martedì 19 dicembre 2006

Espansione della coscienza come meditazione

Secondo te che cos’è la coscienza?” Chiede Silvia.


“Questa è davvero una domanda importante. La coscienza è una potenzialità. Viene in essere quando ve ne sono le condizioni, cioè il corpo fisico e gli oggetti da essa percepiti. Senza un corpo fisico e gli oggetti da percepire, niente coscienza. Senza oggetti da percepire sia l’organo della coscienza che la coscienza stessa deperirebbero e scomparirebbero. E’ importante cogliere questo, capire che le cose dipendono dalle cose, che una cosa viene in essere solo quando ne esistono le condizioni” .


C’è stato, recentemente, uno spostamento della nostra attenzione meditativa su coscienza ed esperienza. Nulla di nuovo realmente, si tratta sempre di una forma di consapevolezza ma questo spostamento deriva dal crescere della nostra attenzione al problema del dualismo e anche a quello del suo superamento nella meditazione stessa.
“Quel testo che leggesti l’altra volta” (questo è Nicola che si riferisce ad una lettura tratta da La Meditazione Theravada ) “che parlava dell’esperienza di quella donna thailandese, mi ha lasciato perplesso. In effetti sembrava che lei si sforzasse tanto per conseguire qualcosa “.
“E’ vero. Penso anch’io così. C’era un dualismo fra lei e quello che faceva” .


A volte anche nelle esperienze meditative si ripropone questo dualismo. Non parliamo poi della preghiera, dove questo dualismo è del tutto evidente. L’unica meditazione che non sembra riproporre una forma duale tra soggetto e oggetto sembra essere quella della coscienza intesa come esperienza.

La coscienza (sanskrito vijñana , Pali viññana ) viene citata nei testi antichi come l’ultimo dei 10 kasina o “strumenti meditativi” , essendo preceduto da akasa kasina o “ strumento meditatvo dello Spazio” . In Anguttara Nikaya V, 60 viene detto : “Ci sono le dieci sfere dei kasina …Di queste la più elevata è Viññana. Ma anch’essa è impermanente” .

Come scritto più sopra, nell’evoluzione della nostra pratica ci si può accorgere che molto di quello che facciamo è dualistico. Si può scegliere di superare questo dualismo gradualmente (ad es. nelle cosìddette Residenze Infinite ) oppure istantaneamente (si tratta del vecchio dilemma fra divenire o essere su cui ritorneremo in seguito). Quale può essere una meditazione non dualistica? Può essere solo qualcosa che inglobi tutto, tutti gli stati fenomenici e mentali, e questo può essere solo la nostra stessa esperienza intesa come globalità. Cioè la coscienza espansa al massimo e l’adesione completa alla coscienza stessa; percezione e coscienza come stessa cosa.


In effetti questo non è in contraddizione con altri tipi di meditazione. Nella coscienza espansa le ‘cose’ vanno a disporsi qua e là nella spazialità della nostra percezione: è lo spazio, altro oggetto di meditazione antico. E’ anche meditazione Madhyamika. Si porta l’attenzione solo a sfiorare gli oggetti che percepiamo, senza soffermarci su di essi . Li sfioriamo gentilmente ma neghiamo loro la capacità di catturarci; è come ‘fare un passo indietro’ e vedere la globalità della nostra percezione. Poiché questi oggetti sono semplicemente la nostra esperienza espansa, la nostra coscienza, non vi è esperienza duale. Percezione e percezione della percezione sono un tutto unico. Un utile accorgimento e tuttavia c’è ancora, in questo, un residuo di dualismo. Ci sono gli oggetti che vengono percepiti dalla nostra facoltà percettiva e giudicati (non mi soffermo su di essi poiché ne verrei catturato) . C’è ancora la negazione di qualcosa. Ma se noi, dopo aver eseguito questa operazione, smettiamo di soffermarci anche sul non soffermarci (negazione della negazione), ogni dualismo cessa. Resta la sola esperienza globale, restiamo in contatto, perfettamente aderenti alla nostra esperienza, alle cose come sono.
Questa è meditazione Madhyamika: negazione e negazione della negazione.


