mercoledì 13 giugno 2007

Esperienze (3)

Pubblico di nuovo alcune esperienze meditative da me vissute. Come si vedrà alla fine, il mio atteggiamento attuale è un po' diverso ma poiché deriva anche da queste esperienze, c'è una continuità.



27 febbraio 2000.



Stamattina ho avuto un'esperienza di Liberazione della mente (vimutti? cetovimutti?) o qualcosa del genere. Ho cominciato a meditare sul respiro, pensando di indurre così il primo jhāna; seguivo all'inizio il respiro
che ruotava nell'addome come una ruota verticale poi l'ho seguito, sempre come una ruota oblunga, lungo la spina dorsale e poi la parte anteriore del corpo. Si sono mostrati dei segni tipici dell'induzione del jhāna, come luce e rilassamento, presenza poi di tutto il corpo nel respiro; ma non è sorta pitī, non è sorta sukha.

A quel punto sono passato a quella che ora è la mia prassi abituale: ho cioè espanso la coscienza prodottasi nello spazio fuori da me, senza più prestare attenzione alla molteplicità
delle forme o dei pensieri, anzi concentrandomi nel puro irradiare senza oggetto, senza cioè avere un oggetto particolare da percepire o il mio corpo-mente come base.Dopo un po' mi sono reso conto che era sorto, intorno alla mia mente, come una specie di alto muro che la isolava.
E' stata proprio come una sensazione fisica, ma è ovvio che si trattava di un'immagine mentale.
L'inconscio dava cioè questa interpretazione dello stato in cui mi trovavo.Sono rimasto un certo periodo in questo stato,
poi mi sono alzato, ho fatto le mie cose abituali, sono uscito per fare colazione ed infine mi sono recato all'ufficio postale dove dovevo svolgere una pratica che implicava il rintracciare dei fondi andati perduti.
Mentre parlavo con Giovanni, l'addetto a questo tipo di pratiche, mi sono reso conto di come la mia mente fosse in uno stato particolare. Nessuna apprensione, nessuna tensione, una mente totalmente calma ed attenta. All'attenzione sono abituato, ma non sempre lo sono alla mancanza di tensione, di apprensione.

E' nella mia personalità essere apprensivo ed emotivo. Ho allora scandagliato la mente e mi sono reso conto che essa si trovava in uno stato simile a quello provato nel '95 a Pomaia; verso qualsiasi direzione della mia vita io guardassi, verso qualsiasi ipotesi contemplassi (a titolo di esperimento), non trovavo niente che colpisse la mia mente, che le creasse la minima preoccupazione. La mente era cioè libera, liberata. Quanto è durato questo stato mentale? Non molto, forse una mezz'ora, dopodiché ho cominciato a vederlo scemare.



All'inizio c'è stato il tentativo di afferrarlo, di trattenerlo, poi mi sono detto che dovevo lasciare andare, che era solo uno stato mentale, che dovevo non aggrapparmici, che dovevo osservarne il dissolversi. Fa parte dell'Impermanenza. Così l'ho lasciato andare, felice comunque, di una felicità però equanime, non quella che si prova nel primo jhāna.
Investigando successivamente sulla situazione mi sono detto che è la meditazione sullo spazio che ha provocato questo.

Su questi tipi di meditazione ho adesso una mia opinione, che è diversa ad esempio da quella degli insegnanti di Vipassanā pura; prima di tutto non condivido la separazione stretta tra samatha e vipassanā che alcuni insegnanti propongono; questa separazione non esisteva nei sutta e fu un prodotto dell'Abhidhamma e di commentatori remoti come Buddhaghosa. Inoltre, poiché tutti i dhamma sono dipendenti, a mio parere la genesi della liberazione del Buddha deve avere una base nelle precondizioni in lui instaurate da insegnanti come Alara Kalama che insegnò fino alla base del ‘Non c'è Nulla'.



Quindi la meditazione sullo spazio e sulla coscienza, che sono i due primi arupa jhāna, e che fanno parte sicuramente del pensiero e della metodologia di Alara Kalama, dovettero senz'altro contribuire in qualche maniera alla genesi (condizionata, prima di) della mente liberata.
Sono ipotesi, ma mi sembra che spieghino diverse cose.


4 marzo 2000.

