sabato 22 dicembre 2007

Intervista a Guy Bugault sul Buddismo

13/10/1990






Il Buddha nacque nel Nord dell'India, ai piedi dell'Himalaya, più precisamente in quello che si chiama il Terai, in un piccolo Stato repubblicano del Nepal, in prossimità della frontiera con l'attuale Repubblica Indiana, verso il 560 a.C. Il suo nome era Siddhartha, Gautama il patronimico. Tutte le fonti concordano press'a poco nel dire che Siddhartha visse 80 anni, e morì verso il 480 a.C.. All'età di 29 anni, dopo essersi sposato e dopo aver avuto un figlio, cosa molto importante in India, Siddhartha Gautama abbandonò nottetempo il palazzo paterno con il suo scudiero - dando vita a quella che la tradizione buddhista chiamerà "La grande partenza" - e si mise alla scuola di alcuni maestri di Yoga. Dopo aver passato qualche anno presso tali maestri, ottenne probabilmente dei "poteri". Tuttavia Siddhartha rimase deluso e decise di continuare la ricerca spirituale coi propri mezzi.
Si dice che verso l'età di 36 anni, cioè circa sette anni dopo avere abbandonato la famiglia e il mondo, dopo aver meditato tutta la notte sotto un albero, che fu chiamato poi "albero della bodhi", cioè del "risveglio", albero che si trova ancor oggi a Bodhgaya, nel momento in cui sorse l'aurora, Siddhartha si svegliò, si svegliò dal sogno della vita, dal sogno del mondo e comprese quella che si potrebbe chiamare la verità, benché il termine non sia pienamente adeguato. Da quel momento egli fu il Buddha, il Risvegliato.




Qual è, in sintesi, l'insegnamento del Buddha?


Ciò che ci permette di conoscere quello che ha insegnato il Risvegliato sono i sutra, i detti del Buddha, che sono stati trasmessi da una generazione all'altra, in seno alla comunità monastica. Dapprima sono stati fissati oralmente, in seguito, verso l'inizio della nostra, questi sutra e il Vinaya, cioè l'insieme delle regole monastiche, sono stati codificati per iscritto in pali, e si è venuto così a formare il Canone buddhista, cioè l'insieme dei detti del Buddha, dei suoi insegnamenti e delle regole. Ma il Canone è rimasto aperto fino a verso il IV d.C. In quei secoli si sono potute fare aggiunte agli insegnamenti dottrinali o alle regole monastiche, dettate a poco a poco dal Maestro, o dal Beato, come lo chiamavano i suoi discepoli.



Ma qual è il contenuto essenziale di questi sutra, o meglio dell'insegnamento del Buddha, che spesso veniva esposto in forma di risposte a domande formulate dai suoi discepoli o dagli uditori laici o monaci?



Tale insegnamento lo si trova condensato nel famoso "Sermone di Benares", un discorso pronunciato dal Buddha nel Parco delle gazzelle di Sarnath, nei pressi di Benares. Cinque brahmani, che avevano prima plaudito al Siddhartha asceta e poi se ne erano distaccati, gli si accostano di nuovo a causa dello straordinario irraggiamento conseguente al "Risveglio" dal sogno della vita. Davanti a questi cinque brahmani il Buddha pronuncia la sua prima predica, che per questo motivo è anche nota come la "messa in movimento della ruota della legge", o "Dharmacakrapravartana".
Tale sermone, nel quale vengono esposte le Quattro Nobili Verità, si sviluppa secondo uno schema medico che era in voga e in onore ai tempi del Buddha nel bacino del Medio Gange, zona dove andavano e venivano molti asceti medici. Ora, quando si va dal medico, questo fa una diagnosi, risale a una eziologia, formula una prognosi, e, in quarto luogo, assegna una cura. Secondo tale "schema medico" la diagnosi del Buddha è "sarvamduhkham", "tutto è malessere", "tutto è disagio". Si è tradotto talvolta tale affermazione con "tutto è dolore" o "sofferenza", ma personalmente ritengo tale traduzione eccessiva, in quanto il Buddha, in gioventù, aveva avuto una vita di piaceri e quindi sapeva perfettamente che la vita era un'alternanza di piaceri e di sofferenze. Egli dunque intende che tutto è malessere, sia in atto, ovvero quando si soffre effettivamente, sia in potenza, quando il piacere o la gioia di cui si gode è suscettibile di trasformarsi, più tardi, in pene e afflizioni. Semplificando si potrebbe dire che, per il Buddha, nella vita c'è sempre una piccola cosa che non va.. Si tratta dunque di una diagnosi solo relativamente pessimistica.
In secondo luogo il Buddha individua l'eziologia, e afferma che l'origine del malessere - o del dolore - è la sete, o "Duhkasamudaya trisna". Generalizzando si potrebbe parlare di desiderio piuttosto che di sete, ma personalmente preferisco conservare il termine concreto. La parola delicata è invece samudaya, che ho tradotto letteralmente con "origine". Ora con "origine" bisogna intendere il punto da cui si può veder sgorgare il dolore o il malessere. Non si tratta dunque necessariamente della causa, perché non c'è posto, nella dottrina buddhistica, per l'idea di una causa prima qualsiasi. La causa del malessere, che è senza principio, è nel malessere stesso, che sgorga in occasione del sentimento-sensazione della sete, o del desiderio.
In terzo luogo il Buddha fa una prognosi. Tanto la diagnosi del medico buddhista è fondamentalmente, benché relativamente, pessimistica, tanto la prognosi è essenzialmente ottimistica. Infatti il Buddha afferma che è possibile porre fine al dolore. Esiste infatti il nirodha, o il nirvana, cioè l'estinzione dell'io che ha sete, che soffre e che trasmigra. La radice verbale nirva vuol dire letteralmente estinguere, soffiare su una lampada, su una scottatura; il termine nirvana dunque significa estinzione dell'io che ha sete, che soffre e che trasmigra. Occorre riconoscere che quello che il Buddhismo propone è un rimedio eroico, poiché c'è motivo di pensare che il malato ne morirà, nel senso che non potrà conservare il suo "io" e affermare la propria individualità. Quindi la terapeutica buddhistica non è destinata a tutti, ma solo a quelli che hanno la vocazione eroica di sradicare l'io o di dissolverlo.
In quarto luogo il Buddha offre la ricetta o la prescrizione medica. Ci sono otto rimedi, che la tradizione ha raggruppato comodamente sotto tre titoli: shila, samadhi e prajna. Shila è l'ordinamento della condotta pratica, la moralità. Samadhi è l'apprendere a fissare il pensiero in modo tranquillo, l'apprendere a concentrarsi attraverso lo yoga. Per quanto riguarda la prajna, è difficile trovare un'espressione che la traduca bene; ve n'è, però, una eccellente in latino: "acies mentis", che si trova in Cicerone, nelle Tusculanae. Altrimenti è possibile anche una buona traduzione in inglese, attraverso il termine "insight". Tuttavia se dovessi tentare una traduzione direi che la prajna è la finezza, l'acuità dell'intelligenza.
Un fatto capitale, che generalmente gli europei non capiscono, è che ognuno di questi tre elementi non funziona mai separato dagli altri due. La conseguenza è questa: poiché la morale non funziona separata dallo yoga e dall'intelligenza, il Buddhismo non è un moralismo; poiché l'intelligenza non funziona separata dalla morale e dallo yoga, il Buddhismo non è un intellettualismo - cosa che lo distingue dalla filosofia, anche se esso contiene, a causa della prajna, una parte notevole di filosofia - e infine poiché lo yoga non funziona mai separato dalla morale e dall'esercizio dell'intelligenza, il Buddhismo non è uno yoga selvaggio, ma uno yoga addomesticato, subordinato a quell'esercizio di intelligenza che è la prajna.



Che cosa è il pratityasamutpada ?