Nonostante questa apparente negatività, la base di questo tipo di meditazione è l’ACCETTAZIONE. Si accetta qualsiasi cosa avvenga nella nostra esperienza perché appunto quella è l’esperienza. Se non si accettasse si creerebbe dualismo. Ci sarebbe qualcosa che respingiamo, un A e un B. Nell’accettazione invece tutto è unito: percezione, soggetto, oggetto. Questa meditazione della coscienza-esperienza è anche un modo per portare nella pratica un’esperienza che altrimenti sarebbe solo teoria: la realizzazione degli ayatana o sfere psico-sensoriali (gli organi sensoriali, ivi inclusa la base mentale o coscienza, e i loro oggetti di contatto (es. l’occhio ed un oggetto visibile) che tanta parte hanno nella comprensione saggia di ciò che è il reale: l’esistenza reciprocamente dipendente ed il sorgere in dipendenza di soggetto e oggetto.

In Mahj. Nikaya 43 si dice: “ Ognuna delle cinque facoltà sensoriali possiede una sfera differente e nessuna condivide la sfera di un’altra…; esse hanno per sostegno la mente (mano )… ; esse sono condizionate dalla vitalità… ; ma la vitalità, a sua volta, è condizionata dal calore… ; il calore, a sua volta, è condizionato dalla vitalità, così come la la luce e la fiamma di una lampada che brucia si condizionano reciprocamente” .

Queste sfere sensoriali, includenti gli organi sensoriali, i loro oggetti e le rispettive coscienze che sorgono dal loro contatto sono anche chiamati dhatu che viene tradotto come ‘elementi’ (gli elementi parzialmente fisici e parzialmente mentali del reale, in tutto 18 elementi) . Questa visione della realtà come formata da vari elementi dinamici si presenta come la visione impersonale del reale, una visione impersonale che fa capire come tutto sia vacuo (vacuità) in quanto impermanente e privo di un sé stabile: è come un macellaio che cominci a dissezionare una vacca: fino ad un certo punto egli avrà in sé il concetto mentale ‘vacca’ finché perderà questo concetto a favore delle singole parti che costituivano l’animale: spalla, coscia ecc. ; allo stesso modo la visione dei fenomeni o avvenimenti che ci capita di osservare qua e là nello spazio ci danno una visione dell’orizzonte degli eventi (come dicono i fisici di oggi) senza il concetto falso di ‘io’ e ‘mio’ . Le cose avvengono, punto. Condizionate da altre cose, punto.

Questa è la visione profonda, la visione che ha un Santo, uno svincolato, un liberato: che tutto sorge in dipendenza nel mondo, che non esiste niente che non sorga in dipendenza da.

PERDONO: è fuori moda?

Solo una persona libera può veramente perdonare /chiedere perdono.



Questo discorso può apparire “datato”, fuori moda. Al giorno d’oggi non si vuol sentire di queste cose da “perdenti”, l’ideologia dominante (incrementata dai films americani e dalla nostra TV berlusconiana) ha creato vergogna per queste forme di espressione del cuore. Bisogna essere “vincenti” e spietati ( o anche solo condiscendenti). E’ stata anche creata una parola apposita, “buonista” con cui si svergognano coloro che solo accennino alla comprensione, all’accettazione di realtà diverse dalle proprie.

