lunedì 19 maggio 2008
Le parole che fanno bene - 2
C'è un'altra pratica parlata che svolge un effetto benefico, la presa di rifugio. Questa è una tradizione classicamente buddhista ma ogni tradizione ha la sua (il Cristianesimo ad es. ne ha in sovrabbondanza, dal Padre Nostro all'Ave Maria a molte forme liturgiche). Però, in una tradizione non-sostanzialista, non si può e non si deve prendere rifugio in qualcuno o in qualcosa. Piuttosto, la "presa di rifugio" avverrà rivolta verso le capacità e visioni inerenti alle nostre forme individuali e alle nostre predisposizioni. Ciascuno di noi può essere un Buddha (o comunque un Liberato, un Illuminato ecc.). E' questa possibilità a cui deve alludere la "presa di rifugio". Non quindi la presa di rifugio classica in qualcosa che realmente non ha sostanza (‘io prendo rifugio nel Buddha, io prendo rifugio nel Dharma, io prendo rifugio nel Sangha') ma la presa di rifugio nella nostra fiducia e possibilità di essere un Buddha. Non migliore appare, a mio parere, una elaborazione ancora più complessa elaborata ad es. da Thich Nhat Hanh, piena di valori tradizionali e, in ultima analisi, troppo lunga e discorsiva. Occorre qualcosa di semplice e che riassuma, allo stesso tempo, la visione che abbiamo.
Ora, lo ripeto - e qui di sicuro scandalizzerò qualche ‘buddhista': non esiste alcun Buddha sostanziale, non esiste alcun Dharma (Legge, dottrina) sostanziale, non esiste alcun Sangha (comunità) sostanziale. Come ho detto altre volte è fare un brutto scherzo al Buddha, al Dharma e al Sangha parlarne come se si trattasse di entità sostanziali, reali. In realtà la visione buddhista è una visione dell'assoluta mancanza di sostanzialità, dell'assenza di un sé reale, assoluto. La visione buddhista è quella dell'assoluta interdipendenza di tutti i fenomeni, è quella di un'assoluta "RELATIVITA'". Sì, caro Ratzinger, è proprio qui il relativismo di cui parli e contro cui ti scagli. E' l'esperienza stessa e non un dogma a farci ‘vedere' come tutto sia relativo, come le visioni assolutiste siano infarcite di fantasie e, in ultima analisi, castelli di carte pronti a crollare (peccato originale, Adamo ed Eva, sic... tutte cose mai esistite e allora: da cosa saremmo stati salvati? E dove si vede questa salvezza?) .....
Se c'è perciò qualcosa in cui prendere rifugio è appunto in questa visione dell'insostanzialità, dell'impermanenza, dell'assenza di un sé reale e della dipendenza reciproca di tutti i fenomeni: tutto questo viene riassunto facilmente in una sola parola: VACUITA'!
E allora la formula che io mi ripeto mentalmente all'inizio di ogni mia pratica meditativa è questa:
"Io prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti concetti che è il Buddha"
"Io prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti concetti che è il Dharma"
"Io prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti concetti che è il Sangha"
E poi, come nella tradizione classica:
"Per la seconda volta io prendo rifugio nella vacuità di..."
"Per la terza volta io prendo rifugio nella vacuità di.'
Sì, l'essenza di un Buddha è la visione della vacuità ed il Buddha stesso è privo di un sé stabile, quindi è ‘introvabile' (che differenza da tutte le altre tradizioni religiose: una religione senza religione!).
Quello in cui dobbiamo rifugiarci non è una sorta di ‘idolatria' quindi, l'adesione a... (al Buddha, a Gesù, alla Madonna ecc.) ma, al contrario, una consapevolezza che le cose sono insostanziali, sono impermanenti. La mia stessa vita è un fiore. Al mattino sorge, alla sera non c'è più. Lontano dal creare disperazione, questa visione deve e può creare accettazione delle cose come sono, deve e può creare distacco. Tutte le credenze religiose vengono dalla paura. Paura di essere soli al momento della morte, paura di annientamento, paura derivante dai rapporti che abbiamo in vita e a cui siamo così attaccati.... Se ci interroghiamo con onestà ci accorgiamo di quanto ciò sia vero. E invece possiamo ‘calmare' le nostre predisposizioni: Io prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti...' , questa è la cura per le nostre angosce. Tutti i fenomeni, me compreso, sono privi di sostanza, sono passeggeri, sono come una bolla di sapone, acqua che scorre, schiuma sul mare della vita. Ha un senso comune questo, è razionale, lo posso accettare? Sì. E allora sorge la calma di fronte alla vita, alla malattia, alla morte. Vivere, decadere, morire... è il destino di ogni essere, perfino del Buddha e di Gesù.
" Basta di piangere e lamentarti, Ananda" disse il Buddha al discepolo che lo aveva seguito per tutta la vita e che piangeva perché il Buddha stava per morire, " non ti ho già detto che tutte le cose che sono piacevoli e deliziose sono impermanenti, soggette a separazione (da esse) e a divenire altre? Così come potrebbe essere, Ananda, poiché ogni cosa che è nato, divenuto, composto è soggetto a decadenza - come potrebbe essere che esso non passi via?". E quando il Buddha morì, i monaci non ancora liberati completamente piansero e si lamentarono; ma i monaci liberati dissero: 'Tutte le cose composte sono impermanenti. Che senso c'è nel piangere?"
mercoledì 19 dicembre 2007
La barca vuota
“Immaginate una barca carica che, mentre attraversa un fiume, venga urtata da un’altra barca vuota alla deriva; i marinai, anche se fossero gente irascibile, non andrebbero in collera. Ma se nella barca c’è un uomo, grideranno perché si allontani. Se non dà loro ascolto, grideranno una seconda volta; se continua a non ascoltarli, inveiranno con ingiurie. In breve, la barca non eccita la collera se è vuota; la provoca solo quando è occupata. Così, chi potrà nuocere a colui che avrà saputo vuotarsi del proprio io?
Questo brano proviene dal capitolo Shanmu del Zhuangzi (Chuang-tzu), un filosofo daoista che pur non essendo così sistematico come un filosofo buddhista, dice comunque molte cose interessanti; possiamo dire anzi che quest’opera (Zhuangzi ) ha compartecipato, insieme al Buddhismo indiano, alla fondazione del Buddhismo Chan o Zen. Benché Zhuangzi non sia così sistematico come, ad es. un filosofo buddhista, la sua lettura, molto annedotica e divertente, può essere di ispirazione e di rilassante conferma per la pratica del meditante. Una sua ottima traduzione si trova nella collezione Adelphi. Vissuto in Cina in un’epoca per molti aspetti ancora molto primitiva (intorno al 350 a.C., un po’ più di 100 anni dopo il Buddha) egli ha contribuito in maniera notevole alla critica e alla de-costruzione del concetto del sé.
Il discorso della barca, qui sopra, è connesso con il concetto di vacuità. Se le cose sono prive di un sé intrinseco, a che vale arrabbiarsi con loro? Dovremmo vedere tutto come una barca vuota. Essa potrà farci anche più danni di una barca piena di persone ma non ci verrà fatto di creare avversione nei suoi confronti. Vivremo quell’esperienza come un semplice fatto, un fatto avvenuto, un fatto impersonale. Perciò la risoluzione di ogni problema sarebbe cogliere l’impersonalità dei fatti. Questa è l'EQUANIMITA’.