La dottrina della "coproduzione condizionata", o, in sanscrito, pratityasamutpada è una dottrina profonda, o gambhira, termine per altro costantemente associato all'insegnamento del Buddha. Ora quando si va in profondità si finisce nel chiaroscuro, perciò non deve sorprendere se la spiegazione della dottrina della "coproduzione condizionata" abbia un sapore di enigma, tanto più, che tale dottrina si applica al descrivere ciò che precede la vita, ovvero all'esistenza intra-uterina.
Ma prima di presentare questa applicazione alla vita umana della coproduzione condizionata, vorrei ricordare il condensato di questa dottrina, che si trova nel Canone buddhistico, o più esattamente nel Majjhimanikaya dove si dice che se questo è, è anche quello; se questo appare, appare anche quello; se questo non è, neanche quello è; se questo cessa, cessa anche quello. In altri termini si tratta della prima esposizione dell'idea di legge o di funzione, nella letteratura filosofica dell'umanità. Naturalmente questa funzione o legge resta soltanto allo stato qualitativo, poiché a quell'epoca non era stata ancora quantificata. Tuttavia io ritengo che si tratti della prima enunciazione dell'idea di legge che non contenga l'idea di causa transitiva metafisica.
Ora, l'applicazione concreta alla vita umana della coproduzione si articola in una catena di dodici anelli. Il Buddha l'ha esposta la prima volta partendo dalla fine, dal dodicesimo anello, cioè dalla vecchiaia e dalla morte, risalendo anagogicamente fino al primo anello, che rappresenta una fondamentale e radicale ignoranza, un irrazionale che starebbe alla base della vita e forse anche del mondo. Ma poiché considero troppo ardua la spiegazione secondo il modo regressivo, o pratiloma, ritengo sia meglio esporre questa duodecupla concatenazione nel senso discendente.
Alla radice di tutto, nella vita umana, nella vita animale e nel mondo intero c'è un principio che il Buddha e molti altri in ambito indù chiamano avidya, ovvero "ignoranza", "nescienza", o ignoranza radicale. In termini moderni si potrebbe dire che l'avidya rappresenta quell'irrazionale alla radice di tutto, sia della vita che del mondo.
Il secondo anello della catena, destinato a spiegare la genesi dell'individualità psico-somatica, è rappresentato dai samskara, o "formazioni psichiche". In altre parole i samskara sono il residuo delle vite anteriori: non si tratta dunque di semplici latenze, ma piuttosto di latenze dinamiche, di tendenze. Pertanto, secondo il Buddha, su un fondo di ignoranza e di irrazionale si innestano delle forze motrici, degli schemi ideo-motori, che portano l'individuo a fare qualcosa.
Il terzo anello in questa genesi dell'individualità è il vijnana, o coscienza. Ma questo termine, che è facile fraintendere, designa al tempo stesso l'embrione nel grembo materno. A questo punto potrebbe sembrare strano che la stessa parola possa indicare una forma di coscienza o conoscenza e al tempo stesso la formazione dell'embrione nel grembo materno. Esiste tuttavia una parola che può chiarire il problema poiché ha la stessa ambivalenza: si tratta del termine "concezione". A tal proposito è importante notare che, in generale gli Indiani, e non soltanto i buddhisti, ritengono che la concezione abbia luogo con l'intervento di tre elementi: il padre, la madre e il resto sottile di una vita anteriore, che viene a bussare alla porta degli sposi e li sollecita con il piacere, li persuade a unirsi, per potersi reincarnare.
Quarto anello della catena è il namarupa. Rupa è ciò che designa il corpo, l'apparenza fisica che si mostra agli altri, ma anche il corpo proprio, e nama sono le funzioni mentali. Tali funzioni mentali, secondo la filosofia buddhista sono: vedana, la "sensibilità affettiva", che si traduce spesso in modo fuorviante con "sensazione"; samjna, o l'insieme delle nozioni, che si sono apprese a scuola, nella famiglia, per strada, in società, ma anche nei dizionari, nelle enciclopedie, e che servono nella vita; samskara, che sono le forze motrici che spingono ad agire; e infine vijnana, che tuttavia in tale contesto è da intendersi come coscienza segregatrice, discernente. Le funzioni mentali più il corpo sono i cinque elementi o skandha che compongono l'individualità psico-somatica. Le funzioni mentali, poi, sono considerate, per natura, inconsce, ed è solo perché la potenza della coscienza si sposta come un proiettore da un punto all'altro per illuminarli che questi quattro elementi diventano consci. Inoltre si fa tanta fatica a concentrarsi, proprio perché il carattere del vijnana è di essere come una scimmia che salta di ramo in ramo
Il quinto anello della catena è chiamato sadayatana, o le "sei sfere sensoriali", di cui cinque corrispondono ai cinque sensi che conosciamo e la sesta alla conoscenza mentale, manas o citta. Il sesto anello è il "contatto" o sparsha, e rappresenta appunto il mettersi in contatto dei cinque sensi, più il sesto che è il pensiero, l'organo mentale, con le sei sfere che vi corrispondono. Il settimo anello è rappresentato da vedana, ovvero la "sensazione" che sorge conseguentemente al contatto degli organi di senso con i rispettivi oggetti.
L'ottavo anello prende in sanscrito il nome di trisna, o "sete". Infatti, una volta che, dal contatto con l'ambiente circostante o anche con i propri pensieri, è sorta una sensazione piacevole o spiacevole, sorge la voglia, o "sete", di ricominciare. La caratteristica della sete o del desiderio, sia dopo che è stato soddisfatto, sia nel caso che resti insoddisfatto o frustrato, è di spingere verso un nuovo desiderio e così di seguito.
Dall'anello trisna si passa al nono anello della genesi dell'individualità psico-somatica, detto upadana, che rappresenta l' "appropriazione", il gesto del prendere qualcosa per sé e di possederlo. Ricorro volentieri all'esempio del croupier che con il suo rastrello raccoglie dal tavolo le puntate dei giocatori, ma anche a quello dei bambini quando giocano, che prima danno all'amico il proprio giocattolo, ma dopo cinque minuti se ne riappropriano brutalmente. Ciò equivale a quando si sta davanti a un bicchiere di vino e lo si trova buono, e viene voglia di bere tutta la caraffa e magari anche la botte. Pertanto ritengo che questo sia l'anello decisivo nella formazione dell'io, proprio perché è attraverso l'esercizio del "mio" che si forma e si organizza l'io, ed è proprio quando si dice: "E' mio", che si prende coscienza dell'io.
Decimo anello della catena è bhava. A questo punto il feto nel grembo materno è pronto a entrare in una nuova esistenza, nel "divenire" o bhava appunto. Personalmente ritengo sia importante insistere sul fatto che questa esistenza non è statica, ma è portata via dalla corrente della durata e del tempo, nell'impermanenza. Successivamente, quando le cose sono mature, tale esistenza esce dalla matrice, espulsa da vayu, dall'"aria compressa", - come i medici indiani chiamano l'espulsione del feto, - e ha luogo la "nascita", o jati, che rappresenta l'undicesimo anello.
Infine, col dodicesimo e ultimo elemento, l'intero percorso della vita finisce nel jaramarana, nella vecchiaia e nella morte. Si tratta del declino che tutti attende. Ma cosa c'è dopo? La risposta della tradizione buddhista è molto semplice: si ricomincia, con una rinascita assolutamente immediata, che in sanscrito prende il nome di pratisamdhi; in altre parole si è di nuovo afferrati da quell'irrazionale, da quelle ignoranze radicali, o samskara, ereditati dalla vita anteriore, e di nuovo si articola la duodecupla concatenazione, che in fondo, in noi occidentali potrebbe evocare, sia pure su un piano sentimentale, il mito di Sisifo.


Professor Bugault, che cos'è l'Abhidharma?



Nel corso delle stagioni delle piogge, i monaci buddhisti si davano alla discussione filosofica, dalla quale, secolo dopo secolo, ne risultò un rigoglioso sviluppo di scuole filosofiche, ognuna delle quali sviluppò un Abhidharma, ovvero un corpo di scritture che riprendeva in forma sistematica e dialettica il contenuto dogmatico degli insegnamenti del Buddha.
Ora, il Buddha aveva dettato sia il Vinaya, ovvero l'insieme delle regole monastiche, sia i sutra, o sutta in pali, o meglio i suoi insegnamenti, in "situazione" e occasionalmente, e non ex cathedra, o scrivendo dei libri. Prima di impartire un insegnamento, infatti, ogni sutta comincia con una formula stereotipa nella quale chi narra dice: ecco quello che ho sentito dire in quella circostanza, in quel luogo, in quel tempo, da quell'interlocutore. Anche in questo caso, come nelle Quattro Nobili Verità, si ritrova l'aspetto terapeutico della parola del Buddha, che non dice a tutti la stessa cosa. Ritengo infatti che l'adattarsi alle situazioni e agli uditori piuttosto che somministrare un insegnamento meccanico e uniforme abbia un grande valore dal punto di vista soteriologico e pratico.
Ma la comunità monastica, col passare dei secoli, provò il bisogno di schedare analiticamente gli insegnamenti del Buddha, punto per punto, e di farne un catalogo, ricapitolando le risposte sparse nei sutta sui diversi temi, quali per esempio l'io, la causalità, l'eternità o l'impermanenza. In tal modo si venne a formare l'Abhidharma, la cui stesura, tuttavia, non fu così semplice: la difficoltà infatti fu quella di fissare in entità scolastiche, in Esseri di ragione e di scuola gli insegnamenti in origine molto concreti e molto sfumati del Maestro.
Ma cosa vuol dire Abhidharma? Ora, il Maestro aveva insegnato il Dharma, che vuol dire la "legge", la legge del mondo, la legge della vita, la legge naturale cui bisognava conformarsi. Il Dharma di Buddha rappresenta quindi "la vera natura delle cose", e al tempo stesso l'imperativo, la legge prescrittiva, alla quale i buddhisti devono conformarsi. Il prefisso abhi invece in sanscrito vuol dire "super" o "iper". L'Abhidharma dunque è il "supertrattato della legge" che i monaci vennero formando per i summenzionati motivi.




Che cosa è il Madhyamaka?