Bisogna, dicevo, avere la libertà, o almeno un certo grado di libertà per poter perdonare o chiedere perdono. Bisogna avere il coraggio di lasciare andare il proprio “sé” o meglio l’idea fasulla di un sé stabile che ci siamo costruiti. Se non si ha questa visione profonda , la visione dell’inesistenza di un sé stabile, si potrà sì perdonare ma mantenendo il rancore. Come?! La nostra “personalità” è stata oltraggiata dall’altra persona, il nostro sé” così onnipotente è stato sfidato da qualcun altro, c’è un’umiliazione che non ci sentiamo di meritare! Ma se teniamo al rapporto con l’altra persona, possiamo renderci conto di non poterle addossare tutte le colpe (anche se lo vorremmo, anche se lo facciamo così volentieri). C’eravamo anche noi in questo rapporto e questa è un’insight che dovremmo coltivare: non esistono persone indipendenti, facciamo parte di rapporti, di connessioni , di esperienze di relazione in cui si danno sempre tre elementi: i due soggetti e la loro relazione; si potrebbe anzi dire che esiste solo la relazione, un rapporto di inter-essere dove domina la legge di causa-effetto e di condizionalità secondaria.

Ecco perché si dice che non esiste un sé in termini assoluti: il sé esiste ma solo in termini condizionati, condizionati da tutta una serie di fattori. Il Buddha ad es. durante la notte del Risveglio vide proprio questo: nel suo samadhi non c’era traccia di un sé, nella dimensione ultima non si trovava alcuna traccia di un sé; ed anche a livello convenzionale non si poteva che parlare di relazioni. Noi siamo le nostre relazioni, noi siamo i miliardi di impressioni e di esperienze che riceviamo in relazione con il mondo, con l’esperienza. Poichè siamo condizionati da tutto questo inter-essere, la nostra vita inevitabilmente cambia; quello che era importante ieri non lo è più oggi e viceversa; il nemico di ieri è l’amico di oggi e l’amico di ieri è la persona che non gradiamo più oggi.

Ma se siamo la relazione, nessuno può essere visto come il nemico. Se siamo la relazione, non esiste un sé proprio ed un sé “avversario”. Tutto accade semplicemente, vi sono eventi, non cose . E in questi eventi non c’è un vero sé all’opera, ma forze. E non ci si può attaccare a questo fascio di forze all’opera (anche se lo facciamo). Per questo si dice che a livelli ultimi non esistono il Bene ed il Male (con la Maiuscola): se esistono solo fasci di forze all’opera, quale bene e male può essere rinvenuto come assoluto? Per dirla in termini semplici, non esiste Satana; forse esistono forze, fasci di forze solidificati in qualche connessione perversa, ma non esiste il Male in assoluto. Anche Hitler, anche Stalin, anche Pol Pot hanno avuto i loro sprazzi di bontà.

Perciò, saltando qui dal piano personale a quello internazionale, dopo l’11 settembre gli Stati Uniti, nell’espressione dell’ineffabile Presidente Bush, avrebbero dovuto reagire non ciecamente, con il solito spirito della vendetta che viene dalla Bibbia (il famoso Occhio per Occhio): avrebbero forse dovuto esercitare un po’ l’introspezione e “vedere”: vedere ad es. i loro nessi di causalità con il mondo medioorientale, le forze all’opera che motivano le politiche americane (egoismo nazionalista , sete di denaro e di potere, mania di potenza), i regimi di assassini non solo messi al potere ma gli stessi assassinii perpetrati dai servizi segreti americani in decenni di politica internazionale: i vari Pinochet, Saddam ed altri dittatori, tutti i personaggi con le mani grondanti di sangue non solo finanziati ma sostenuti con interventi diretti; le armi atomiche, chimiche e biologiche sviluppate a tonnellate proprio dagli stessi USA... e così via. Se l’America avesse avuto il coraggio di guardarsi al di là dell’immagine che vuole dare, avrebbe visto qualcosa di terribile. Ma questo non significa colpevolizzare gli USA a senso unico: c’erano anche altri comprimari uguali se non peggiori: l’ex-URSS, la Cina ecc. . Però ognuno deve guardare a casa sua ed allora forse non sarebbe stato male, per gli Stati Uniti, seguire l’esempio del Papa che ha avuto il coraggio di chiedere perdono in varie direzioni per i crimini ed il sangue versato dalla Chiesa stessa nei secoli. Ma chiedere perdono significa “vedere” almeno un po’ e non sembra che il Presidente Bush disponga di questa facoltà.