Le condizioni di papà si sono molto aggravate negli ultimi giorni e sembra in bilico tra la vita e la morte. Ho fatto arrivare la legna per la stufa che era finita e mi ero messo a metterla dentro. Ogni tanto la mente fantasticava sulle varie possibilità di evoluzione della situazione. Mi venivano alla mente tutti i momenti passati insieme e mi coglieva la commozione del ricordo. Poi mi accorgevo di essermi lasciato andare e tornavo all' attenzione, al presente. Questo più volte. Ad un certo punto sono però giunto ad una conclusione liberatrice:


IL PASSATO NON ESISTE, non c'è proprio più, NON C'E' NESSUNA SOSTANZA CHIAMATA PASSATO CHE NOI POSSIAMO AFFERRARE.


Questo sembra come al solito banale, ma nella sua semplicità è rivoluzionario: infatti spazza e ripulisce in un attimo intere zone della mente. Il passato è estinto , scomparso, un sogno, perché cercare di afferrarlo e farsi del male? Questo perché l'ego, nel suo sogno di esistenza, di eternalizzazione, crea una pseudo-sostanza con cui trastullarsi. Dando sostanza al passato, riconferma se stesso come entità sostanziale.


NON C'E' NESSUNA SOSTANZA CHIAMATA PASSATO, NON C'E' NESSUNA SOSTANZA CHIAMATA FUTURO, c'è solo il qui ed ora, c'è solo l'attimo.



Accetto con equanimità qualunque cosa possa accadere a mio padre. Sono qui e faccio il mio dovere con grande affetto ma accetto pienamente qualunque cosa possa accadere. Forse a qualcuno sembrerò lo scemo del villaggio, una persona che vive superficialmente questo attimo, non è così! Cerco di essere lo scemo del villaggio, nel senso dell'accettazione più totale degli avvenimenti, di una mente che semplicemente accetta! Una mente che resta tranquilla anche quando la commozione è presente.
Non rinnego la commozione. Mio padre, un caro amico che forse ci lascerà, come non esserne commosso?

Ma, al di là di questo, vedere le cose come sono mi facilita l'accettare, il vivere quello che accade senza aggiungervi imputazioni di pensiero di alcuna sorta; quando comunque questo avviene, la mia mente ne è subito consapevole e ritorna alla vacuità e libertà dell'accettazione.
Questa nuova consapevolezza - passato e presente non sono qualcosa di reale - mi ha portato a discuterne con alcune persone care. Le obiezioni fatte sono: "Noi siamo formati nel passato, proveniamo dal passato ecc...".

In realtà ribadisco che non esiste una cosa, una sostanza, chiamata passato. Se esistesse, noi potremmo afferrarla e richiamare alla memoria ogni attimo-ogni attimo- della nostra vita. In realtà noi ricordiamo solo qualche episodio qui e qualche episodio là del nostro passato. Non è il passato: sono brandelli di memoria ed anche questi travisati dalla percezione. Quante volte riviviamo con gioia momenti che in realtà vivemmo come drammatici o dolorosi. Si tratta dunque di brandelli rimasti nella memoria- non sono il passato. Si tratta di brandelli vuoti internamente- e infatti li riempiamo con percezioni fasulle - vedi sopra -, si tratta di veri e propri fantasmi.



Liberarsene , così come liberarsi dei brandelli del futuro - un ectoplasma ancor più inesistente - restituisce ampi spazi di libertà nella mente.
Questo fornisce materiale anche per un nuovo approccio conoscitivo al presente. Quanto di ciò che percepiamo è illusione? Quanto di ciò che percepiamo non è reale?
So di non dire nulla di nuovo, ma una cosa è capire razionalmente le cose ed una cosa è farle proprie.


5 marzo.

Stamattina per la prima volta ho raggiunto il primo jhāna usando la meditazione sullo spazio. Questa volta ho usato un metodo più tradizionale, quello ben spiegato nel Visuddhimagga.


Le condizioni di mio padre, nonostante alti e bassi, non accennano a migliorare realmente. Mi sono posto a meditare ai piedi del suo letto. Ho praticato l'attenzione e con la mente attenta e chiara ho avvolto i miei genitori nella irradiazione della consapevolezza accettante. Non c'è nient'altro che si possa fare, direi.


Ad un certo punto ho cominciato ad irradiare- come faccio sempre- nello spazio, superando ogni concetto di materialità. Ogni tanto però restringevo la sfera della mia attenzione: dallo spazio infinito allo spazio di un'apertura circolare -come l'apertura circolare all'interno di una tenda indiana, suppongo, con la visione dello spazio che si vede attraverso. Con l'attenzione poi ‘arrotondavo' continuamente, in senso antiorario - non so perché in senso antiorario: mi è venuto così - i bordi del cerchio, sprofondandomi nello spazio al suo interno.