Stamattina, all’inizio della meditazione, riflettevo su un mio amico d’infanzia. L’ho incontrato al bar e ho sentito che parlava di prostatite. Siccome questa è una malattia che tocca la stragrande maggioranza degli uomini, me compreso, sono intervenuto nel discorso chiedendo informazioni sulla sua salute. E’ venuto fuori che dovrà fare una biopsia attraverso un procedimento, credo, anche un po’ doloroso. Siccome è stato un compagno di infanzia e anche se le nostre vite si sono molto allontanate e quasi, direi, essendo l’una il rovescio dell’altra, ho provato dispiacere e affetto per lui. Pensando a lui, mi sono identificato con lui, con il timore che deve provare verso l’ignoto, verso l’avvenire. Benché cercasse di mascherarla, ho colto la paura nel suo discorso apparentemente spavaldo.
Mentre, come dicevo, all’inizio della meditazione pensavo a lui, mi è venuta in mente un’altra persona con lo stesso problema, venuta qualche volta a meditare. Anche questa persona angosciata, uno sguardo come di animale braccato. Anche con lui c’è identificazione, c’è com-passione. E di seguito mi sono venute in mente altre persone, con problemi di salute di altro tipo o, semplicemente, morte, talvolta molto giovani. Per tutte queste persone, oltre alla com-passione, ho sviluppato dentro di me, la irradiazione di equanimità. L’accettazione cioè che ognuno è erede delle proprie azioni. E’ quello che in oriente viene chiamato karma.
Benché a volte le connessioni possano non sembrare così chiare, mi appare ovvio come anche la malattia sia spesso, se non sempre, legata alle nostre azioni, alle nostre predisposizioni mentali, alle scelte che facciamo. In questo si può dire che ciascuno è erede delle proprie azioni o meglio delle proprie disposizioni mentali. Viviamo in un mondo intriso di mente o mentazione e non c’è da sorprenderci che quello che ci accade sia determinato dalla mente. Perciò, tornando all’irradiazione di equanimità, occorre sviluppare questa irradiazione neutra che ha per base l’empatia e la compassione ma che è pura e semplice accettazione. Accettiamo il destino degli esseri, incluso il nostro. E’ come il caso di una barca vuota.
Così ho cominciato a focalizzarmi su questa energia o irradiazione dell’equanimità. Qui ci si può focalizzare in due modi. Il primo è pensare a noi come una divinità che irradia accettazione verso il destino degli esseri. Il secondo, secondo me superiore e tipico non di una semplice divinità ma di un Buddha impersonale (un Buddha è limpersonalità assoluta!) è quello di pensare e vivere l’irradiazione senza però un centro. E’ superato anche il concetto di divinità.
Questa irradiazione sarà allora una pervasione di tutto l’universo non da parte di ‘qualcuno’(una visione irrimediabilmente dualista) ma semplicemente da parte di una forza senza centro in cui si trovano anche le nostre componenti psico-fisiche. Ho fatto questo inglobando nell’irradiazione (o meglio nella pervasione universale senza centro) tutti gli esseri. Poi ho eliminato il concetto di esseri e ho lasciato solo l’irradiazione o pervasione, nella spaziosità creatasi (lo spazio è infinito; la mente è infinita; nulla esiste - dicevano, in quest’ordine, gli antichi meditatori) .
E questo è tutto!
Un Maestro interessante: Huangbo
Con questo voglio dire e più volte ho ripetuto che è già tutto qui quello che ci serve, siamo già immersi nella realtà ultima, è inutile che andiamo a cercarla chissà dove. Un mio amico, Iano, mi ha scritto di recente un commento fatto di domande rispetto all’ultimo numero della newsletter. Potete trovare il testo della news intervallato dalle sue domande critiche sul forum di questo sito.
In particolare c’era una sua domanda a cui è stata data una certa risposta che forse qualcuno troverà inconsueta.
IANO: " Ma la domanda che mi viene di farti è, come sono le cose e che cosa sono le cose?
Cosa vuol dire trascendere le cose?"
Loriano: "Poiché mi sembra di ricordare che sei credente, proverò a risponderti con termini evangelici. Trascendere le cose vuol dire trovare qui in terra il regno dei Cieli. Non quindi in un'altra dimensione ma esattamente qui.
In quanto alle "cose" non posso risponderti in termini evangelici ma ti dirò che pur usando questo termine lo riconosco come improprio.
Non ci sono cose. Ci sono fenomeni, tutti passeggeri anche se hanno continuità nel loro divenire. Tutti questi fenomeni dipendono da altri fenomeni e così via. Questa è la vacuità, la mancanza di una sostanza stabile inerente alle "cose" .
Ritorno a "trovare qui in terra il regno dei cieli" . Accettare la transitorietà di tutte le cose è pacificarsi con il reale così com'è, giusto tale e quale. Questo è trovare il regno dei Cieli. Ma ragionare così significa far cessare ogni dualismo. Né bene né male, né bello né brutto, né positivo né negativo. In termini convenzionali, dualistici, noi tutti usiamo questa terminologia. Riconciliarsi con il mondo ed accettarlo com'è significa invece non riconoscerla [la terminologia] che in termini provvisori. Il regno dei Cieli non ha nè bene nè male.”
Ecco, questo è un esempio di quello che volevo dire all’inizio con la parabola dell’assetato. E questo risponde in parte anche ad un’altra questione, non posta da Iano ma che comunque appare qua e là nei discorsi della gente, cioè la validità di una esperienza di un praticante.
Praticando la meditazione si hanno talvolta esperienze di vario tipo, inclusi fenomeni di “risveglio temporaneo” . Non è una novità. Nel Canone Pali si parla di saamaykaa cetovimutti cioè “temporanea liberazione della mente” e si riporta il caso di Godikha che per sei volte raggiunse questa liberazione per poi decaderne; alla settima volta, mentre si trovava nello stato di liberato, pose fine alla propria vita evitando così di ricadere fuori dalla Liberazione.
Ora credo che nessuno di noi voglia giungere a questo estremo. Ma ho raccontato questo episodio per fare capire che questi stati non sono infrequenti per chi medita. Mentre la tradizione Theravada è piuttosto avara nel raccontarli, essi sono frequenti nella letteratura Chan/Zen. Il problema di queste esperienze è di non reificarle, di non farne un feticcio ma di lasciarle andare, per importanti che ci sembrino.
Il mio orientamento iniziale quando ho cominciato a meditare era strettamente (direi quasi: settariamente) Theravada che è, in effetti, la più antica fra le tradizioni attualmente presenti ma, con l’andare del tempo e dopo certe esperienze, mi sono aperto anche verso altre correnti di pensiero; così la tradizione Madhyamika di Nagarjuna e la tradizione del Chan o Zen (Chan è la forma originaria cinese, Zen quella giapponese: entrambe le forme derivano da Dhyana/Jhana, “meditazione profonda” ) .
Ci sono nello Zen alcune impostazioni teoriche con cui non concordo (ad es. una certa sostanzializzazione della Mente che sembra appunto creare una sostanza là dove non ne appare il bisogno) ma l’impostazione meditativa è molto simile, per certi versi, a quella più antica, ad es. ha somiglianze con quella delle tre Porte della Liberazione e cioè la vacuità, il non-segno e la non-direzionalità.
E’ una bella liberazione non essere strettamente legato ad una tradizione. Puoi indagare, puoi cercare, non hai i limiti che una tradizione sempre pone. Si dice che il Dharma sia come un diamante con 84000 sfaccettature. Ognuno può guardare dalla sfaccettatura che preferisce, arriverà sempre verso il centro.