Visti gli inconvenienti della scolastica dell'Abhidharma, verso il II-III secolo d.C. sorse la Scuola del Cammino di mezzo, o Madhyamaka, che si presentò come l'antidoto della scolastica. Il suo fondatore fu il celebre monaco buddhista Nagarjuna. Egli scrisse molte opere, tra le quali le Madhyamakakarika, le Stanze del cammino di mezzo, e la Vigrahavyavartani, che era sostanzialmente una replica alle obiezioni mosse alla sua opera.
Nei ventisette capitoli della sua opera principale, le Stanze del cammino di mezzo, Nagarjuna fa subire un esame critico, una pariksha, a tutti gli argomenti topici della comunità buddhistica, di cui certi sono attuali ancora oggi. Egli mostra, per esempio, come la causalità, la nozione di causalità transitiva, sia di natura contraddittoria e inconsistente. Nel II capitolo, poi, Nagarjuna attacca la nozione di movimento, in altri capitoli rifiuta l'idea di eternità, in altri ancora mette in questione la nozione stessa di karma. Nel XXIV capitolo mette poi in questione il "Sermone di Benares" e nel XXII capitolo mette in questione il personaggio stesso del Buddha, sotto il nome di Tathagata e infine dedica un capitolo molto importante, il XXV, all'idea stessa di estinzione, l'idea di nirvana, che, nella forma scolastica sotto cui se la rappresentavano sia i suoi correligionari, sia i suoi avversari, risulta ai suoi occhi falsa.
La sua dialettica si esercita intorno a tre principi: quello del nayujate, o della non coerenza logica, con cui porta i suoi avversari a una autocritica formale; quello del napapadyate, attraverso il quale mostra che ciò che dicono i suoi avversari è contraddetto dall'esame critico dei fatti; e infine quello del navidyate, che ritorna più spesso e che consiste nella dimostrazione dell'inutilità di una ricerca di un referente da parte dei suoi avversari. Nagarjuna infatti dice loro che i soggetti di cui trattano non si trovano nell'esperienza, o, nei termini della filosofia analitica, non hanno referente, e dunque sarebbe meglio per loro tacere.
Il grande rimprovero che mossero a Nagarjuna i suoi avversari fu quello di demolire tutto, e dunque di non lasciare nulla della comunità e di non acquisire meriti con tale severa disciplina. In breve il buon senso dei monaci si sentì minacciato e Nagarjuna, in ognuno dei 27 capitoli della sua opera principale, dopo aver dato la parola alla tesi scolastiche, si mise a confutarle dialetticamente. Prima sulla difensiva, affermando di non essere un asika, un "negatore" o un "miscredente", ma di essere piuttosto un autentico monaco buddhista, fedele al Canone e agli insegnamenti del Buddha. Successivamente passando all'offensiva, affermando non soltanto di non distruggere tutto e di non fare il vuoto, ma che addirittura erano i suoi avversari che, riempiendo il loro spirito di entità inesistenti, non potevano rendere conto né della vita di tutti i giorni né del cammino che porta al nirvana.
In particolare, nel capitolo XXIV dove si svolge il dialogo decisivo tra gli abhidharmika, i seguaci dell'Abhidharma, e Nagarjuna, questi afferma che sebbene sia stato accusato di essere nihilista, di essere un asika, egli non lo è affatto. Ma che piuttosto sono gli abhidharmika a non capire nulla della vacuità, della shunyata. Infatti ciò che egli intende sotto il nome di vacuità, non è nient'altro che la coproduzione condizionata. Dunque il parlare di vacuità e di vuoto è soltanto una metafora, un modo per parlare del cammino di mezzo, la celebre Madhyamapratipad, che resta attraverso il tempo e lo spazio e tutte le variazioni del Buddhismo.
Il Buddhismo, infatti, è sempre un cammino di mezzo. In particolare è una via di mezzo tra il dire astiti "c'è l'essere" e il dire nastiti "non c'è l'essere". Questo è espresso in un sutta assai celebre attribuito al Buddha, il Kathyayanasutra, molte volte ripreso nel Mahayana, nel quale si afferma che dire "c'è", è un estremo, quello dei brahmani e dei metafisici; dire "non c'è", o "non c'è niente", è un altro estremo, quello dei nihilisti, dei miscredenti, dei materialisti. L'obiettivo invece è quello di passare tra i due estremi: il nihilismo e il materialismo da una parte, l'ontologia e la metafisica dall'altra.




Qual è la tecnica dialettica fondamentale di Nagarjuna?




Nagarjuna, nel confutare i suoi correligionari e i suoi avversari, utilizza la pratica dialettica del prasanga pratiseda, cioè la confutazione senza contropartita positiva. Ciò che sorprende di tale procedere dialettico è che Nagarjuna non si sente obbligato, per il fatto di aver confutato una proposizione, di accettare la sua contraddittoria. In altri termini fa funzionare in maniera rigorosa e implacabile per sé e per gli altri il principio aristotelico di non contraddizione. Ma per quanto riguarda il corollario che Aristotele deduce dal principio di non contraddizione, ovvero il principio logico del terzo escluso, occorre fare una distinzione. Tale principio comporta infatti una limitazioni: se due giudizi sono contraddittori, uno deve essere vero, per cui non vi è via di mezzo, non vi è una terza possibilità che appunto resta esclusa. Ora Nagarjuna è completamente d'accordo nel dire che non ci può essere una terza soluzione, ma non accetta la limitazione che di due proposizioni contraddittorie se ne debba accettare almeno una. Su questo punto Nagarjuna scivola via come un serpente affermando che se entrambe le proposizioni non hanno senso, se sono semanticamente malformate, se sono irrelevanti o prive di senso, non si è obbligati ad adottarle.
Esiste tuttavia un'altra scuola buddhista che pratica, a differenza di Nagarjuna, il paryudasa pariseda, ovvero la confutazione accompagnata da una contropartita positiva. Principale esponente di tale scuola, detta Sautrantika-Svatantrika, è Bhavaviveka. Egli pensa che anche un madhyamika, anche un discepolo del Buddha, possa prendere la parola di sua iniziativa e dimostrare con un ragionamento affine al sillogismo la verità di ciò che va affermando, senza bisogno di confutare nulla. Personalmente ritengo tale modo di procedere sia molto più accettabile per uno spirito europeo, ma meno fedele all'ortodossia del Buddhismo, e in particolare del Madhyamaka.
Credo che nel Brahmanesimo il silenzio del prete, detto brahmano, emerga su uno sfondo di gesti e di parole, mentre nel Buddhismo è la parola che emerge su uno sfondo di silenzio e per comprenderla non c'è niente di meglio da fare che tacere e contemplare l'iconografia buddhistica, che ha l'ultima parola, poiché, come affermò Candrakirti, il modo d'essere supremo è il silenzio dei santi.




Che cosa è il Vijnanavada?



Una soluzione al presunto rigido negativismo di Nagarjuna tentò di darla la scuola logico-epistemologica del Vijnanavada. L'iniziatore di questa scuola fu, secondo la tradizione, Asanga, nato nel IV secolo d.C. nella città di Purusapuran nel Nord dell'India. Ora, Vijnanavada vuol dire scuola della coscienza o della conoscenza pura; non è un caso dunque che tale scuola fosse chiamata anche Cittamatra, che vuol dire il pensiero o la "mente" e null'altro, o anche Vijnaptimatra, che vuol dire la "comunicazione" o l' "informazione" e null'altro. Tale scuola infatti è fondamentalmente idealistica, perché vi si sostiene che, in definitiva, non c'è che il pensiero, o meglio che è il pensiero che governa tutto.
Per quanto possa sembrare strano, il Vijnanavada ha il suo fondamento scritturale nel Canone buddhistico, o almeno in due sutta canonici, in cui si dice appunto, che è il pensiero che governa tutto e che quando il pensiero è impuro l'uomo è impuro, e che quando il pensiero viene purificato anche l'uomo è purificato. Tuttavia tali sutta sono dei testi minori. Come è possibile dunque che un'intera scuola idealistica si fondi essenzialmente su di essi? Qual è in verità la sua origine più profonda? La vera origine è rappresentata da una spina nella carne dottrinale del Buddhismo. Poiché il Buddha non affermò mai l'esistenza dell'io, ma anzi lo scompose in cinque fattori di aggregazione, e tuttavia sostenne la dottrina della reincarnazione, nello spirito dei monaci sorse inevitabilmente il quesito di chi trasmigrasse dopo la morte. E allora gli idealisti immaginarono una coscienza-magazzino o alayavijnana, immaginarono cioè una coscienza del profondo, un inconscio dinamico.
Supponendo l'esistenza di un fiume mentale sotterraneo, che passava da un'esistenza all'altra, in primo luogo si arrivò a spiegare la continuità da una vita all'altra, e in secondo luogo si evitò di cadere nella teoria brahmanica, ontologica e metafisica, dell'esistenza di un atman immobile e immutabile. Ecco perché si arrivò alla scoperta della nozione di alayavijnana e all'affermazione che in ultima istanza c'era solo coscienza, sia oscura sia lucida.
L'idealismo di questa scuola tuttavia è diverso da quello europeo, in quanto va fino in fondo alle conseguenze che trae, conseguenze del tutto impreviste per degli occidentali. A tal proposito vale la pena citare Asanga il quale affermò che ciò che è altro dal pensiero, non è, e che l'altro dal pensiero è il conoscibile, letteralmente il "prendibile", grahya. Se dunque il conoscibile non è, per ciò stesso il conoscente, colui che prende, grahaka, anche lui è nulla. Dunque, alla fine, questo idealismo conseguente e dialettico, sbocca nella vacuità, nella shunyata, e pertanto, malgrado le apparenze, rappresenta un prolungamento del Madhyamaka e del Canone buddhistico.