Poi di nuovo allargavo i confini dell'attenzione, dal cerchio alla sfera dello spazio infinito - ho proprio notato questa differenza tra lo spazio visto attraverso il cerchio e la forma sferica dell'espansione spazio-infinito e questo mi ha fatto venire in mente la designazione di spazio-infinito, coscienza-infinita ecc., ‘sfera' appunto- ed ho giocato a lungo su questa contrazione- espansione, proprio come dice di fare il Visuddhimagga con qualsiasi kasina od oggetto di contemplazione, finché la mente si è trovata a sprofondarsi sempre più in se stessa ed a provare gioia e felicità. Tutto il complesso corpo-mente era intriso di questo approfondimento mentale e di questa felicità lieve e leggera. C'era un senso di agio e di freschezza- ma non è proprio la parola giusta.



Non c'è [NOTA: QUI, PER UNO SCHERZO DEL MIO COMPUTER, C'E' UNA LACUNA TESTUALE RIEMPITA DA QUADRETTI - MAH? Tutto e' impermanente!]
⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪ni posteriori dell'Abhidhamma. Nei sutta antichi l'unicità di attenzione è posta nel secondo jhāna: solo l'Abhidhamma la pose già nel primo jhāna!

Sono rimasto per un discreto periodo in questo stato, che ho riconosciuto facilmente come il primo jhāna, ed allo scoccare dell'ora del campanile ho terminato la meditazione.
Un'osservazione: avevo già raggiunto altre volte il primo jhāna ed a volte anche il secondo, ma mai usando come oggetto di meditazione lo spazio. Mi sembra che questo oggetto di meditazione sia molto importante, soprattutto perché esso condivide molte caratteristiche con la Vacuità ( tanto è vero che alcune scuole antiche lo posero nella categoria del non-condizionato - non la Theravada però).


12 marzo 2000.

L'8 marzo, è morto papà., alle 10 circa. Ero a scuola quando mi è arrivata la telefonata di Pola.
Direi di essere contento di come è morto: a casa sua, circondato dalle cure continue dei suoi figli e di sua nipote. Lolita, in particolare, va elogiata per la sua devozione ed il suo impegno. E' passato oltre, probabilmente senza soffrire. Negli ultimi tempi aveva cominciato a disfarsi, per le piaghe da decubito, per cui dovevamo girarlo spesso e con mille precauzioni ogni 3 o 4 ore. In più c'era mamma che stava anch'essa male. Era divenuto magro magro, emaciato, senza più alcuna muscolatura, non mangiava, veniva nutrito a fleboclisi, non parlava. Era in uno stato di semi-coma ma rispondeva con lo sguardo quando lo chiamavamo. Ricorderò sempre il suo sguardo intenso mentre lo giravamo nel letto o lo accarezzavo. Sembrava che volesse ‘bermi', che volesse portare con sé il ricordo intenso di noi.

Per me era un padre ed un amico. Negli ultimi anni eravamo divenuti amici di caffè, perché quando potevo lo portavo al bar, da Enza, dove salutava tutti con gioia anche se nel parlare non si capiva cosa dicesse. Grazie a lui avevo riscoperto i rapporti umani più semplici, più elementari, con la gente del posto ed in particolare del bar: Giulio, Pietrino, Pietro ed altri.
Mentre stava male, in questi ultimi giorni, ho mantenuto la mente in uno stato di accettazione il più possibile, senza permettere, se non in rari casi, che andasse a fantasticare, a costruire. Così, per esempio, ho mantenuto la mente assolutamente attenta a non preferire: né volere che vivesse né volere che morisse: solo stare nel presente, perché ogni scelta, ogni desiderio è, in ultima analisi, una scelta dell'ego. Una scelta malsana, tesa a non soffrire, anche se mascherata- ed in parte identica- con il non voler far soffrire la persona amata. Così, anche mentre, durante le meditazioni, irradiavo, irradiavo con mente equanime e non desiderante. Ero lì e basta!


12 settembre 2000

E' passato molto tempo dall'ultima volta che ho scritto qualcosa.
Ci sono state tante cose. Il ricordo di papà e mamma tende ( o forse : ha teso) spesso ad affiorare, provocando dolore. Qualche settimana fa sono andato in crisi depressiva. La sostanza era: ‘per chi vivo ora?' o, tradotto: ‘ Che scopo ha ora la mia vita?'.
C'è voluta una buona meditazione analitica per vedere che quello che mi faceva soffrire era l'immagine che volevo dare/darmi di me. Costruiamo sempre immagini, segni, simboli,
è questa una delle capacità della mente. Darsi un'immagine, creare scopo, senso, significato. Questo, direi, è anzi il vero compito della mente. Questo ci tiene in effetti incollati al mondo, ad un mondo che sostanzialmente è rappresentazione.