Un maestro antico che trovo molto interessante è il maestro Chan Huangbo (vissuto intorno all’850 d.C. e rappresentante della tradizione Chan di Hongzhou). Questo maestro avrebbe sconcertato più di un ‘credente’ buddhista. E’ mia intenzione pubblicare un articolo su di lui su “Emptiness” ma nel frattempo voglio citare qualche suo passaggio. Da una parte egli sostanzializza un po’ troppo, a mio parere, il concetto di “Mente” , facendone in qualche modo un’entità sostanziale ma per quanto riguarda l’aspetto meditativo mi sembra un maestro eccellente che ruppe con un assetto tradizionale avendo il coraggio di portare avanti idee nuove, rivoluzionarie.
Secondo Huangbo poiché noi risiediamo già nella realtà ultima (egli la chiama la Via, il Dao) , “non c’è niente che dobbiamo fare” : L’illuminazione è perciò semplicemente il risvegliarsi a questo fatto. “ Risvegliandovi improvvisamente voi arrivate a capire che la vostra mente è il Buddha, che non c’è niente da essere raggiunto né alcun atto da compiere. Questa è la vera via, la via del Buddha” .
Egli quindi svolge una critica verso la pratica concepita come una serie di stadi da raggiungere. Potremmo dire che ha una visione olistica ed immanente della illuminazione (un po’ come lo stesso Dogen, secoli dopo) . “Il Buddha reale – egli asserisce- non è un Buddha a tappe” . Se la propria mente è già nella realtà ultima allora le pratiche religiose ordinarie che presuppongono una separazione dualistica fra se stesso e lo scopo della pratica, di fatto ostacoleranno il risveglio. Perciò Huangbo chiede che si silenzino tutti i pensieri che creano una separazione fra la mente e la realtà. “ La (vera) mente non è una mente di pensiero concettuale... Se eliminate il pensiero concettuale ogni cosa sarà realizzata” .
Huangbo portò l’idea di non-attaccamento alle sue più logiche conseguenze. Come scrive Dale S. Wright, cercare il Nirvana era considerato la via alla salvazione. Di fatto questo nel tempo aveva portato a creare una “cosa” del Nirvana stesso (ad es. nell’Abhidharma) finché qualcuno (Nagarjuna fra i primi) cominciò a rendersi conto che questa stessa ricerca correva sul sentiero del desiderio di un oggetto che tale non era (il Nirvana) .
Perciò secondo Huangbo la liberazione è il risveglio dal desiderio di cercare di essere risvegliato (al proposito si leggano “L’altro lato della collina” ed anche “Esperienze 3” sul sito Emptiness... – per inciso “Esperienze 2 “ verrà pubblicato quando possibile) .
L’alternativa al “cercare” è vivere spontaneamente senza attaccamento.
lunedì 19 novembre 2007
Meditazione senza saggezza?
Per qualcuno sembra che la meditazione possa essere solo una specie di limbo più o meno piacevole. Sempre per qualcuno l’impegno conoscitivo rispetto al reale andrebbe evitato. Soprattutto non sarebbe necessario né auspicabile mettersi in crisi, esplorare a fondo quelli che sono i propri bagagli culturali...non sarebbe necessario per esempio vedere come i propri bagagli culturali siano in realtà una congerie informe di contenuti che vanno dalla scientificità alla superstizione, il tutto mescolato in proporzioni variabili, e come , quindi, non vi sia prova certa o dimostrata dei contenuti che proponiamo. In sostanza si vuole salvare capra e cavoli. Datemi un bel rilassamento che non mi faccia pensare (non a caso molte persone, parlando, ci dicono: “ Tu, che sei esperto di rilassamento....” ) .
Invece noi pensiamo che meditare debba servire soprattutto come un modo per migliorare il vivere ( e sicuramente qualche manciata di minuti di rilassamento non basta-subito dopo i problemi si ripresentano) e per darci una prospettiva sulla realtà ultima, una prospettiva che non abbia a che fare con i concetti. Quest’ultima frase può sembrare contraddittoria con il fatto che siamo qui ad usare una logica concettuale stringente ma certamente noi, come tutti, dobbiamo fare uso del linguaggio per comunicare. Però non abbiamo nessun concetto da propagandare o da difendere- non chiediamo a nessuno di credere in qualcosa, offriamo solo un metodo di lavoro. Non chiediamo di credere in un Dio, in un Gesù, in un profeta, in un guru, in un Buddha; non accendiamo incenso e non alziamo altari né Gonzohon; non chiediamo di aderire a Cristianesimo, Islam o Buddhismo. Volutamente non abbiamo nemmeno un Centro di Meditazione vero e proprio, “professionale” per intenderci ma solo un ritrovo casalingo. Non proponiamo paradisi o inferni. Proponiamo una pratica scarna che porta a cercare la trascendenza non in altri mondi, paradisi o dimensioni, ma una trascendenza nelle cose, la trascendenza delle cose come sono. A chi pratica chiediamo solo di realizzare in sé un’esperienza di osservazione interiore, di cercare di vedere ciò che c’è davvero, non quindi dei contenuti ma il brulicare incessante del dualismo contenutistico e chiediamo di separare con la maggior chiarezza possibile l’esperienza dai concetti: questa è l’esperienza di un dato fisico (contatto, rumori, vista) , questi sono i concetti conseguenti ai dati sensoriali; questo è il corpo, questa è la coscienza e, nello stesso tempo, questo è il complesso corpo-coscienza.
Cominciando a vedere così, cominciamo forse a renderci conto delle volte in cui la concettualizzazione entra in campo e trasforma (inquina) l’esperienza. Ecco che le cose non sono più “come sono” ma “come le vediamo”- in genere come le vogliamo vedere o come siamo condizionati a vederle. Cominciamo forse a vedere il momento in cui i concetti sorgono. Potremo forse cominciare a chiederci come sorgono i concetti – buffo come la conoscenza si alimenti con nuova conoscenza; è come quando comprai il primo computer. Timoroso com’ero posi subito dei limiti: “ questo computer mi servirà solo come macchina da scrivere” – ma subito dopo i primi impauriti tentativi, man mano le nuove conoscenze spingevano verso nuove conoscenze.
Poiché i concetti hanno generalmente a che fare con giudizi di valore (positivo o negativo, bello o brutto, spirituale o materiale e così via) possiamo probabilmente dedurre che questo schema di valori sorga dalle nostre predisposizioni vicine, lontane e più che lontane. Se queste predisposizioni (che hanno origine dalla sensazione, piacevole o spiacevole) ci portano a concetti dualistici (buono, cattivo ecc.) e sono in noi così radicate e inquinanti, com’è possibile che esse non entrino in ciascuna delle nostre idee, credenze, fedi, visioni del mondo?
E’ questo che rende ciechi tutti gli “aderenti” a qualcosa. Aderiscono, si afferrano a qualcosa. Questo qualcosa è qualcosa che a loro piace (sensazione gradevole) , qualcosa che dà quindi loro consolazione, che permette anche, in una certa misura, di vivere meglio. Come tali queste predisposizioni non hanno sempre un valore negativo. Vanno però colte nel loro aspetto relativo: “ Io, X tal dei tali, abitante in Y, con la posizione sociale Z, vedo le cose così e così” . Questo per far capire che la “verità” espressa da questa persona X sarà relativa, determinata dalla sua condizione sociale, dalla sua cultura, persino dalla sua posizione geografica. Sempre per chiarire: Berlusconi vede una realtà diversa da quella di Follini e ancor più diversa da quella di Prodi o Fassino. Buffo: partecipano tutti della stessa situazione geo-socio-culturale eppure ognuno la vede con occhi diversi. E sono tutti sinceri! E lo stesso ci accade nella vita di ogni giorno. Una persona in salute, con un buon lavoro, vedrà le cose in maniera molto più “bella” di chi sia angosciato dalla mancanza di salute e/o di lavoro. Ecco come si spiegano le varie visioni del mondo, incluse quelle politiche e religiose. Ecco che qualcuno, in una determinata posizione, potrà pensare: “ Il mondo è meraviglioso, Dio ci vuole davvero bene e ci fa provare sensazioni splendide” mentre qualcun altro, un pastore eritreo alla fame per la siccità incalzante, con i propri animali pelle e ossa e i propri cari morenti di fame e malattia, potrà pensare che questo mondo è un inferno, magari raccomandandosi allo stesso Dio, in questo caso stranamente indifferente.