Quale è stata la ricezione del Buddhismo in Europa nel XIX secolo e nella prima metà del XX?



Per rispondere a questa domanda vorrei riportare rapidamente le idee di alcuni autori poco ricordati ai giorni nostri, ma che hanno avuto una popolarità immensa. Nel 1860 Jules Barthélemy Saint-Hilaire, spiritualista e discepolo di Victor Cousin, in un libro che ha fatto scalpore, Le Bouddha et sa religion, scrive che ci si potrebbe chiedere se l'intelligenza di quei popoli è fatta come la nostra e se in quei climi in cui si ha la vita in orrore e in cui si adora il nulla al posto di Dio, la natura umana è la stessa che sentiamo in noi. Persone come Victor Cousin, professore al Collège de France, che avevano grande successo tra i giovani, hanno avuto opinioni più sfumate, più varie. All'inizio Victor Cousin pensava che il Buddhismo fosse qualcosa di valido, ma poi si allineò con una opinione prossima a quella di Barthélemy Saint-Hilaire e cioè che il Buddhismo fosse una dottrina, un culto del nulla.
Quinet intende il Buddha nel libro Le génie des religions del 1842, come il grande Cristo del vuoto. Renan nel 1851 parla del Buddha come del fondatore della Chiesa del nihilismo. E perfino un grande come Hegel, a partire da una documentazione, evidentemente embrionale, nelle Lezioni sulla filosofia della storia parla dell'elevazione negativa propria del Buddhismo, per il quale, secondo lui, il nulla è il principio di ogni cosa, da cui tutto proviene e in cui tutto ritorna.
Anche Nietzsche si è interessato del Buddhismo sostenendo un atteggiamento a due versanti. Da un lato, infatti, afferma che il fenomenismo stretto del Buddhismo, ovvero l'impermanenza e l'insostanzialità, lo ha liberato dal platonismo che esecrava, aggiundo che «il Buddhismo è l'unica religione veramente positivistica che ci mostri la storia». (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1982, p.47), che il Buddha è un «profondo fisiologo», e la sua igiene è fondata sulla constatazione che il risentimento «che nasce dalla debolezza, non è dannoso a nessuno quanto al debole stesso» (F. Nietzsche, Ecce Homo, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1965/81 p.27), che «il Buddhismo è cento volte più realista del Cristianesimo» (F. Nietzsche, L'anticristo, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1982, p.47) e che l'Occidente cristiano avrebbe forse bisogno di un neo-buddhismo.
Ma dall'altro lato Nietzsche vede nel Buddhismo una astenia della volontà. Nell'ultima pagina della Genealogia della morale, infatti, egli dichiara, a proposito del ascetismo, che «l'uomo preferisce ancora volere il nulla, piuttosto che non volere...» (F. Nietzsche, Genealogia della morale, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Adelphi, 1968/84, p.157). E analogamente spiega il misticismo come un sadismo rivolto contro se stesso. Di conseguenza afferma che la volontà del nulla ha la meglio sulla volontà di vita, e che vede approssimarsi il tempo del nihilismo e che soltanto la tragedia ci potrà salvare dal Buddismo. Ed è perciò che in definitiva Nietzsche si oppone al Buddhismo, che aveva conosciuto attraverso il suo amico Deussen, il quale, d'altronde, detestava il Buddhismo al quale preferiva il Brahmanesimo.
Nel XIX secolo, dunque, il Buddhismo, in generale è visto come una dottrina e un culto del nulla, salvo rare eccezioni, come quella rappresentata da Burnouf, con la sua Introduction à l'histoire du Buddhisme indien del 1844, e per certi aspetti da Schopenhauer. Ma anche Burnouf in definitiva, benché sia molto al di sopra dei suoi contemporanei, pensa che la volontà del nulla nel Buddhismo sia predominante. Schopenhauer forse è più lucido. Egli infatti non pensa che il Buddhismo sia un nihilismo, ma piuttosto che sia una dottrina fondamentalmente pessimistica.
Agli inizi del XX secolo vi è però un grande studioso, Louis de La Vallée Poussin decisamente in anticipo sulla maggior parte dei suoi contemporanei. Egli ha curato un'edizione critica delle Stanze del cammino di mezzo di Nagarjuna, con il commento di Candrakirti, assai dotta, sulla base di tre manoscritti. Tuttavia anche Louis de La Vallée Poussin, che è tutto, tranne che desueto, tanto è vero che ancora oggi viene salutato come un maestro da scienziati di livello internazionale, quando si interessa ai buddhisti più radicali, quali Nagarjuna, afferma che questi non era certo un nihilista, ma era un sofista, anche se un sofista così "virtuoso", così brillante, che non gliene si può volere. E aggiunge che forse di Nagarjuna, che si prende gioco di noi senza dircelo, bisognerebbe cogliere tra le righe il sorriso.





Qual è la situazione attuale del Buddhismo sia in Oriente che in Occidente?



Attualmente il Buddhismo sopravvive in India, nel Bengala, con tanti piccoli focolai, che non si sono mai spenti. Questo perché uno dei fondatori della costituzione indiana, Ambedkar, che era il leader degli intoccabili, si convertì al Buddhismo, pensando che questo fosse il modo migliore per uscire dal sistema delle caste. Egli dunque si trasferì a Bombay, dove, con un gran numero di discepoli, che erano, come lui, degli intoccabili, fondò un gruppo buddhista indiano. Sfortunatamente morì pochi mesi dopo, sicché il Buddhismo è sopravvissuto in India soltanto all'interno di cerchie assai ristrette.
Nell'Asia settentrionale il Buddhismo ha una presenza pregnante in Tibet, Cina, Mongolia, Corea e Giappone. Inoltre è presente anche in quasi tutti i paesi del Sud-Est asiatico, quali lo Sri-Lanka, la Birmania, il Laos, la Thailandia e il Vietnam. Perciò la comunità buddhistica, in senso largo, è ancora pienamente viva ai giorni nostri.
La domanda che possiamo porci è: qual è l'avvenire del Buddhismo europeo o americano? L'illustre Professore Edward Conze, buddhista praticante, si è posto la domanda circa venti anni fa, e ha risposto che il Buddhismo in Europa avrebbe sicuramente avuto uno sviluppo. Quanto a me, ritengo che il Buddhismo potrà acclimatarsi in America o in Europa, sotto forma di piccoli gruppi, che potranno diventare molto influenti, ma che non saranno mai numerosi. Il Buddhismo non può adattarsi alle masse europee o americane perché gli occidentali hanno un senso violento e pregnante dell'io. E in definitiva, nella vita quotidiana, che cosa implica dire "io" o "me"? Personalmente ritengo possa implicare due cose: il concepirsi e il sentirsi come l'autore e l'attore dei propri atti, o il sentirsi anche come il consumatore e il fruitore del proprio godere, nella buona e nell'avversa sorte. Ora, a livello dell'esperienza quotidiana, un occidentale non si potrà mai disfare dell'idea di un io sostanziale, unico e soprattutto semplice, perché si concepisce e vive, come autore dei suoi atti, responsabile dei suoi atti, nel bene e nel male, come il degustatore e il consumatore di ciò che gli accade di piacevole o di spiacevole nella vita.
Abstract:
Guy Bugault ricorda innanzitutto alcuni dati della vita di Siddhartha Gautama Bodhisattva e spiega il significato del soprannome Buddha, il risvegliato (1). I sermoni del Buddha sono stati tramandati nei "sutra" e poi redatti nel Canone; Bugault delinea quindi a grandi linee l'insegnamento del Buddha, mostrando come il buddhismo non sia né un moralismo, né una pratica, né un intellettualismo (2). Bugault illustra quindi le tappe della nostra vita anteriore ed intrauterina presentandola come una prima formulazione del concetto di legge o di funzione senza causa e descrive i dodici anelli dell'individualità psicosomatica (3). Bugault presenta poi le principali scuole buddhiste sottolineando come gli insegnamenti del Buddha fossero sempre calati nella situazione e solo in seguito fossero stati sistematizzati dai monaci: l'Abhidharma è il trattato della legge (4), la "Madhyamaka" fu fondata invece dal celebre Nagarjuna, di cui si ricordano le Stanze del cammino di mezzo contenenti una critica alla causalità, al movimento, allo stesso Buddha e al nirvana, in argomentazioni assai articolate a proposito del materialismo e del nichilismo (5). Bugault rimanda alla tecnica argomentativa di Nagarjuna nel tetralemma, alla teoria della confutazione anche rispetto al principio di non contraddizione e del terzo escluso e ricorda infine il significato del silenzio per il buddhismo (6).
Tratta poi della scuola logico-epistemologica del "Vijnanavada" e del suo fondatore, Asanga, ricordandone l'impostazione idealistica, la teoria del pensiero, della coscienza e dell'inconscio (7).
Bugault presenta quindi l'interpretazione del buddhismo nel XIX e XX secolo con particolare riguardo a Barthélemy Saint-Hilaire, Cousin, Quinet, Renan, Hegel e Nietzsche, che vi videro una sorta di nichilismo, mentre Burnouf e Schopenhauer lo interpretarono come una dottrina pessimistica (8).
Conclude ricordando che il buddhismo sopravvive in India in cerchie ristrette, mentre è più presente negli altri paesi asiatici, soprattutto in Giappone e nel Sud-Est asiatico; per quanto riguarda la sua possibile espansione in Europa o in America, Bugault ritiene che interesserà soltanto piccoli gruppi a causa della diversa concezione della soggettività e dell'io (9).