Ma vi immaginate che svolta epocale sarebbe stata quella di un paese grande come gli USA che ha il coraggio di esaminare le sue colpe e non di creare il nemico, il Male, ma di chiedere perdono?

Questo avrebbe imposto una svolta epocale, la forza della non-violenza contro cui qualsiasi altro atto di violenza si sarebbe infranto, contro cui qualsiasi altra mano assassina si sarebbe sentita delegittimata. Saremmo passati finalmente dalla Preistoria alla Storia! Dalle tenebre del sé arrogante, malato di onnipotenza e di violenza alla luce della visione e della comprensione che rischiara la storia umana! Certi episodi negativi (come quello delle Twin Towers) possono essere usati come “Maestri”: Ma forse è più facile perseverare nei vecchi errori.

E’ incredibile come la nostra mente sia ancora condizionata ad agire in termini “preistorici”. Dominano ancora in essa facili rapporti elementari come il dualismo, la creazione di un mondo immaginario fatto di amici/nemici, l’assenza di vera comprensione della realtà: quindi la “staticizzazione in cose” e la mancata comprensione dell’esistenza di “forze”. Per questo si parla di Risveglio, di Illuminazione o Liberazione: occorre risvegliarsi al reale, occorre abbandonare tutto il ciarpame ideologico (politico e religioso) che un mondo vecchio ed una mente ancora preistorica hanno sedimentato e solo così potremo raggiungere la Libertà e l’inizio della Storia. Ma anche questo non va “cosizzato”. Si tratta di processi e proprio per questo occorre chiederci quante occasioni perdiamo ogni giorno per entrare nel processo personale/collettivo di passaggio dalla preistoria alla storia, dalla Mente dualistica ed ottusa a quella illuminata e liberata.

venerdì 15 dicembre 2006

Introduzione a Nagarjuna





Il secondo Buddha: Nagarjuna - Il più Grande Filosofo del Buddhismo
di David Loy
(Traduzione di Loriano Belluomini)


Questo articolo è apparso nell'edizione dell'inverno 2006 di Tricycle: The Buddhist Review.

È stato detto che, dopo il Buddha, la singola più importante figura nella tradizione buddista ed intera era un monaco chiamato Acharya Nagarjuna, qualche volta chiamato il Secondo Buddha. Come è il caso con molti giganti religiosi, noi conosciamo poco il Nagarjuna storico. Gli studiosi di solito lo mettono in qualche momento del tardo secondo secolo dell'Era cristiana, ma può essere vissuto cento anni prima o dopo quel periodo. Secondo la tradizione, Nagarjuna era un studioso-monaco all'Università di Nalanda, il grande centro buddhista di insegnamento nell'India di nord-est. Anche se noi lo conosciamo attraverso il suo corpo di scritture, noi realmente non sappiamo quanti "Nagarjuna" ci furono davvero, poiché è improbabile che tutti i lavori attribuiti a lui siano stati scritti dalla stessa persona. Ci sono potuti essere ben tre o quattro monaci tutti avendo scritto sotto lo stesso nome. 

Noi sappiamo che le scritture di Nagarjuna sono la base per il Madhyamaka, o Scuola di Buddhismo della "Via di Mezzo," e che Nagarjuna stesso divenne la figura più influente dello sviluppo del Buddhismo Mahayana che aveva cominciato ad emergere durante il primo secolo a.C. per disaccordi all'interno del sangha indiano sul percorso per l'Illuminazione. Questo nonostante il fatto che le sue scritture non menzionino mai molte delle idee di base del Mahayana, come l'ideale del bodhisattva o l'identità di forma e vuoto. Questo fa sorgere l'intrigante possibilità che questa figura importantissima nel sorgere del Mahayana possa non essere stato un Mahayana egli stesso.