Perciò tutto è relativo e in relazione alle predisposizioni ed alle condizioni esistenziali di chi dà il giudizio. La stessa verità è relativa, nonostante tutta la polemica attuale contro il relativismo, portata avanti dal nostro buon conterraneo, senatore Pera. L’’unica verità assoluta sembra essre la mancanza di una verità assoluta o, detto meglio, che proprio la relatività dei vari tipi di verità è la verità. Ma anche questo è solo un concetto e va accettato nella sua relatività (vedo già che questo scatenerà la voglia di discussione di molti lettori) .
Ci sono persone che praticano la meditazione da anni e che nonostante ciò sono portatori di contenuti vari, accettandoli acriticamente o quasi senza neanche rendersene conto, essendosi accostati alla pratica con la tazza già piena e senza la voglia di svuotarla per cui continuano ad asserire qualcosa. Tutti asseriamo qualcosa nella vita quotidiana però il problema è se siamo consci della sua relatività o se dentro di noi la consideriamo una verità assoluta. Se siamo su questo piano non potremo mai metterci in discussione, la nostra tazza sarà sempre piena di contenuti ed avrà poco a che fare con il silenzio della mente. Anche questo comunque è un giudizio e come tale relativo.
venerdì 19 ottobre 2007
HO VISTO LA VOLPE / standing in the shadow
Mi è venuto da fantasticare che se avesse trovato il barattolo di carne forse si sarebbe saziata e, per quella sera, avrebbe risparmiato altri piccoli esseri viventi. Non mi manca di venire in mente, in questi casi, il fatto che la volpe è un predatore e che ogni sera che esce deve trovare qualche altro essere con cui riempirsi la pancia. Offrirle la carne avrebbe forse fatto risparmiare qualche altro essere. D'altra parte la carne della scatola viene a sua volta da un altro essere ancora, predato a sua volta da quello che è il più grande predatore del mondo, l'uomo. Apparentemente c'è una contraddizione nel voler risparmiare la vita di altri esseri con la carne di altri esseri. Però, questo è il mondo. Il nostro è un mondo di predatori dove tutti depredano tutti. E' un mondo di ferocia insomma, ben lontano da quel mondo ‘bello' di cui parlano i religiosi, i poeti e tutti gli illusi in genere. L'accettazione di questa verità (che poi è la prima nobile verità del Buddhismo: ("Al mondo c'è la sofferenza"), crea l'equanimità, cioè l'accettazione delle cose come sono: e cioè che al mondo c'è sofferenza e che nessuno, proprio nessuno, nemmeno un Buddha o un Gesù, può sfuggire alla sua dose. Mi vengono in mente i bambini quando, a scuola, vengono da me lamentandosi per una piccolissima ferita e io gli dico: "Ma non è niente!" e loro rispondono: " Sì, ma a me fa male!". Ognuno vede la propria sofferenza come massima!
Tornando al discorso della volpe, sorge in me sofferenza anche per lei. Più che sofferenza però la chiamerei com-passione. Io partecipo cioè della sua terribile necessità di nutrirsi ogni sera a spese di qualche altro essere. Naturalmente partecipo allo stesso modo alla necessità di qualche altro essere di non far parte di questa soddisfazione della fame della volpe. E allora? C'è un'apparente contraddizione: devi scegliere, o la volpe o gli altri. In realtà non devo scegliere, devo semplicemente ACCETTARE, accettare che la realtà è questa, complessa e senza scampo, e che ognuno partecipa del destino generale di questo mondo predatore. Il che non toglie che io possa far qualcosa per alleviare la sofferenza di chi soffre. Non ho ucciso un essere per dare la carne in scatola alla volpe: semplicemente utilizzo quello che questo mondo mi offre. Ma non c'è partecipazione volontaria all'uccisione di altri esseri.
Lo scopo principale della meditazione è l'accettazione, l'accettare. Questo non è indifferenza. L'accettare è l'equanimità, dovuta all'accettazione del fatto che vi sono cause e condizioni per cui il soffrire esista, ma ciò non toglie che io non possa cogliere la sofferenza degli esseri e parteciparvi. Mi piace la storia ma ogni volta che leggo di battaglie, di guerre, mi viene alla mente tutta la terribile sofferenza di un campo di battaglia: le morti atroci, le gambe amputate, la lentezza stessa di certe morti, le sofferenze mentali dopo la guerra. E i genitori, le mogli, i figli che soffriranno per la mancanza del loro figlio, marito, fratello ecc.
Osservo criminali storici come Giulio Cesare (che all'assedio di Alesia fece volontariamente morire di fame una parte della popolazione della città che voleva andare via), come Napoleone, che per la propria ambizione egoistica sacrificò le vite di un'intera generazione di giovani europei. Come Hitler che fece uccidere milioni di Ebrei, comunisti, zingari, come Mussolini (che cinicamente entrò in guerra perché occorreva mettere sul piatto delle trattative ‘la morte di qualche migliaio di Italiani'), come Stalin che fece massacrare milioni di contadini. E tuttavia, anche pensando a questi episodi storici, non posso non vedere anche la sofferenza individuale di questi stessi personaggi.
Venendo al mondo d'oggi, riguardo a tutti i casi stravaganti di omicidio che si vedono o di cui si legge, sono tendenzialmente dalla parte dei sospettati: una Franzoni o quel ragazzo (Alberto?) sospettato a lungo dell'omicidio di Chiara - dove? Mi sfugge ma non ha importanza. E sono tendenzialmente con loro non perché sia innocentista: magari sono davvero colpevoli, che ne so. Ma perché credo e penso che la sofferenza e lo spaventoso stress che essi subiscono in queste inchieste e processi devono essere terribili e, se il caso, già una terribile punizione. Semplicemente partecipo della loro sofferenza. L'obiezione più semplice è: ma allora tu non provi pietà per coloro che sono stati assassinati. Certo che sì, ma questo ormai è passato! Io vivo nel presente e, nel presente, vedo queste persone che soffrono. Il motivo mi interessa poco. Vedo queste persone che soffrono, ora. E' la sofferenza che mi colpisce, non capire chi ha ragione o torto.
D'altra parte cerco di stare nel mondo con il piede in due staffe; da una parte la staffa della partecipazione: tutti, in qualche maniera, partecipiamo alla vita di questo mondo; dall'altra la staffa dell'equanimità e dell'accettazione, per cui tutto è come deve essere (per lo meno in questo preciso attimo storico; fra un altro attimo sarà già diverso). Ma quello che è importante, in ultima analisi, è vedere il mondo dal punto di vista dell'equanimità, dell'illuminazione.
Essere illuminati, come dice il termine stesso, significa avere chiarezza e questa chiarezza è riferita ovviamente al mondo e a noi stessi come processi inseriti in altri processi. Avere questa chiarezza è vedere la causalità negli avvenimenti: questo avviene perché è avvenuto quello, questo non avviene quando non sia avvenuto quello. E' la meraviglia dell'ovvio. Se si vede questo (chiamato anche ‘coproduzione condizionata') il mondo è perfetto (nella sua imperfezione assoluta), è così com'è e va preso e accettato com'è.