Napoli, Istituto Italiano studi filosofici, Palazzo Serra di Cassano, 13 ottobre 1990

mercoledì 19 dicembre 2007

La barca vuota

“Immaginate una barca carica che, mentre attraversa un fiume, venga urtata da un’altra barca vuota alla deriva; i marinai, anche se fossero gente irascibile, non andrebbero in collera. Ma se nella barca c’è un uomo, grideranno perché si allontani. Se non dà loro ascolto, grideranno una seconda volta; se continua a non ascoltarli, inveiranno con ingiurie. In breve, la barca non eccita la collera se è vuota; la provoca solo quando è occupata. Così, chi potrà nuocere a colui che avrà saputo vuotarsi del proprio io?



Questo brano proviene dal capitolo Shanmu del Zhuangzi (Chuang-tzu), un filosofo daoista che pur non essendo così sistematico come un filosofo buddhista, dice comunque molte cose interessanti; possiamo dire anzi che quest’opera (Zhuangzi ) ha compartecipato, insieme al Buddhismo indiano, alla fondazione del Buddhismo Chan o Zen. Benché Zhuangzi non sia così sistematico come, ad es. un filosofo buddhista, la sua lettura, molto annedotica e divertente, può essere di ispirazione e di rilassante conferma per la pratica del meditante. Una sua ottima traduzione si trova nella collezione Adelphi. Vissuto in Cina in un’epoca per molti aspetti ancora molto primitiva (intorno al 350 a.C., un po’ più di 100 anni dopo il Buddha) egli ha contribuito in maniera notevole alla critica e alla de-costruzione del concetto del sé.
Il discorso della barca, qui sopra, è connesso con il concetto di vacuità. Se le cose sono prive di un sé intrinseco, a che vale arrabbiarsi con loro? Dovremmo vedere tutto come una barca vuota. Essa potrà farci anche più danni di una barca piena di persone ma non ci verrà fatto di creare avversione nei suoi confronti. Vivremo quell’esperienza come un semplice fatto, un fatto avvenuto, un fatto impersonale. Perciò la risoluzione di ogni problema sarebbe cogliere l’impersonalità dei fatti. Questa è l'EQUANIMITA’.

Stamattina, all’inizio della meditazione, riflettevo su un mio amico d’infanzia. L’ho incontrato al bar e ho sentito che parlava di prostatite. Siccome questa è una malattia che tocca la stragrande maggioranza degli uomini, me compreso, sono intervenuto nel discorso chiedendo informazioni sulla sua salute. E’ venuto fuori che dovrà fare una biopsia attraverso un procedimento, credo, anche un po’ doloroso. Siccome è stato un compagno di infanzia e anche se le nostre vite si sono molto allontanate e quasi, direi, essendo l’una il rovescio dell’altra, ho provato dispiacere e affetto per lui. Pensando a lui, mi sono identificato con lui, con il timore che deve provare verso l’ignoto, verso l’avvenire. Benché cercasse di mascherarla, ho colto la paura nel suo discorso apparentemente spavaldo.

Mentre, come dicevo, all’inizio della meditazione pensavo a lui, mi è venuta in mente un’altra persona con lo stesso problema, venuta qualche volta a meditare. Anche questa persona angosciata, uno sguardo come di animale braccato. Anche con lui c’è identificazione, c’è com-passione. E di seguito mi sono venute in mente altre persone, con problemi di salute di altro tipo o, semplicemente, morte, talvolta molto giovani. Per tutte queste persone, oltre alla com-passione, ho sviluppato dentro di me, la irradiazione di equanimità. L’accettazione cioè che ognuno è erede delle proprie azioni. E’ quello che in oriente viene chiamato karma.

Benché a volte le connessioni possano non sembrare così chiare, mi appare ovvio come anche la malattia sia spesso, se non sempre, legata alle nostre azioni, alle nostre predisposizioni mentali, alle scelte che facciamo. In questo si può dire che ciascuno è erede delle proprie azioni o meglio delle proprie disposizioni mentali. Viviamo in un mondo intriso di mente o mentazione e non c’è da sorprenderci che quello che ci accade sia determinato dalla mente. Perciò, tornando all’irradiazione di equanimità, occorre sviluppare questa irradiazione neutra che ha per base l’empatia e la compassione ma che è pura e semplice accettazione. Accettiamo il destino degli esseri, incluso il nostro. E’ come il caso di una barca vuota.

Così ho cominciato a focalizzarmi su questa energia o irradiazione dell’equanimità. Qui ci si può focalizzare in due modi. Il primo è pensare a noi come una divinità che irradia accettazione verso il destino degli esseri. Il secondo, secondo me superiore e tipico non di una semplice divinità ma di un Buddha impersonale (un Buddha è limpersonalità assoluta!) è quello di pensare e vivere l’irradiazione senza però un centro. E’ superato anche il concetto di divinità.

Questa irradiazione sarà allora una pervasione di tutto l’universo non da parte di ‘qualcuno’(una visione irrimediabilmente dualista) ma semplicemente da parte di una forza senza centro in cui si trovano anche le nostre componenti psico-fisiche. Ho fatto questo inglobando nell’irradiazione (o meglio nella pervasione universale senza centro) tutti gli esseri. Poi ho eliminato il concetto di esseri e ho lasciato solo l’irradiazione o pervasione, nella spaziosità creatasi (lo spazio è infinito; la mente è infinita; nulla esiste - dicevano, in quest’ordine, gli antichi meditatori) .



E questo è tutto!

Un Maestro interessante: Huangbo

Riguardo alla pratica meditativa ho fatto altre volte l’esempio di uno che sta immerso in un lago e grida: “Ho sete! Datemi da bere”.

Con questo voglio dire e più volte ho ripetuto che è già tutto qui quello che ci serve, siamo già immersi nella realtà ultima, è inutile che andiamo a cercarla chissà dove. Un mio amico, Iano, mi ha scritto di recente un commento fatto di domande rispetto all’ultimo numero della newsletter. Potete trovare il testo della news intervallato dalle sue domande critiche sul forum di questo sito.

In particolare c’era una sua domanda a cui è stata data una certa risposta che forse qualcuno troverà inconsueta.

IANO: " Ma la domanda che mi viene di farti è, come sono le cose e che cosa sono le cose?
Cosa vuol dire trascendere le cose?"

Loriano: "Poiché mi sembra di ricordare che sei credente, proverò a risponderti con termini evangelici. Trascendere le cose vuol dire trovare qui in terra il regno dei Cieli. Non quindi in un'altra dimensione ma esattamente qui.
In quanto alle "cose" non posso risponderti in termini evangelici ma ti dirò che pur usando questo termine lo riconosco come improprio.

Non ci sono cose. Ci sono fenomeni, tutti passeggeri anche se hanno continuità nel loro divenire. Tutti questi fenomeni dipendono da altri fenomeni e così via. Questa è la vacuità, la mancanza di una sostanza stabile inerente alle "cose" .

Ritorno a "trovare qui in terra il regno dei cieli" . Accettare la transitorietà di tutte le cose è pacificarsi con il reale così com'è, giusto tale e quale. Questo è trovare il regno dei Cieli. Ma ragionare così significa far cessare ogni dualismo. Né bene né male, né bello né brutto, né positivo né negativo. In termini convenzionali, dualistici, noi tutti usiamo questa terminologia. Riconciliarsi con il mondo ed accettarlo com'è significa invece non riconoscerla [la terminologia] che in termini provvisori. Il regno dei Cieli non ha nè bene nè male.”

Ecco, questo è un esempio di quello che volevo dire all’inizio con la parabola dell’assetato. E questo risponde in parte anche ad un’altra questione, non posta da Iano ma che comunque appare qua e là nei discorsi della gente, cioè la validità di una esperienza di un praticante.