La più famosa di gran lunga di tutte le scritture attribuite a Nagarjuna è, non casualmente, il più importante testo filosofico nella traditione buddhista, è il Mulamadhyamakakarika (" Versi-radice sulla Via di Mezzo"). I Karika, come spesso sono chiamati, sono composti di approssimativamente quattrocento e cinquanta brevi stanze che infine furono divise in ventisette capitoli. Questi capitoli indirizzano ai problemi filosofici e notevoli del tempo, ivi incluse la natura della causalità e la condizionalità, moto ed azione, il sé, la sua sofferenza e il suo asservimento, il nirvana e il Buddha, ma le profonde intuizioni di Nagarjuna hanno provato di essere senza tempo. 

Sfortunatamente per il lettore generale, il Sanskrito di Nagarjuna, anche se non mancante in grazia o precisione, è impersonale e denso. I Karika dovevano essere memorizzati piuttosto che letti, e normalmente sarebbero stati completati dal commentario orale di un insegnante. Ma anche in questo caso, la filosofia di Nagarjuna è notoriamente difficile capire (il che spiegherebbe perché lui sia più rispettato che studiato).

È probabile che dei buddhisti pensino a tale investigazione filosofica come incompatibile con la loro pratica contemplativa o devozionale. Ma questo è come separare la meditazione dalla saggezza. L'assorbimento nella propria pratica di meditazione sviluppa calma e chiarezza, tuttavia la pace della mente per se stessa non è la meta del percorso spirituale buddhista. Il Buddhismo enfatizza anche la visione profonda - vedere attraverso le costruzioni-pensiero a cui le nostre menti sono abitualmente aderenti - e sono queste forme di pensiero reificato che Nagarjuna decostruisce..

L'approccio filosofico di Nagarjuna era rivoluzionario, ma egli probabilmente non pensava a se stesso come a un radicale, che può essere il perché egli non enfatizzò il collegamento al Mahayana. Le sue innovazioni sono fermamente radicate negli insegnamenti originali del Buddha che rifiutò di discutere le questioni metafisiche. Disse il Buddha che dibattendo tali problemi come ad es. se il mondo aveva un inizio o no, o quello che accade ad una persona illuminata dopo la morte, era come essere stati colpiti da una freccia e rifiutare di essere curati finché non si conoscesse di che legno la freccia fosse fatta, chi l'avesse scagliata e così via. Invece di offrire un chiarimento speculativo del mondo, l'approccio del Buddha era pragmatico. Egli comparò il suo dharma ad una zattera che dovrebbe essere usata saggiamente per attraversare il fiume della vita e della morte. Una volta fatta la traversata tuttavia, non la si dovrebbe portare ulteriormente sulle proprie spalle. Ciononostante, negli anni dopo la morte del Buddha, i compilatori dell'Abhidharma ("l'insegnamento più alto") estrassero un metafisica dai suoi insegnamenti.

Potremmo considerare la filosofia di Nagarjuna come una terapia linguistica: essa usa il linguaggio per rivelare come il linguaggio c'inganna. Noi presumiamo che il mondo che noi esperimentiamo è il vero mondo, ma questo è un inganno. Il mondo come noi normalmente lo percepiamo è una struttura linguistica. Aggrapparsi alle elaborazioni concettuali (il prapancha) causa sofferenza, poiché esse non riflettono con accuratezza come il mondo davvero è. Come risulta da ciò, la nostra prospettiva di senso comune del mondo non è buonsenso per niente, poiché una inconscia metafisica è costruita nei modi in cui noi usiamo il linguaggio ordinariamente.

La logica rigorosa di Nagarjuna analizza questi modi di pensare e rivela che essi sono incoerenti ed auto-contraddittori. Per conto suo questo è tutto quello che egli fa. Egli non tenta di sostituire i nostri modi illusori di pensiero con una comprensione corretta con la quale noi possiamo identificarci. Invece, la vera natura delle cose (incluso noi stessi) diviene apparente quando noi lasciamo andare le nostre illusioni. Il nostro tumulto emotivo e mentale è sostituito da una beatitudine o serenità (shiva) che non può essere afferrata ma può essere vissuta.