De Mello in un suo libro diceva che l'essenza della meditazione è: consapevolezza, consapevolezza, consapevolezza. Io aggiungo: l'essenza della meditazione è: accettare, accettare, accettare. Se si accetta, va tutto bene, si è in armonia con le cose come sono (e che devono necessariamente essere così. Ho messo il titolo mezzo in italiano e mezzo in inglese volutamente: ho un'amica infatti che si irrita per gli anglicismi nella nostra lingua. Ma il mondo va così, anche la nostra lingua cambia e questo va accettato senza rimpianti. Questo vale anche per tutti coloro che si lamentano per ‘la decadenza dei valori'. Ma i valori non sono assoluti, anch'essi sono condizionati ed è naturale che mutino col mutare delle cose.
Resistere al cambiamento significa mettersi in attrito col mondo, creare avversione verso il mondo, spesso e volentieri essere dei reazionari brontoloni.
Lasciare i punti di vista, discernere il reale
Parlando con persone che sono interessate alla visione del mondo, siano esse religiose o agnostiche o altro, e poiché io esercito la critica verso tutte le posizioni , mi viene invariabilmente chiesto : “ Ma allora cosa dici tu?”, al che io rispondo che non dico nulla, che non asserisco nulla. E’ vero questo? Sapendo che il mio background è buddhista,le persone sospettano naturalmente che la mia sia una posizione strumentale, cripto-buddhista si direbbe, un modo astuto per criticare gli altri e portare al Buddhismo l’interlocutore. In realtà non occorre essere cripto-buddhisti, fingere di non dire nulla, poiché questo è esattamente il cuore del Buddhismo. Cioè che non c’è nulla da dire. Qualcuno, nella tradizione mahayana, arrivò a quello che sembra un estremo, a dire che in tutta la sua vita di predica della visione del mondo buddhista, il Buddha realmente non disse nulla! Per questo si può essere d’accordo con mia zia che, volendo screditare il Buddha (il cui insegnamento peraltro non conosce come non lo conosce quasi nessuno) disse una volta che il Buddha non sapeva di nulla.
Possiamo dire questo, enunciare questi paradossi, perché il cuore della metodologia buddhista è la visione analitica del reale. Se si va ad un’analisi approfondita del reale, come fanno ad es. i fisici o come si arriva a fare nella meditazione di visione profonda, ci si accorge che realmente non c’è nulla... o meglio non c’è nulla di stabile in questo mondo, che tutto dipende da cause e condizioni e che poiché queste sono continuamente mutevoli, come sabbie mobili, si può effettivamente dire che nulla esiste, che cioè nulla esiste come intrinsecamente esistente, intrinsecamente stabile. Se possono bastare alcuni gradi in più di aumento del clima a distruggere forse l’intera razza umana, ci rendiamo conto di come la nostra orgogliosa esistenza sia proprio basata sulle sabbie mobili di cause e condizioni continuamente mutevoli e quindi sul nulla.... “Castelli di sabbia che sbatto giù...” diceva anni fa una canzone (per inciso è notevole come a volte i poeti offrano forse involontariamente spunti eccezionali di critica del reale: un’altra canzone mi sembra dicesse: “Ho scritto t’amo sulla sabbia,e il vento a poco a poco se l’è portato via con sé”, esprimendo così una critica ad uno dei concetti base della nostra civiltà-l’eternità di una sensazione- ed una notevole visione profonda del reale...) . E’ perciò questa visione profonda, che cioè esistono solo cause e condizioni (e nient’altro) per l’esistenza di tutti i fenomeni, una posizione quindi che non trova alcunché di stabile nel mondo (l’impermanenza) , che non trova alcuna sostanza stabile in esso (l’insostanzialità, la negazione che esista una sostanza stabile nei fenomeni, nelle cose) che viene chiamata vacuità, cioè assenza di un sé. Ma il sé esiste, potrà dire ciascuno di noi. Lo tocchiamo, lo verifichiamo giornalmente! Ma se andiamo un po’ più in là nella riflessione ci rendiamo conto di saper bene di essere impermanenti, di essere sottoposti a degrado, declino, morte e di come basti il mutare di qualche condizione vitale per mettere in pericolo la nostra esistenza.
Da questa comprensione che tutto è vacuo, che tutto è in movimento continuo come diceva già Eraclito (“tutto scorre” ) , mi è sorta, nel tempo, l’intuizione che TUTTO E’ GIA’ QUI, che non ci può essere la separazione che la mente dualistica crea fra il mondo reale e l’assoluto, sia esso chiamato Paradiso o Nirvana (c’è il mondo terreno,questa prigione corporea in cui la sostanza-anima sarebbe trattenuta e c’è invece un mondo celeste di felicità in cui, liberatasi dalla prigione, l’anima andrebbe) . Non ci può essere un passaggio da un mondo in cui niente ha vera sostanza ad un mondo sostanziale, oppure anche se l’altro mondo fosse privo di sostanza stabile vorrebbe dire che non vi è separazione reale fra i due, che entrambi sono lo stesso mondo sotto forme diversificate....Ci avevate mai pensato? Che cosa voglio dire, in sostanza? Che la visione tradizionale, dualistica, crea due mondi o totalmente diversi e quindi incomunicabili o totalmente uguali e dove quindi non avviene alcun passaggio. In entrambi i casi non è possibile la Liberazione. Non solo: questa concezione mette in crisi anche tutta una serie di altre idee. Idee. Quali? Tutte le idee sulle quali la mente dualistica ha costruito nei secoli . Non dirò quali perché ricevere le soluzioni spiattellate non è il miglior modo per crescere e perchè l’ego, il sé si sentirebbe attaccato nelle sue auto-convinzioni e nel suo continuo ri-assicurarsi di esistere in forma assoluta.
In realtà in questa intuizione sono stato influenzato dalla critica radicale che il filosofo buddhista Nagarjuna portò verso i primi secoli dell’era cristiana a tutto il mondo delle idee e delle concezioni possibili in campo metafisico. Egli distrusse tutti gli assoluti dualistici propri sia delle filosofie tradizionali sia di quelle buddhiste, predicando la via di Mezzo fra questi assoluti, Madhyamika.
Mi si dirà che sono aspro in questa critica, ma mi chiedo come si possa risvegliarci continuando a sognare ad occhi aperti, basandoci su concetti dualistici vecchi di secoli e storicizzabili come sorti in società primitivo-pastorali. Certo questo va apparentemente contro un’immagine di tolleranza e di accettazione. Ma dare pane al pane è intolleranza? Io accetto, credo, tutti; capisco, credo, perchè cause e condizioni abbiano portato le persone ad essere così come sono! Ma posso dire (specialmente se richiesto) che il bagaglio di secoli di credenze che ci portiamo dietro è gonfio di sentito dire, superstizione e inverificabilità? Senza criticare le persone, che sono condizionate, posso però criticare la cecità, l’addormentamento? Se andiamo a rileggere il Canone buddhista possiamo renderci conto di come i discorsi del Buddha fossero, ad esempio, una critica radicale del mondo di credenze in cui si trovava a vivere. Criticava le credenze dei Brahmini dell’India che è un po’ come criticare la chiesa cattolica qui da noi. Ma non le criticava riproponendo una diversa teoria. No, lui proponeva la visione profonda del reale e invitava tutti a sperimentarla, non a credere! Dopo il Buddha, Nagarjuna radicalizzò ancor più la critica. Eppure è opinione comune oggi, al contrario di quanto si pensava un tempo, che egli semplicemente approfondisse il discorso del Buddha. E il centro di questo discorso, o meglio di questa visione, è la vacuità. Cogliendo la vacuità di tutto il mondo fenomenico, non c’è niente che si possa proporre, non c’è nessuna teoria da abbracciare, da difendere. Nel Vigrahavyavartani Nagarjuna , rispondendo all’accusa di riproporre egli stesso una teoria e quindi un errore, dice:
Se io avessi una qualsiasi proposizione
Allora anch’ io avrei quell’errore
Poiché io non ho alcuna proposizione
Io non ho alcun errore.