Praticando la meditazione si hanno talvolta esperienze di vario tipo, inclusi fenomeni di “risveglio temporaneo” . Non è una novità. Nel Canone Pali si parla di saamaykaa cetovimutti cioè “temporanea liberazione della mente” e si riporta il caso di Godikha che per sei volte raggiunse questa liberazione per poi decaderne; alla settima volta, mentre si trovava nello stato di liberato, pose fine alla propria vita evitando così di ricadere fuori dalla Liberazione.

Ora credo che nessuno di noi voglia giungere a questo estremo. Ma ho raccontato questo episodio per fare capire che questi stati non sono infrequenti per chi medita. Mentre la tradizione Theravada è piuttosto avara nel raccontarli, essi sono frequenti nella letteratura Chan/Zen. Il problema di queste esperienze è di non reificarle, di non farne un feticcio ma di lasciarle andare, per importanti che ci sembrino.

Il mio orientamento iniziale quando ho cominciato a meditare era strettamente (direi quasi: settariamente) Theravada che è, in effetti, la più antica fra le tradizioni attualmente presenti ma, con l’andare del tempo e dopo certe esperienze, mi sono aperto anche verso altre correnti di pensiero; così la tradizione Madhyamika di Nagarjuna e la tradizione del Chan o Zen (Chan è la forma originaria cinese, Zen quella giapponese: entrambe le forme derivano da Dhyana/Jhana, “meditazione profonda” ) .

Ci sono nello Zen alcune impostazioni teoriche con cui non concordo (ad es. una certa sostanzializzazione della Mente che sembra appunto creare una sostanza là dove non ne appare il bisogno) ma l’impostazione meditativa è molto simile, per certi versi, a quella più antica, ad es. ha somiglianze con quella delle tre Porte della Liberazione e cioè la vacuità, il non-segno e la non-direzionalità.

E’ una bella liberazione non essere strettamente legato ad una tradizione. Puoi indagare, puoi cercare, non hai i limiti che una tradizione sempre pone. Si dice che il Dharma sia come un diamante con 84000 sfaccettature. Ognuno può guardare dalla sfaccettatura che preferisce, arriverà sempre verso il centro.

Un maestro antico che trovo molto interessante è il maestro Chan Huangbo (vissuto intorno all’850 d.C. e rappresentante della tradizione Chan di Hongzhou). Questo maestro avrebbe sconcertato più di un ‘credente’ buddhista. E’ mia intenzione pubblicare un articolo su di lui su “Emptiness” ma nel frattempo voglio citare qualche suo passaggio. Da una parte egli sostanzializza un po’ troppo, a mio parere, il concetto di “Mente” , facendone in qualche modo un’entità sostanziale ma per quanto riguarda l’aspetto meditativo mi sembra un maestro eccellente che ruppe con un assetto tradizionale avendo il coraggio di portare avanti idee nuove, rivoluzionarie.

Secondo Huangbo poiché noi risiediamo già nella realtà ultima (egli la chiama la Via, il Dao) , “non c’è niente che dobbiamo fare” : L’illuminazione è perciò semplicemente il risvegliarsi a questo fatto. “ Risvegliandovi improvvisamente voi arrivate a capire che la vostra mente è il Buddha, che non c’è niente da essere raggiunto né alcun atto da compiere. Questa è la vera via, la via del Buddha” .

Egli quindi svolge una critica verso la pratica concepita come una serie di stadi da raggiungere. Potremmo dire che ha una visione olistica ed immanente della illuminazione (un po’ come lo stesso Dogen, secoli dopo) . “Il Buddha reale – egli asserisce- non è un Buddha a tappe” . Se la propria mente è già nella realtà ultima allora le pratiche religiose ordinarie che presuppongono una separazione dualistica fra se stesso e lo scopo della pratica, di fatto ostacoleranno il risveglio. Perciò Huangbo chiede che si silenzino tutti i pensieri che creano una separazione fra la mente e la realtà. “ La (vera) mente non è una mente di pensiero concettuale... Se eliminate il pensiero concettuale ogni cosa sarà realizzata” .

Huangbo portò l’idea di non-attaccamento alle sue più logiche conseguenze. Come scrive Dale S. Wright, cercare il Nirvana era considerato la via alla salvazione. Di fatto questo nel tempo aveva portato a creare una “cosa” del Nirvana stesso (ad es. nell’Abhidharma) finché qualcuno (Nagarjuna fra i primi) cominciò a rendersi conto che questa stessa ricerca correva sul sentiero del desiderio di un oggetto che tale non era (il Nirvana) .

Perciò secondo Huangbo la liberazione è il risveglio dal desiderio di cercare di essere risvegliato (al proposito si leggano “L’altro lato della collina” ed anche “Esperienze 3” sul sito Emptiness... – per inciso “Esperienze 2 “ verrà pubblicato quando possibile) .

L’alternativa al “cercare” è vivere spontaneamente senza attaccamento.

giovedì 13 dicembre 2007

Visualizzati come una divinità

Ho visto spesso, durante i ritiri di meditazione, facce cupe ed espressioni serie, l'espressione di chi si "sforza". Mentre occorre un giusto sforzo, questo sforzarsi eccessivo è proprio il contrario del "lasciare andare".Proprio perché il "Lasciare andare" è così importante nella pratica, l'atteggiamento che più gli è corrispondente è quello del rilassamento vigile. Faccio spesso l'esempio del cacciatore. Durante la pratica dell'attenzione bisognerebbe essere come il cacciatore appostato in attesa che compaiano gli uccelli. E' vigile ma non è teso e poiché fa una cosa che gli piace, è attento ma rilassato (purtoppo per le prede) e perfino gioioso. Ecco, questo è esattamente lo spirito con cui si dovrebbe affrontare la pratica. Attenzione vigile-rilassamento gioioso: ancora una volta unificazione degli opposti.


Sempre in quest'ottica, cioè quella del rilasciamento vigile e del lasciare andare, sarebbe opportuno adottare un atteggiamento di "pratica dell'obiettivo". L'obiettivo di chi pratica è quello della realizzazione, della Liberazione. Ora, anche questo obiettivo è contraddittorio: perché si può realizzare questo obiettivo solo lasciando andare anche questo stesso scopo. Se realizzazione e liberazione sono la stessa cosa, occorre liberarsi anche da queste idee. E'chiaro che se non avessimo uno scopo- che poi è quello di arrivare alla liberazione dalla sofferenza- non faremmo nessuna pratica. Nello stesso tempo questo scopo è raggiungibile solo se lo neghiamo. Che paradosso! E ancor più paradossale è che per negarlo bisogna praticarlo. Dogen, il grande maestro Zen, era già arrivato a questa conclusione: la pratica stessa è l'Illuminazione. I maestri tantrici, in forme diverse, hanno avuto la stessa idea. Questa era già presente, in embrione, nel Buddhismo primitivo. La pratica delle "sedi divine" implicava la visualizzazione di se stessi come esseri radianti e la rinascita conseguente come divinità. Il Buddha era però andato oltre. Mentre riconosceva la rinascita come divinità come positiva per il livello di molti praticanti,pure la identificava semre come una rinascita ( e tutto quello che nasce prima o poi dovrà patire la sofferenza del soffrire e del morire: è la nascita la causa della morte) . Perciò la liberazione implicava liberarsi anche da questo stato. Ma che cos'è la buddhità, la realizzazione? E' così diversa dallo stato di divinità?



Si può rispondere che è la stessa cosa ed è diversa allo stesso tempo. Lo stato di divinità implica alcune caratteristiche che sono ancora concettualizzabili: pur perdendo i confini di un corpo umano e diventando esseri radianti, resta, in qualche modo sottile, l'idea di un sé, quindi qualcosa di sostanziale e stabile [l'anima di cui si favoleggia] , di definibile e di concettualizzabile. Lo stato di un Buddha, un Tathagata ("così-andato") è invece insondabile, al di là di ogni concettualizzazione. Si potrebbe dire (usando un linguaggio di concetti che purtoppo ènecessario) che si tratta di una coscienza basata su nulla. C'è un esempio nei testi classici che lo illustra (Samyutta Nikaya, Nidanavagga, 64 ) :
" -Supponete... che ci sia una casa o una sala con un tetto a punta, con finestre sui lati nord, sud ed est. Quando il sole sorge e un raggio di luce entra attraverso una finestra, dove si stabilirebbe?

- Sul muro occidentale, venerabile signore.


- Se non ci fosse nessun muro occidentale , dove si stabilirebbe?


- Sulla terra ,venerabile signore.


- Se non ci fosse alcuna terra.dove diverrebbe stabilito?


- Sull'acqua venerabile signore.


- Se non ci fosse alcuna acqua, dove diverrebbe stabilito?


- Non diverrebbe stabilito in alcun luogo, venerabile signore."


Si potrà obiettare che noi (noi intesi come singoli individui) siamo limitati, siamo ben al di sotto di questo stato. Mentre questo va riconosciuto, d'altra parte dobbiamo fare i conti con il fatto che nessuna sostanza stabile esiste nel mondo e che tutto è costituito da processi. Se avete seguito, su queste pagine, tutta la lotta che qui viene condotta contro il concetto di sostanzialità che permea quasi tutto il pensiero occidentale ( e più che mai quello religioso) , potrete apprezzare il fatto che la visione di questa realizzazione possa essere concepita come un processo ( e allo stesso tempo come un fatto immediato) , un cambiamento in essere, una dinamicità e non una staticità. Importante è il "vedere" questa realizzazione in processo, questa dinamicità. La nostra pratica, come dice De Mello, può essere riassunta in tre parole: "consapevolezza, consapevolezza, consapevolezza".