Buddhismo è "la Via di Mezzo," tuttavia questo ha significato cose diverse in epoche diverse. Il Buddha scoprì un modo medio tra edonismo e ascetismo. Egli insegnò anche una via di mezzo tra eternalismo (il sé sopravvive alla morte) e l'annichilazione (il sé è distrutto alla morte), perché non c'è un sé e non c'è mai stato. Nagarjuna delucidò una posizione media tra l'essere (le cose esistono) e il non essere (le cose non esistono). Questa posizione di mezzo è shunyata, di solito tradotta come "vacuità."

Shunyata non significa inesistenza o vuoto, né descrive qualche realtà trascendente come brahman o Dio. Shunyata significa semplicemente che le cose non hanno un'auto-essenza o un'essenza loro propria. Tutto sorge e passa via secondo le condizioni causali. Per Nagarjuna, shunyata è un concetto euristico, uno strumento a portata di mano per riferirsi a questa assenza di auto-esistenza. Tuttavia il termine spesso è incompreso. Per alcuni, shunyata vuole dire, che niente del tutto esiste in alcun modo. Tale nichilismo è pericoloso, perché poi esso non fa alcuna differenza fra quello che noi facciamo o non facciamo, e non c'è senso nel tentare di seguire un percorso spirituale. Questo fraintende il progetto di base di Nagarjuna che è non descrivere il mondo ma confutare i modi in cui noi (mal)comprendiamo il mondo.

Nagarjuna era aspramente critico verso quelli che interpretano shunyata come nulla: guai a quelli che lo sostengono, per lui è come prendere un serpente dalla parte sbagliata. Essi confondono due livelli diversi di verità, il convenzionale (il samvriti) e l'ultimo (il paramartha). Il convenzionale non è ultimamente vero, ma è necessario per indirizzare verso la verità ultima. Shunyata è una verità convenzionale che ci aiuta a renderci conto dell'ultimo che non può essere espresso in parole. Shunyata è essa stessa vuota, ma è solamente utile per indicare che nulla ha auto-esistenza. Shunyata ci aiuta a liberarci dall'attaccamento alle cose. Ma poiché shunyata ha solamente significato in relazione a qualche cosa che non sia vuoto, e poiché non ci sono cose auto-esistenti in senso ultimo, non c'è perciò nemmeno alcuna shunyata. Come con la zattera del Buddha; noi abbiamo bisogno di lasciare andare anche shunyata. La 'verità ultima' non si riferisce a qualche altra realtà trascendente. Come un altro Madhyamika, Atisha, più tardi l'espresse: "Se usate la ragione per esaminare il mondo convenzionale come appare a noi, non potete trovare niente che sia reale (che abbia auto-esistenza). Questo non-trovare è esso stesso la verità ultima."

Nagarjuna si rivolgeva alle controversie filosofiche del suo tempo, ma le posizioni teoretiche che egli criticò erano basate sui modi ordinari in che noi umani comprendiamo noi stessi ed il nostro mondo. Il nostro inganno di base è la distinzione presa-per-garantita tra le cose e le loro attività. Ingannati dal linguaggio, noi dividiamo il mondo in nomi e verbi, soggetti e predicati. Noi comprendiamo il mondo come una raccolta di cose separate, interagenti in spazio esterno e tempo, che sorgono e passano via. Questo inganno include il modo in cui noi pensiamo a noi stessi, chiaramente. Noi di solito distinguiamo il nostro sé dalle nostre azioni e dagli eventi che ci accadono-incluse malattia, vecchiaia e morte, gli esempi classici di sofferenza che inspirarono la ricerca spirituale del Buddha. Poiché noi pensiamo al nostro proprio essere come separato dagli eventi, e da ogni altra cosa, noi anticipiamo con timore il fato inevitabile che attende il nostro sé individuale.