Ma sia chiaro, questo non è un modo di fare i furbi (non dico niente così non mi puoi attaccare) . No. Non dico niente perchè ogni asserzione è vuota, è espressione di un punto di vista che ha come riferimento il sé e poichè il sé (con tutte le sue esigenze di autoconsolazione e di autoconferma ) non esiste come sostanza stabile, ecco che non c’è nulla da asserire se non la critica stessa. Esistono cause e condizioni, esiste un inter-essere di tutti i fenomeni per cui esistendo quello esiste questo e non esistendo più quello cessa di esistere anche questo.
D’altra parte non si può entrare in contatto con “le cose come sono” se la nostra mente è piena di concetti a cui attaccarci. Per questo è importante abbandonare i punti di vista, le sottili ossessioni che creano il nostro modo di essere. E’ importante arrivare al silenzio della mente e solo allora la mente diverrà libera, avrà fatto pulizia. Per questo è importante praticare la meditazione: perché solo così si arriva al silenzio mentale. Certamente si può arrivare al silenzio mentale in una seduta meditativa ma nella vita di tutti i giorni daremo giudizi, si dirà. Ma forse i giudizi che verranno da una mente più silenziosa e più attenta saranno più precisi e meno inficiati da quello che una mente consapevole definisce subito come avversione. Tutti i mistici hanno elogiato il silenzio mentale ma questo silenzio deve essere esteso anche al non avere alcuna teoria, alcun punto di vista perché sono tutti relativi e basati sul sé, costruiti come autoconferma del sè. Ecco perchè la filosofia indiana usa la doppia negazione (né...né) : per mettere a tacere le concettualizzazioni, usando una critica negazionista verso gli assoluti, negando il dualismo degli assoluti (il bene e il male per es.) e coltivando la Via di Mezzo (Madhyamika) .
DISCUSSIONE SU “LASCIARE I PUNTI DI VISTA...” (1)
Mi fa piacere quando ricevo lettere riguardo a ciò che scrivo, soprattutto quando sono ‘intriganti’ come lo sono quelle qui sotto riportate. Queste lettere oscillano garbatamente tra l’ironia, la presa in giro e l’approfondimento. Perciò, anche le più brevi, sono per me un esempio di ricchezza mentale e mostrano che coloro che le hanno scritte hanno una riflessione non comune sulla realtà.
1)
From: M. Maria Antonietta
piccola riflessione: anche il pensiero del Buddha è vecchio di secoli.
E quella canzone di Franco 1 e Franco 4 era veramente fenomenale. Bentornato,
baci,
mam
Anche l'uomo è vecchio di secoli. Il pensiero del Buddha è solo un metodo: come dire che sommare 2 e 2 si farà sempre allo stesso modo.
Lo
2 )
From: Cattalini
Franco IV e Franco I; me li ero quasi scordati.
Se esiste una via di mezzo, a che è in mezzo, negando il dualismo degli assoluti (il bene e il male per es.) ?
Risposta: “Appunto a il bene e il male egli altri dualismi. Questo significa non negare che esistono realtà convenzionali. Esse esistono ma sorgono in dipendenza. A queste realtà siamo tentati di dare il valore di assoluti (ad es. il Bene e il Male) e in nome di questi assoluti presunti si fanno le guerre (per gli Arabi gli USA sono il male assoluto; per gli USA Bin Laden è il male assoluto (in precedenza era il Comunismo)). Trovare il Mezzo è rifiutare questi assoluti. Nota che non si afferma nulla, si usa una metodologia negativa. Questo porta al relativismo contro cui si schiera per es. oggi Ratzinger. Ovviamente questa potrebbe essere una visione riduttiva e in una certa misura lo è. Dove si trova il Mezzo? Anche questo è relativo. Non esiste un mezzo assoluto, potrà esistere solo un mezzo dipendente, dipendente dalle cause e condizioni in essere. Il discorso della Vacuità arriva anche a negare se stesso e quindi a coincidere con l'esistente, le cose come sono appunto. Ma è la qualità dell'osservazione che è diversa.”
3) From: Sandro G.
”Delle due l' una:
a) Dio c'è (Dio, Jeova, Allah, Shiva, eccetera)
b)dio non c' è
per l'ipotesi b) non ci sono problemi, abbiamo risolto
tutto, non ci possiamo nemmeno sfogarci a bestemmiare.
per a) si può meramente constatare tutti, indistintamente (sfido chiunque, di
qualsiasi religione a dimostrare il contrario) che Dio (con la D
maiuscola) fa di tutto per non rivelarsi, per nascondersi. Quindi,
perchè non accontentarlo?S.
Risposta: Uhm, mi trovo stranamente d'accordo con te!
4)
From: Silvia
..."non ci può essere passaggio da un mondo in cui niente ha vera sostanza ad un mondo sostanziale , oppure anche se
l'altro mondo fosse privo di sostanza stabile vorrebbe dire che non vi è separazione reale tra i due , che entrambi sono lo stesso
mondo sotto forme diversificate .."..."la visione dualistica crea due mondi o totalmente diversi e quindi incomunicabili o totalmente uguali e dove quindi non avviene nessun passaggio.In entrambi i casi non è possibile la Liberazione."
Stavo pensando ...i due mondi di cui parli non potrebbero essere semplicemente dati da livelli di percezione diversi , separati sì
ma uniti , nello stesso tempo , attraverso la capacità di percezione che ognuno di noi possiede e può sviluppare , la quale capacità ti permette di vedere oltre questa realtà ( certamente insostanziale, certamente sostanziale)...? Perchè , mi chiedo , la
consapevolezza dell'esistenza di più dimensioni , non certo solo due , dovrebbe impedirmi la strada alla Liberazione ,o alla Liberazione stessa ,come la chiami tu ?
Queste autoconvinzioni dell'ego , di cui fai spesso menzione, non potrebbero essere semplicemente date dai livelli di
percezione diversi ? Oltre alla visione analitica , utile fino a un certo livello , non ci potrebbe essere anche una visione intuitiva ?
Riguardo alla soluzioni spiattellate , che preferisci non comunicare,...mi hai messo una certa curiosità...i miei soliti giochi
dell'ego..ha ha...
ps
quest'ultima lettera l'ho trovata interessante e un pò seriosa
Risposta: Cara Silvia
la tua lettera permette di approfondire qualcosa. Cito:
"i due mondi di cui parli non potrebbero essere semplicemente dati da livelli di percezione diversi , separati si
ma uniti , ". Separati o uniti? Questi due termini sono antitetici ed autoescludentisi. Non che non capisca il senso di relativismo che vuoi loro dare ma a volte questo senso di relativismo può portare o deriva dal voler salvare capra e cavoli . Cerco di spiegare meglio: qui si parla di due cose opposte: ad es. l'anima è intesa come sostanza (materiale, spirituale, sottile o come vuoi ma sempre sostanza) oppure come insostanziale? E il mondo di là, la Liberazione, è inteso come un mondo sostanziale (Paradiso diciamo) o insostanziale? Cerchiamo di stabilire le relazioni due a due.