Praticare perciò può essere concepito nel visualizzarsi come una divinità (e nel misurare anche le nostre manchevolezze alla luce di questo standard) . E' solo un "mezzo abile" se vogliamo ma qualcosa che, partendo dal sorriso interiore e dalla radianza di gentilezza amorevole, compassione, gioia ed equanimità e


unito a consapevolezza e visione, ci porta a visualizzarci ed a praticare come divinità e come Buddha-in-processo.


Perciò, appena iniziamo la meditazione, sorridiamo lievemente come un Buddha o una divinità, creiamo una sorta di identificazione mentale con questo ideale, spargiamo il sorriso interiore in tutto il nostro corpo-mente e passiamo ad irradiare verso l'esterno in ogni direzione. Possiamo usare la gentilezza amorevole e poi, in successione inversa, l'equanimità come veicolo della nostra irradiazione o possiamo essere semplicemente consci dell'irradiazione stessa, senza oggetto o veicolo. Se usiamo gentilezza ed equanimità potremo accoppiare due aspetti della buddhità, la compassione verso ogni essere vivente e nello stesso tempo l'accettazione assoluta del destino di ogni essere (ancora una volta l'unificazione di due opposti) . Se semplicemente "stiamo", senza alcun oggetto particolare, possiamo però essere consapevoli dei vari "corridoi percettivi" che si stabiliscono fra, ad es. le orecchie e il suono, fra percezione sonora e mente, fra oggetti mentali e mente. Possiamo così realizzare una meditazione sullo spazio che comprende i vari elementi della corporeità, dei sensi, della coscienza e di questi corridoi percettivi. Questa è la meditazione sulla vacuità, dove l'unità corpo-mente si dissolve in una serie di aggregati presenti qua e là nello spazio. Il senso di questo è l'abbandono dei concetti di "io" e "mio".



Visualizzati come divinità anche durante la giornata. La consapevolezza degli stati mentali che sorgono nella vita quotidiana porterà a un confronto con lo standard di divinità o buddhità. Vedremo le nostre manchevolezze ma le osserveremo da lontano, in maniera distaccata, accettandole. Saremo consapevoli che vi sono cause e condizioni per essere come siamo e accetteremo questo.D'altra parte lo standard della divinità o buddhità fornirà un criterio con cui misurare queste manchevolezze. Ma saremo anche consapevoli che siamo "esseri in processo" e, guardandoci da lontano, in maniera distaccata, accetteremo sorridendo.
Sommario


Entrare nel primo dhyana/jhana


La visualizzazione di se stessi come divinità può portare (può-ma non è detto) a conseguire il primo dhyaana (o jhaana ) se associata alla meditazione senza-segno. I dhyaana o jhaana fanno parte del sentiero originario del Buddha al Risveglio e alla Liberazione. Prima di tutto vediamo come svolgere la visualizzazione come divinità.


Potete partire dal sorriso interiore e da una consapevolezza espansa. Irradiate in tutte le direzioni, godete della tranquillità che dà questa irradiazione. State un po' in questo stato. Vi accorgerete che dopo un po' arriveranno idee, distrazioni ecc. ; la mente umana ha sempre voglia di chiacchierare ed è anche naturale che ciò sia così, essendo noi coinvolti continuamente in cose mondane. Occorre accettare questa nostra situazione anche se forse, a prima vista, ci potrà sembrare un disturbo. Sicuramente queste idee, chiacchiere , immagini ecc. cercheranno di risucchiarci. Ecco, qui dobbiamo prestare molta attenzione: possiamo accettarle ma non farci risucchiare da esse, altrimenti ne saremo travolti. Occorre adottare l'attitudine dell'osservatore o del "pastore" . Come un pastore osserva da lontano le sue pecore senza esserne troppo coinvolto, così noi possiamo osservare le "pecore" vaganti dei nostri pensieri senza esserne disturbati più di tanto. Questa è la consapevolezza accettante. Accetto che voi esistiate ma non mi faccio coinvolgere. Vi guardo e basta.


Ad un certo punto può darsi che ci rendiamo conto però di un certo fastidio nell'osservare questa massa confusa di idee. Forse si sarà già riflettuto in precedenza (o è il caso di farlo adesso) di come tutto quello a cui la mente si attacca sia classificabile sotto i due aspetti di "desiderio" e "avversione" . Possiamo anche renderci conto che la nostra mente è attaccata a tutto questo discorrere, letteralmente "afferra" ( o aderisce a) i singoli pensieri. E l'afferramento è un importante anello della catena del "sorgere in dipendenza" . Possiamo anche decidere di rompere questa catena proprio all'altezza di questo anello. E come?


Il Buddha disse che "desiderio, avversione e illusione producono segni" . Questi segni del desiderio, avversione ecc. sono rintracciabili nel corpo e nella mente. Tensioni, discorsio mentale, immagini ecc. . Basta classificarli, quasi sempre sotto l'etichetta del "desiderio", talvolta sotto quella dell'"avversione". In genere, fatto questo, scompariranno, come un ladro colto in flagrante.


A questo punto la mente sarà prima occasionalmente, poi sempre più continuamente vuota. Continuerete a irradiare in questa vuotezza, semplice irradiazione. Continuerete ad osservare i "segni" che compaiono nel corpo-mente e a classificarli. Ci sarà una grande attenzione e consapevolezza. Poiché i "segni" non compaiono quasi più, vi sarà grande rilassamento. Qui realizzerete l'unità di concentrazione/attenzione e rilassamento.



La scomparsa dei "segni" vi porterà ad isolare la mente da desiderio, avversione, dubbio , agitazione, sonnolenza cioè dai classici "Cinque Ostacoli" alla meditazione. Nei testi antichi questo viene espresso così: " Separato dai desideri, distanziato dai dharma [oggetti mentali] insalubri..--." (Pali: vivicc'eva kaamehi vivicca akusalehi dhammehi...) .
Può darsi che vi accorgiate di stare proprio bene essendovi separati da desideri e avversioni. Può darsi che vi accorgiate di come la vostra mente stia prestando una forte attenzione a quello che state facendo. Questo si chiama vitakka che normalmente viene tradotto con "pensiero applicato": State applicando la vostra attenzione intensamente ma in forma rilassata -altrimenti si creerebbero ulteriori segni dovuti al desiderio- su qualcosa. Poiché questa applicazione vi crea interesse e una certa soddisfazione, cominciate a esplorare questa applicazione e questa sensazione di relativa soddisfazione. Decidete di "valutarla", di farne una valutazione , ma non dall'esterno in forma discorsiva bensì immergendovi sempre più nell'attenzione applicata e nella sensazione di soddisfazione. Ci ricordiamo, forse, che l'attenzione alle sensazioni è uno dei quattro fondamenti della consapevolezza. Comunque sempre più entrate nell'"apprezzamento" o "valutazione" di questa sensazione di soddisfazione. In pratica ne valutate il grado, l'intensità. Questo nei testi antichi si chiama vicaara .

Esplorando e valutando sarete coinvolti nella gioia che potrà esprimersi anche in forma fisica: a me si manifesta tramite una forma di vibrazione lungo la colonna vertebrale ma altri la sperimenteranno in forme diverse. Continuate ad esplorare questa forma di gioia. Nei testi antichi è chiamata piiti .


Ad un certo punto questa gioia comincerà a trasformarsi in qualcosa di più profondo e più rinfrescante, una sensazione più profonda e più gentile di felicità . Questa era chiamata sukha , "felicità" .


A questo punto avrete voglia di risiedere più a lungo possibile in questo stato. Avrete conseguito il primodhyaana o jhaana .