ANCORA E ANCORA, in modi diversi, le Karika confutano questa distinzione costruita dal pensiero tra oggetti e processi analizzando come questa stessa distinzione distorce la nostra comprensione di causalità, movimento, percezione, tempo e così via. L'approccio di base di Nagarjuna quasi sempre è lo stesso: La particolare distinzione che è esaminata è mostrata come incomprensibile, poiché, essendo stata fatta, i due differenti termini non possono più combinarsi insieme. Il problema di base, la fonte della nostra sofferenza è che i nostri modi di senso comune di capire noi stessi come separati da, ma anche nel mondo presume questa distinzione ingannevole.

Per esempio, consideriamo la relazione fra il sé ed i suoi stati mentali e fisici sempre in cambiamento (i propri pensieri, le emozioni, sensazioni fisiche ecc.). È il sé lo stesso come questi stati, o diverso da loro? Noi diciamo, "Io ho fame o io sono arrabbiato, o confuso," il che implica che "io" sto continuamente cambiando. Ma noi abbiamo anche un senso di un "io" che persiste immutato: il "io" (o sé) che lavora è lo stesso "io" che riceve un assegno per paga alla fine del mese. Nella vita di ogni giorno noi continuamente rattoppiamo questa discordanza. Qualche volta comprendiamo noi stessi in un modo, qualche volta in un altro ma comprendendo noi stessi come cose che sia cambiano che permangono allo stesso tempo è realmente una contraddizione . Il chiarimento di Nagarjuna per la discordanza è che il sé è shunya, "vuoto." In termini moderni, il mio senso del sé è, un instabile, sempre mutevole costruzione.

Nagarjuna applica il suo metodo anche a costruzioni buddhiste. Cos'è il Nirvana? Anch'esso è un concetto shunya. Se nirvana è qualche cosa di causalmente incondizionato, una realtà che non sorge o passa via, non c'è allora alcun modo di arrivare là, per noi. Se è condizionato, allora anch'esso passerà via, come ogni altra cosa condizionata. Nessuna alternativa offre salvezza spirituale. Lasciando andare i modi di pensare ai quali noi normalmente aderiamo ci permette di esperimentare il mondo come realmente è. Questo, "la fine delle elaborazioni concettuali (prapancha)," è come Nagarjuna si riferisce al nirvana.

Nagarjuna mai in effetti asserisce, come qualche volta si è pensato, che "il samsara è il nirvana." Invece, egli dice che nessuna differenza può essere trovata tra loro. Il koti (il limite, confine) del nirvana è il koti del samsara . Sono due modi diversi di sperimentare questo mondo. Nirvana non è un altro reame o dimensione ma piuttosto la chiarezza e la pace che sorgono quando il nostro tumulto mentale finisce, perché gli oggetti coi quali noi ci siamo identificati sono stati compresi essere shunya. Le cose non hanno una realtà loro propria a cui possiamo aggrapparci, poiché esse sorgono e passano via secondo le condizioni. Né noi possiamo aggrapparci a questa verità. Il verso più famoso nelle Karika (25:24) riassume magnificamente questo: "La massima serenità è il venire a riposo di tutti i modi di ‘prendere le cose', il riposo delle cose nominate. Nessuna verità è stata insegnata dal Buddha per chiunque ovunque."

La completezza metodologica con la quale Nagarjuna usa concetti per minare i modi costruiti concettualmente con cui noi capiamo il mondo ha condotto da molto tempo i critici, BuddhistI e non-buddhisti, Orientali e Occidentali, all' l'accusa di nichilismo. Effettivamente, è probabile che la scuola di Yogachara di Buddismo che enfatizza la realtà della coscienza, sia sorta in parte come una risposta ad interpretazioni così nichilistiche. Evidentemente alcuni tardi pensatori buddhisti erano preoccupati che l'approccio esclusivamente negativo di Nagarjuna - usare il linguaggio solamente, per rimuovere gli inganni creati dal linguaggio, avesse bisogno di essere integrato da descrizioni più positive del percorso buddhista e della sua meta. In ultimo i due approcci Madhyamaka e Yogachara furono capiti come complementari, offrendo quella che è generalmente accettata come la filosofia di base Mahayana .

David Loy è Professore di Ethics/Religion all'Università di Xavier a Besl ed un insegnante di Zen.



Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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