Nella mancanza di senso
Trovo senso
Nel non avere scopo
trovo scopo.
Proprio in quello che mi affliggeva
Trovo oggi la libertà.
La collina vista da un lato
È ben diversa vista dall'altro.
Si parla sempre di qui ed ora
Ma tutti cercano là ed allora.
Cercare persone magiche
è ancora crearle,
cercare l'illuminazione
è ancora afferrare,
pensare che un luogo sia migliore
è stabilire distinzioni.




3 dicembre 2001.

Tanto tempo è passato dall'ultima volta che ho scritto.
E' difficile da spiegare, soprattutto come ci sono arrivato, ma è accaduto. Dopo forse 6 anni dalla prima esperienza di Liberazione, stavolta in maniera meno drammatica, sono entrato di nuovo in quel regno. In realtà non è per niente diverso dal "qui ed ora" ma è l'atteggiamento psicologico che cambia. In questi ultimi tempi mi arrovellavo un po' sul fatto che la mia pratica sembrava aver fatto un passo indietro. Non più jhana né stati particolari, molto ragionamento anche se spesso - quasi sempre, raggiungevo un buon livello di concentrazione, forse quello di accesso.

Mi chiedevo se dovessi "rinforzare " la pratica, metterci più intensità e severità, mi sembrava di essermi lasciato andare - pure ricordavo di averlo fatto come scelta: c'era troppo impegno, troppa ansia di risultati nella mia pratica; avevo stabilito che l'assoluta semplicità [di vita, di pratica] era quello di cui avevo bisogno. Forse avrei dovuto ricominciare ad etichettare e praticare in maniera più formale.
Pure, negli ultimi giorni, ero giunto ad una conclusione: "in realtà va bene così. E' un trucco della psiche le cui predisposizioni sono all'afferrare. Non vedo più i risultati di un tempo e mi sgomento. Devo accettare che è proprio questa consapevolezza dei non-risultati che è positiva: devo accettare questa consapevolezza". E così praticavo rendendomi sempre più conto di quanto insidioso sia il volere risultati.

Domenica 1 settembre c'è stato il ritiro con Dhammiko. Ho cominciato praticando metta radiante, liberandomi poi anche della radianza e restando nello spazio infinito. Poi ho cominciato a praticare la consapevolezza del non-afferrare e a notare così che la mente si svuotava. E' stato durante la meditazione camminata (anche l'altra volta accadde mentre ero in piedi e mi muovevo): riflettevo sui continui tentativi di afferramento e lasciavo andare ed osservando la mia mente ho notato che era semplicemente lì, non c'era alcun desiderio di risultati.


D'un tratto ho intuito che questo lasciar andare continuo, questo sapere che eventuali "segni" erano dovuti al desiderare latente, avevano svuotato la mia mente dove non vi era nemmeno attaccamento per la pratica. Ho fatto allora una cosa che feci sei anni prima: ho guardato in tutte le direzioni della mia storia personale attuale ed ho constatato che c'era libertà, non c'era nulla da temere in alcuna direzione essendo libero da ogni attaccamento.


Con questo è venuta la consapevolezza che la mente era liberata. Mi sono un po' sorpreso che la cosa non sia avvenuta nei termini felicemente drammatici di sei anni fa -e nemmeno nei termini di terrore [dovuto all'attaccamento] di alcuni anni fa. Semplicemente sono come scivolato dentro questo stato, mi sono solo reso conto di esservi dentro. Forse era il nirvana? In effetti, pur senza concettualizzare, ho avuto davvero la sensazione di entrare in un altro regno, in un'altra dimensione, quella della libertà. Mi sono reso conto che la mente era, come la volta precedente, attenta e consapevole senza sforzo, con i pensieri che entravano ed uscivano chiaramente.



Questo è continuato per due giorni: per inciso ho cominciato a rendermi conto che, alla mattina del terzo giorno, pur mantenendo una certa dose di consapevolezza, stavo scivolando via da questa "dimensione" (il termine è forse improprio e può creare attaccamento come a qualcosa di sostanziale).
La libertà è meravigliosa: guardando alla mia vita ed alle sottili paure che la costellano (paura dell'abbandono, di malattia, di sofferenza, di morte, dell'incertezza economica potenziale, dei problemi economici) oppure alle mie attività preferite (kungfu, studio del cinese o dello stesso buddhismo) ho visto che in quello stato non temevo nulla in alcuna direzione poiché non c'era nulla a cui fossi attaccato. Mi tornava anche in mente l'esperienza di "terrore" che ebbi a Cremolino: sulla soglia della libertà, osservando l'assoluta mancanza di significato, mi colse il terrore.