Come ho detto all'inizio il primo jhaana fa parte di una serie di quattro samadhi o assorbimenti meditativi che portarono il Buddha all'illuminazione, alla liberazione, combinati con la visione profonda o Vipassana. Questo tipo di meditazione si chiama invece samatha . Ecco perché il nostro centro si chiama "Centro di Meditazione samatha-vipassana ". L'iIluminazione o liberazione deve avvenire al livello di uno dei quattro jhaana. Conseguire il primo jhaana è un passo importante se pur difficile(è relativamente più semplice ottenere i successivi poiché vi trovate già sulla strada) . E' trovare questa strada che è difficile! Molti non hanno fiducia che essa sia praticabile. In un altro centro di meditazione qualcuno ha sostenuto che la mia asserzione sulla possibilità del Jhaana fosse infondata-per non dire falsa, che solo i monaci potessero ottenerla. Ma non vi è alcuna proprietà privata su di esso, si tratta solo di uno stato mentale. E'questo che contraddistingue il Buddhismo da altre religioni. Le altre sono una questione di fede, questa è una religione di esperienza. Una volta sorte le condizioni per il jhaana, ecco, voi ci siete. Sostanzialmente non è nulla di speciale-e allo stesso tempo molto speciale: basta conseguire una concentrazione applicata e poi sostenuta (vitakka, vicara) e quando si svilupperanno gioia e felicità saprete da soli che quello è il primo jhaana . Tuttavia mentre è relativamente facile ad es. usare sati o consapevolezza per osservare le cose che accadono dentro di noi, più difficile è sempre stato, per tutti i meditatori, conseguire il jhaana. Vi sono le istruzioni del Buddha ma sono schematiche, non entrano nei dettagli psicologici. A quanto sembra a quel tempo la pratica era così diffusa che bastavano poche indicazioni. A volte qualcuno vi si imbatte per caso e non sa che cosa ha provato. Altri hanno letto tanto e tante notizie contrastanti su questo stato da sviluppare un forte desiderio per esso e quindi da essere impossibilitati a raggiungerlo. Altri ancora, dopo averlo provato casualmente ed averlo riconosciuto, hanno ugualmente sviluppato un forte desiderio di riprodurlo che ha loro impedito di realizzarlo di nuovo. E' stato il mio caso. Ho poi dovuto percorrere un lungo cammino per disintossicarmi da questo desiderio. Solo allora esso è tornato.


Perciò bisogna praticare il "lasciare andare" e non cercare un conseguimento. Solo quando vi imbatterete nei quattro fattori sopra esposti potrete, riconoscendoli ed essendo comunque distaccati, esplorare questo stato particolare. Ma se vi mettete a cercarli troverete il loro opposto, il desiderio.



E' perciò necessario praticare la meditazione senza segni, dove vi accorgerete di ogni minimo segno volto al conseguimento di qualcosa. Quando sarete rilassati proverete qualcosa. Indagate questo qualcosa.
IL TESTO (MN I, 247) :

‘Separato dai desideri, separato dai dharma insalubri, munito di attenzione applicata e di attenzione giudicante (savitakkam savicaaram ) , avendo raggiunto il primo jhaana sorto dal distacco e che è gioia e felicità, io vi dimorai.


Anche quando, o Aggivessana, sorse una tale sensazione di felicità, essa non prese completamente possesso della mia mente.


Con la soppressione dell'attenzione applicata e dell'attenzione sostenuta (o giudicante, indagatrice ecc.) , (essendo sorta) la pace interiore che è concentrazione del pensiero su un solo punto, senza più attenzione applicata e sostenuta,prodotto della meditazione che è gioia e felicità, questo secondo jhaana , avendolo raggiunto io vi dimorai.


Tramite il distacco dalla gioia io dimorai sereno, attento e pienamente cosciente, provando la felicità per mezzo del corpo, quello che i Santi qualificano come equanimità, come soggiorno nella felicità: vale a dire il terzo jhaana ; avendolo raggiunto io vi dimorai.


Tramite il distacco dalla felicità e dal dolore, e con la scomparsa precedente della gioia e del dispiacere, senza dolore, senza felicità, questa assoluta purezza dell'attenzione e della equanimità che è il quarto jhaana , avendolo raggiunto io vi dimorai.


Anche quando, in me, o Aggivessana, sorse tale sensazione di felicità,essa non prese completamente possesso della mia mente'



Dopo il quarto jhaana il Buddha raggiunse le Tre conoscenze supreme ed il Risveglio assoluto. Egli era un Liberato, un Risvegliato, un Buddha
Sommario


Note sulla meditazione dhyana/jhana e sul Risveglio-Illuminazione


Ho accennato alle difficoltà di realizzazione del primo jhaana. Poniamo ora l'accento su alcuni suoi requisiti, isolamento e silenzio. Specialmente all'inizio questi due requisiti sono importanti. Vedremo in seguito come l'isolamento sia non solo una delle basi ma anche uno dei risultati del primo jhaana.


Come mai, comunque, il Buddha scelse questa via a guidarlo sul sentiero del Risveglio e della Liberazione?


Quando Sakyamuni abbandonò l'ascetismo inutile ed estremo a cui si era dedicato nella sua ricerca della Liberazione e si chiese come conseguirla, ebbe un ricordo (MN 36,I, p. 246 ) :


" Allora, Aggivessana, io pensai che una volta quando mio padre, il Sakka, stava lavorando (nei campi) , io ero seduto nella fresca ombra di un albero Jambu. Separato da oggetti che risvegliano il desiderio, separato da fattori insalubri (akusalaa dhammaa ) , io raggiunsi (uno stato di) gioia e felicità (piiti-sukha ) accompagnato da contemplazione e riflessione (vitakka-vicaara ) che è il primo jhaana e vi rimasi per qualche tempo. Poteva questa, forse, essere la via (magga ) all'Illuminazione (bodhi ) ?


Dopo questo ricordo, Aggivessana, io ebbi questa conoscenza: questa è la via all'Illuminazione. Allora , Aggivessana, io pensai: perché dovrei avere paura di questa felicità che non ha niente a che vedere con oggetti che risvegliano il desiderio e niente a che fare con fattori insalubri? Allora, Aggivessana, io pensai: non ho paura di questa felicità che non ha niente a che fare con oggetti che risvegliano il desiderio e niente a che fare con fattori insalubri" .


Perciò Sakyamuni si rivolse a rievocare quello stato che aveva provato da ragazzo e vi riuscì, realizzando il primo jhaana e poi in successione gli altri tre dopodiché conseguì il Risveglio.


Possiamo chiederci perché il Buddha intuì che il Jhaana era la via che portava all'Illuminazione. Quale sua caratteristica lo colpì intuitivamente? Ora poiché la caratteristica principale e la causa del primo jhaana è la SEPARAZIONE della mente dagli oggetti mentali negativi, probabilmente fu questa caratteristica a colpirlo, nonché il fatto che questo creava uno stato di contentezza e felicità nella mente, stato che alludeva alla felicità del Nirvana. Per la prima volta Sakyamuni vedeva che la mente poteva essere separata, in una maniera non costrittiva ma anzi felice, dalla ruota del mondo, dalla catena degli afferramenti e del sorgere condizionato. Applicando la consapevolezza a questo primo stato mentale si rese poi conto come contemplazione e analisi mentale fossero ancora fattori di disturbo e passò ad eliminarli, realizzando così uno stato dove questi due fattori erano silenziati,il secondo jhaana che sorgeva ormai non più dalla SEPARAZIONE ma dalla concentrazione del Samadhi ottenuto alla fine del primo jhaana ( e indicato dalle parole ‘ egli vi rimase per un certo tempo') . Successivamente, applicando l'analisi, si accorse che un altro fattore era ancora di disturbo per una maggiore quiete e purificazione della mente, un fattore ancora grossolano, la gioia, e passò ad eliminare anche quello, rimanendo in uno stato di felicità purificata, il terzo jhaana. Ancora però questo gli apparve come uno stato di un qualche disturbo, sia pure sottile, ed eliminatolo rimase in una equanimità purificata. Questo spiega anche perché nell'elenco dei sette fattori del Risveglio l'equanimità è l'ultimo ed il più elevato. Non è una qualsiasi equanimità, è l'equanimità jhanica. Inoltre non era solo l'equanimità di una mente offuscata. No, c'erano perfetta equanimità e consapevolezza (upekkhaa-sati-paarisuddhi ) . Si era realizzata una mente pura ed affilata come un diamante. Fu come essere entrato in un'altra dimensione. Intuitivamente si accorse come questo stato fosse al di là di sofferenza e gioia, del tutto equanime, il che, sempre intuitivamente, rimandava a quando c'era sofferenza/insoddisfazione e, sempre intuitivamente, all'origine dell'insoddisfazione, al desiderio. Ecco che in un lampo di intuizione venne uno dei contenuti tradizionalmente ascritti come uno dei contenuti del Risveglio: c'è una liberazione dal desiderio e attaccamento che sono la fonte dell'infelicità.


In seguito questo fu riformulato come le Quattro Nobili Verità: esiste la Sofferenza o Insoddisfazione, c'è un'origine di questa sofferenza, c'è una Liberazione da questo stato di insoddisfazione ed ovviamente c'è (c'era stata) una via che porta alla liberazione dall'insoddisfazione. Ma sicuramente la forma intuitiva originaria fu quella di una consapevolezza di libertà che illuminò su quello da cui ci si sentiva liberi. Così pure fu in seguito sistematizzato l'Ottuplice Nobile Sentiero che porta alla Libertà assoluta ed il nobile Sentiero aveva come sua punta massima il Samadhi che è la stessa cosa dei Jhaana. In ogni caso l'intuizione che vi era stata una Liberazione e dei fattori da cui si era liberato (quello che poi fu sistematizzato come le Quattro Nobili Verità) fu uno dei contenuti del Risveglio, una insight o introspezione di ciò che era accaduto e di ciò di cui si era liberato . Egli riconobbe anche (forse in seguito, forse subito ( l'illuminazione intuitiva è meravigliosa) di essere stato l'unico uomo a realizzare tale visione e Liberazione.

Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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