1) L'anima è sostanziale. Anche il mondo di là è sostanziale. Come dici tu, possono esserci vari livelli di materialità e quindi nessuna obiezione a che la nostra coscienza possa percepire altri livelli di sostanzialità. Con gli strumenti adeguati possiamo ad es. percepire le onde radio, gli ultrasuoni ecc. , cose che normalmente non sono a disposizione della nostra percezione. Però in questo caso - e come è il caso per gli ultrasuoni ecc.- il mondo al di là di cui si parla fa parte del nostro stesso universo e poiché noi e il nostro universo siamo condizionati, cioè nasciamo dall'interazione continua di cause e condizioni (e questo è difficilmente negabile) ne deriva che questo mondo al di là è anch'esso un mondo condizionato, un'altra dimensione, come giustamente dici tu, di un universo condizionato. Non è l'incondizionato.
2) L'anima è sostanziale ma il mondo di là è insostanziale. Come può una sostanza entrare in una non-sostanza? I due termini si escludono. La nostra mente, che notoriamente vuol salvare capra e cavoli, alzerebbe delle obiezioni a questo ma se ci pensiamo bene andiamo a finire o nel punto 1 o in uno degli altri punti.
3) L'anima è insostanziale ed il mondo di là è insostanziale. Ma come possono comunicare in qualche modo due non-sostanze?
4) L'anima allo stesso tempo è sia sostanziale che insostanziale. Ma i due termini si escludono a vicenda.
5) L'anima allo stesso tempo nè è sostanziale né insostanziale. Come è possibile ciò? Certo, si può dire tutto, ma dobbiamo avere una base razionale quando ci si mette a discutere, altrimenti si può dire qualunque cosa.
Ecco, questi sono i termini con cui ragionava Nagarjuna nella sua critica alle affermazioni correnti nel nostro linguaggio. Faccio mia questa serie di sillogismi non per negare che esista un eventuale mondo al di là o per negare qualsiasi altra cosa. Altri mondi sono certamente possibili, probabili. Quello che importa è superare i limiti di un universo condizionato. I Buddhisti chiamano questo stato- se così si può convenzionalmente definire, col nome di Nirvana. Però anche questo stato può essere sottoposto a critica se lo reifichiamo, se ne facciamo cioè una sostanza. La soluzione è che è precisamente il sorgere condizionato, è la vacuità del sorgere condizionato,è insomma questo stesso mondo che è il Nirvana. Visto con altri occhi.
C'è un altro paradosso infatti che ti voglio sottoporre. A cosa può corrispondere la vacuità della stessa vacuità?
Loriano
5) SILVIA :
Subject: risposta
Chi ha detto che si deve avere una base razionale quando si parla ?
Razionale rispetto a che cosa? forse alla nostra percezione?
E se ogni individuo percepisce in maniera diversa dove sta la base razionale ?
Se io vedo cose che tu non vedi , per esempio , e tu mi parli della vacuità , della insostanzialità ,
forse e dico forse mi dovrei far vedere da un medico , oppure fingere ?
Forse , per esempio ,sono schizofrenica e non mi sono mai curata ? chissà...può essere
Come vedi invece di rispondere alla tua domanda , aimè per me incomprensibile e un pò
inutile formulo altrettante domande , non si finisce mai ...
Loriano: Se io dico: "Dio è un maialino rosa, ne sono sicuro" tu potrai obiettare quello che vuoi ma io o resterò ugualmente della mia idea o addirittura potrò portare a sostegno quelle che sono le mie 'intuizioni' in proposito. Quindi è implicito in ogni discussione che occorre usare criteri di razionalità accettati da entrambi. Questo ha dei limiti ma è il criterio necessario per discutere di qualcosa.
Riguardo alla percezione mi sembra che tu abbia colto il nocciolo del problema. Dici:
"E se ogni individuo percepisce in maniera diversa dove stà [a proposito, si scrive senza accento] la base razionale ?" . Infatti. La percezione, come ogni altra cosa non ha valore assoluto ma è dipendente da cause e condizioni (per es. una malattia visiva, come dici tu) . La razionalità a cui mi riferivo non è la percezione ma solo un sistema comunicativo, un uso del linguaggio su basi comuni minimamente accettate (ad es. tutti, credo, accettiamo la legge di causa-effetto) . Per il resto la percezione soffre della solita malattia di tutte le cose mondane: non ha un'esistenza e una validità proprie , ma sorge determinata das cause e condizioni. E' vuota di sostanza stabile!
Per questo ho sempre criticato il basarsi su propie percezioni. Non è un criterio valido. Perciò, come vedi, su questo siamo d'accordo. O no?
Lo
PS. La vacuità della vacuità corrisponde a “ sole cono me ceso” . Anagrammalo
DISCUSSIONE SU “LASCIARE I PUNTI DI VISTA...” 2 ( continuazione)
LA DISCUSSIONE SULLA NEWSLETTER DI SETTEMBRE HA EVIDENTEMENTE APPASSIONATO POICHE’ SONO ARRIVATI ALTRI CONTRIBUTI. SONO TUTTI INTERESSANTI. DISPIACE PER IL TONO FORTE DI QUALCHE LETTERA MA OCCORRE ACCETTARE LE COSE COME SONO. MI RENDO CONTO CHE E’ FACILE PER ME AVERE L’ULTIMA PAROLA MA....
ANDREA SPIEZIA: X Sandro:
(Sandro dice:) per a) si può meramente constatare tutti, indistintamente (sfido chiunque, di qualsiasi religione a dimostrare il contrario) che Dio (con la D
maiuscola) fa di tutto per non rivelarsi, per nascondersi. Quindi,
perchè non accontentarlo?S.
Hai dato per scontata una cosa assolutamente relativa, il fatto che Dio fa di tutto per nascondersi e' frutto di quello che la tua mente ha costruito. Posso perfettamente, nella mia "illusione" affermare il contrario: Dio fa di tutto per rivelarsi, noi facciamo di tutto per non ascoltarlo. gesu' ripeteva sempre : " Chi ha orecchi intenda "
Ciao,
Andrea
SANDRO (risposta): Se così fosse, vorrebbe dire che la mia mente è uguale a quella di dio, per cui io posso competere con lui....... cazzo, non mi credevo così
dotato!
Comunque, se hai un figlio (io ne ho uno) o, comunque, provi ad
immaginare di averne uno, cosa faresti se ("pervaso da immenso amore
per lui") tu lo vedessi in pericolo, lo lasceresti fare aspettando che
si perdesse solo perchè lui non ti ascolta, solo perchè gli hai
conferito il "libero arbitrio"?
Chi ha dannato Adolf Hitler? Qualcuno me lo vuole spiegare?
Perchè lui è stato il figlio di puttana che è stato? Che colpe ha avuto? Io lo avrei salvato, non lo avrei fatto
nascere, lo avrei fatto morire da bambino.....
Rifletti, giuggiolone,
e non ti crogiolare nelle frasi fatte.
ps
Gesù perlomeno era coerente, immaginati se il papa si comportasse secondo i suoi dettami, ne vedremmo delle belle!
DANIELA: Caro Loriano visto che ti fa piacere ricevere lettere riguardo a ciò che scrivi , avrei anche io un mio "punto di vista". Sono favorevole alle varie tecniche di meditazione che aiutano a contattare la nostra essenza più profonda, ma il disquisire su certe faccende "spirituali" mi sembra un deviante bisogno dell'ego/mente che ha tanta paura di essere destabilizzato . Se ci si lasciasse semplicemente andare al sentire....
Con affetto, Daniela
LORIANO: E perchè mai il sentire dovrebbe essere una garanzia, visto che è condizionato (inquinato) da ciò che vogliamo sentire?
DANIELA: la mente (che mente) con le sue paure tenta di impedirci di sentire la nostra essenza più profonda, ma se, magari con l'ausilio delle tecniche meditatve, riusciamo a distaccarcene per un attimo, in quell'attimo di abbandono possiamo sentire la Verità,non ti è mai successo?
