' dove i termini sono in reciproca dipendenza ma non corrispondono necessariamente a qualche elemento del reale. Qui le somiglianze del discorso di W. con quello di Nagarjuna sono notevoli. E ancor più in questa asserzione fatta da Hacker:


Le cose possono incominciare a esistere e, successivamente


Cessare di esistere, ma ciò significa che acquisiscono


Una proprietà che inizialmente mancava loro e che più


Tardi perderanno? [9]


Se ricercare la natura di tutte le cose che esistono ha un senso


Non lo ha invece ricercare la natura dell'esistenza


O dell'Essere', per non parlare della non-esistenza


O del nulla.


(come ha cercato di fare Heidegger) .



In filosofia si viene insomma continuamente fuorviati da somiglianze grammaticali che nascondono profonde differenze logiche. Noi siamo intrappolati nella ragnatela delle regole d'uso delle nostre espressioni e il compito della filosofia è quello di conseguire una visione chiara di questo stato confusionale.


Ho sintetizzato il più possibile il discorso di Wittgenstein che è senz'altro degno di essere accostato a quello di Nagarjuna. L'importanza del linguaggio anche nell'esperienza conoscitiva legata alla meditazione è sottostimata. Anni fa scrissi una delle mie Newsletters intitolata ‘Grammatica del vivere ‘ dove facevo notare alcune connessioni pratiche fra la visione profonda e alcune regole grammaticali: (http://sinicus.altervista.org/Testi%20di%20Meditazione/Grammatica%20del%20vivere.htm)


Questo non è certo all'altezza di un discorso di W. o di Nagarjuna ma giusto per rilevare come questa connessione mi fosse già evidente.


Bisogna stare attenti a non interpretare Nagarjuna alla luce di Wittgenstein o interpretare Wittgenstein alla luce di Nagarjuna. I contesti sono assai diversi. Lo scopo di Nagarjuna era l'illuminazione e la liberazione degli esseri viventi, lo scopo di W. è la liberazione dai mali dell'intelletto. Entrambi i metodi servono per curare una malattia i cui sintomi sono simili ma non uguali [10].


Il discorso di Nagarjuna ridotto all'osso è una critica che mostra come, alla luce della logica, ogni concetto possa essere dimostrato incapace di applicarsi alla realtà. In questo le somiglianze (somiglianze) con il discorso di W. sono evidenti. Nagarjuna mostra come si tenda a ‘reificare', a ‘cosizzare' ogni categoria come se esistesse a se stante. In verità il linguaggio non può cogliere la verità ultima. Esso però viene usato poichè è il nostro unico mezzo di espressione. La critica alle singole proposizioni del linguaggio, ai loro singoli concetti (inclusi termini ‘sacri' come Tathagata e Nirvana) può però mostrare cosa questi non sono: termini a cui corrisponda qualcosa di reale.


Ogni concetto esiste in dipendenza da altri concetti, un po' come i ‘privati' giochi linguistici di cui parla W. (ma non esattamente la stessa cosa) . Ogni entità è priva quindi di una sostanza intrinseca che le permetta di vivere in isolamento ma, si potrebbe dire, ogni fenomeno ha i piedi d'argilla basati su altri fenomeni; ogni fenomeno sorge in dipendenza (da cause e condizioni) . Questo è il concetto di Vacuità, vacuità di essenza intrinseca. Lo stesso termine ‘Vacuità' come fa rilevare Richard H. Robinson, Early Madhyamika in India and China, 1967, p. 49 , " non è un termine fuori dal sistema espressivo" cioè è solo un termine non corrispondente a niente di sostanziale. " Quelli che ipostatizzassero la vacuità confonderebbero il sistema simbolico con il sistema dei Fatti. Nessun fatto metafisico può essere stabilito da fatti del linguaggio" .


W. faceva rilevare come " i limiti del linguaggio sono i limiti del mio mondo" mentre in forma analoga (ma non uguale) prima di lui Nagarjuna asseriva che" i limiti del Samsara sono i limiti del Nirvana" .


Che singolare somiglianza!




[1] Edita da Ubaldini con il titolo, mi sembra, La Filosofia Centrale del Buddhismo .


[2] Seguo, per una rapida elaborazione su di lui, Paul Strathern, I Grandi Filosofi, Filosofia, Oscar Saggi, Mondadori, 171-199; P.M. S. Hacker, Wittgenstein , I Filosofi, Sansoni, Milano, 1998; Hilary Putnam, Rinnovare la Filosofia , Garzanti, 1992; Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916 , Biblioteca Einanudi1964 >1998; L. Wittgenstein, Quodlibet. Movimenti del Pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937 . La bibliografia sarebbe in realtà sterminata.


[3] Strathern, op. cit., 171.


[4] Ibid. , p. 184.


[5] Strathern, 186.


[6] Quodlibet , 26.4.30, p. 17 della versione ital. citata.


[7] Per inciso questo è quello di cui mi sembra povera la tradizione più antica (come quella Theravada) . In effetti la tradizione Zen è molto più ricca di sprazzi sulla verità ultima e, a mio parere, molto più utile al praticante.


[8] P.M.S. Hacker, Wittgenstein , Sansoni, 1998, p.non numerate (secondo capitolo) .


[9] Ciò mi ricorda in qualche modo il famoso koan zen: ‘ Come era il tuo volto originario prima di nascere?'


[10] Per questo cfr Andrew P. Tuck, Comparative Philosophy and the Philosophy of Scholarship. On the Western Interpretation of Nagarjuna , Oxford University Press, 1990, pp. 74-93 (cap. 4, Buddhism after Wittgenstein)


Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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