Fu un'esperienza importantissima che mi diede la spia dei miei attaccamenti: se vi è l'attaccamento la libertà genera spavento! In sostanza: oh, no, e i miei giocattoli?
In effetti fu un'esperienza preziosissima che mi spinse a riesaminare la mia vita e ad osservare quante intrusioni più o meno nascoste di attaccamento vi erano avvenute.

In giardino c'erano X e Y che parlavano. X, in maniera indiretta, mi ha rimproverato perché, secondo lui, non avevo fatto nulla per portare qui Dhammiko. Ma l'iniziativa era stata sua, non mi aveva chiesto nulla e in effetti ero stato lieto di non coinvolgermi. X ha fatto poi tutta una serie di esaltazioni del sangha, della necessità di un maestro che sappia di cosa parlare ecc. Sono stato zitto. Che dovevo dire? X non si rende conto che sviluppa una sorta di rimprovero: " Perché non sei così?" Questo si commenta da solo.
La verità, credo, è che bisogna lasciare andare tutto, fare la propria pratica e basta. Se il desiderio è che vengano più persone (c'era anche una lamentela in tal senso), ciò avverrà da sé, di conseguenza. Con ciò non voglio dire che non occorra fare niente.

Ma non occorre volerle "attirare". Andiamo per la nostra strada e se le condizioni matureranno le persone verranno. Non dobbiamo essere dei buddhisti, dobbiamo essere dei buddha. Tutto il resto è "non accettare quello che c'è e volere quello che non c'è".
Per quello che mi riguarda mi sono reso conto che mi ci sono voluti sei anni per abbandonare anche l'esperienza precedente. Mi ci vorrà altrettanto per questa? No, ora sono consapevole del desiderio sottile che le esperienze provocano: anche la liberazione va lasciata andare, non bisogna "sostanzializzarla" (per inciso una lettura non approfondita del canone Pali può portare a qualche sostanzializzazione: è solo dopo aver letto Nagarjuna che mi sono accorto del pericolo).
Perciò occorre lasciare andare questa esperienza e riprendere la pratica, senza attaccamento.


4 Dicembre 2001

Quello che è interessante, rispetto a sei anni fa, è che posso richiamare questo stato di libertà direi a piacimento: basta una leggera concentrazione o comunque portare la mente in consapevolezza e subito percepisco la libertà, l'assenza di ostruzioni, l'indifferenza al mio destino, come una sorta di capacità di fruire a piacimento di questo stato.




4 dicembre, ore 14,12 (al lavoro).

Un altro modo di verifica di questo stato è portare l'attenzione su un amico e pensare che abbia ottenuto la liberazione. Immagino varie persone in questa posizione e, mentre fino ad ieri anche il solo pensiero mi avrebbe, lo confesso, creato un po' d'invidia, mi rendo conto che ora la mia mente è, al proposito, perfettamente pacifica, equanime: c'è spazio per tutti nella libertà.


Anche la mia sorte mi è indifferente: l'idea di morire ora, per esempio, non mi fa né caldo né freddo; mi chiedo anzi come sarebbe morire in questo stato, senza attaccamento. E ammalarsi? E soffrire? C'è solo una lieve presa in considerazione delle sensazioni implicite e distacco.




5 dicembre 2001, ore 8,20

Ho fatto meditazione con attenzione al non desiderare di essere libero: perciò ho praticato metta, lo spazio infinito, la coscienza infinita. Andando a scuola ho osservato la mia mente in tutte le direzioni: il senso di essere libero dalla paura persiste. Mi è venuto un paragone: come se la mente fosse ricoperta da una sostanza che le impedisse di andare alle preoccupazioni, alle paure, alle minacce dell'esistere. Mi diverto ad immaginare le situazioni più tragiche: la morte, l'abbandono, bruciare vivo, la malattia peggiore. A queste ipotesi la mente risponde con assoluta, quieta equanimità:




Qui termina il mio diario. Tenerlo mi sembrava far parte di una pratica di attaccamento. Così l'ho abbandonato. Naturalmente, dopo l'ultima esperienza, sono tornato ad uno stato di normalità. Non mi chiedo più dove sono, in che punto del sentiero. Come ho detto più volte anche queste sono concettualizzazioni e bisogna andare oltre.

Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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