LORIANO: sì, certo.
DANIELA: ...dunque "Dio" non fa di tutto per restare nascosto, la nostra mente limitata non può comprenderlo ma---si può "contattarlo" con qualcosa di immenso!!!
Hai notato che Gesù viene dipinto nel gesto di indicarsi il cuore?
LORIANO: Cara Daniela , la mia risposta alla tua domanda diceva di sì , nel senso che la mente concentrata può arrivare a livelli di intuizione notevoli (ma non sempre sicuri) . Il resto sono concetti mentali che la nostra mente opera a nostra consolazione. Certo, ognuno può mettere sull'esperienza i cappelli che vuole. io penso che sia meglio limitarsi all'esperienza e diffidare di queste concettualizzazioni.
Ciao
MAINATO: Caro Loriano,la via di mezzo è il tanden. Ognuno può guardarselo e bearsi mentre sta seduto. Il mondo fuori è terribile. Che male c'è?
LORIANO: Giusto
CLAUDIA SOLDATICH: (CON RISPOSTE DI Loriano nel testo in maiuscolo)
> Ho letto casualmente la sua news letter di settembre, concordo sul fatto
> che nulla esiste, come intrinsecamente esistente e stabile...non c'è nulla
> di stabile.
> Mi trovo a pensare..... liberarsi dai condizionamenti vorrebbe dire andare
> verso la libertà, ma penso a quanto sia difficile sfuggire ai
> condizionamenti! PIU' CHE GIUSTO!
> Affermare che nulla esiste come intrinsecamente esistente, mi riporta
> all'immagine dualistica (immagine probabilmente determinata da idee
> condizionate) del nulla contrapposto all'esistenza, come parlare di
> silenzio e di suoni, non si può parlare di suoni senza ammettere
> l'esistenza del silenzio, come di esistenza senza ammettere l'esitenza del
> nulla e viceversa.
ATTENZIONE. NON SI DICE CHE NULLA ESISTE. SI DICE CHE
OCCORRE EVITARE L'ESTREMISMO DEGLI ASSOLUTI (CIOE'
DELL'ESISTERE E DEL NON-ESISTERE) . SI USA UNA FORMA NEGATIVA:
LE COSE NE' ESISTONO NE' NON ESISTONO. SI DICE CHE NON
ESISTONO IN FORMA ASSOLUTA MA CERTAMENTE ESISTONO
IN FORMA RELATIVA. COME DICI GIUSTAMENTE, ESISTERE E
NON-ESISTERE SONO RECIPROCAMENTE DIPENDENTI.
> Mi sorge un pensiero: potrebbe invece l'essere, essere disposto come su di
> un continuum rispetto al nulla?
CREDO CHE ANCHE QUI SIA VALIDO IL DISCORSO PRECEDENTE.
STIAMO REIFICANDO QUESTI DUE CONCETTI DELL'ESISTERE E
DEL NON ESISTERE. E' UN'ANTICA TENDENZA UMANA
CHE VIENE DAL TIMORE DELL'ANNULLAMENTO. MA ESISTERE
E NON-ESISTERE NON ESISTONO IN FORMA ASSOLUTA
COME GIUSTAMENTE FACEVI NOTARE PRIMA NE' TANTO
MENO ESISTE UN CONTINUUM DI FRONTE A UN NULLA.
ESISTENZA E NON ESISTENZA SONO RECIPROCAMENTE
(CONCETTUALMENTE) DIPENDENTI.
L'esistenza sarebbe un continuo tendere al
> nulla o meglio "esistere sarebbe come de si-tuarsi da questa puntualità
> (l'impermanenza di cui lei parla), disporsi nel cammino dell'assenza, ove
> è possibile rinvenire un senso"...(Galimberti). Mi rendo anche conto che
> questa visione potrebbe nascere da un punto di vista che ha come
> riferimento il se', ma un sè instabile, in tensione. In questo momento di
> tensione verso il nulla, momento di espressione della "vitalità"
> dell'uomo, non potrebbe esservi la liberazione?
UN SE' INSTABILE, IMPERMANENTE, è CORRETTO.
TENSIONE VERSO IL NULLA E'
A MIO MODO DI VEDERE SBAGLIATO. ASSOLUTIZZA IL NULLA.
FORSE E' PIU' CORRETTO DIRE TENSIONE CONTINUA
FRA ESISTENTE E NON ESISTENTE. MA NEMMENO
QUESTO MI SEMBRA CORRETTO. REIFICA/ASSOLUTIZZA
QUESTI DUE CONCETTI, NE FA DELLE ENTITA'.
> Non so se sono stata comprensibile, subito la newsletter mi è apparsa
> molto chiara, ma in un secondo momento mi ha fatto sorgere tutta una serie
> di pensieri, in parte anche contraddittori, che ho sentito la necessità di
> comunicarle.
BELLO QUESTO. "SUBITO LA NEWSLETTER MI E' APPARSA MOLTO CHIARA" .
UN LAMPO INTUITIVO.
TI RINGRAZIO PER QUESTA LETTERA CHE MOSTRA UNA FORTE TENSIONE A CAPIRE....
mercoledì 19 settembre 2007
IL SILENZIO DI DIO, LA VACUITA’ DELLA METAFISICA
In questi giorni alcune persone hanno espresso la loro meraviglia perchè “io non credo a nulla” . In realtà questo non è esatto. Io sono profondamente religioso ma la mia religione potrebbe essere definita (come per il monaco Zen Dogen) un ‘realismo mistico’ .
E’ un atteggiamento religioso che parte dalla constatazione che viviamo in un mondo di concetti e parole e poiché tutto, anche la nostra mente, si esprime con concetti e parole, tutto è falsificabile e questo avviene perchè la nostra mente è condizionata dalle sue ‘predisposizioni’ (samskara ) , predisposizioni che ci vengono letteralmente inculcate fin dai primi giorni di vita e forse anche prima. Perciò tutti i concetti che diamo per scontati sono irrimediabilmente falsi o falsificabili e il mondo come lo vediamo è irrimediabilmente falso e illusorio. L’unico atteggiamento religioso che vedo possibile è quello di purificazione dalla concettualità: detto terra terra, di fare pulizia, di ripulire completamente la nostra stanza, lo scenario della nostra esperienza, dalle concettualizzazioni (che per farlo io usi concetti è una contraddizione più apparente che reale) .
Mi si accusa anche di usare la razionalità in un campo che non le sarebbe appropriato, quello della religiosità. In realtà sono esattamente gli appartenenti alle ‘religioni’ che tentano disperatamente di razionalizzare ciò che è irrazionalizzabile. Creano concetti e nomi per cose di cui dovremmo semplicemente tacere. Danno nomi a cose che non possono avere un nome, parlano di cose di cui semplicemente non si può dire nulla. Ad es. il fatto per cui c’è qualcosa invece che niente ha spinto questi ‘religiosi’ a dare le risposte più incredibili. Invece di tacere semplicemente su questo in quanto irrilevante per la nostra libertà, come fece ad es. il Buddha, hanno creato concetti su concetti (si veda ad es. il mito della creazione, come se qualcuno fosse stato là ad assistere), puntualmente smentiti dall’evoluzione dell’umanità. Parlano di amore divino, di un Dio personale, di una redenzione che sarebbe stata fatta da Gesù rispetto a un presunto ‘peccato originale’ e non riescono a vedere come la realtà, quello stesso reale che secondo loro sarebbe creato da un essere superiore, li smentisca.
Questo è apparente anche dal fatto che non uno solo dei loro concetti metafisico-religiosi può sopportare l’urto della ragione: un enorme castello di sabbia creato e alimentato da milioni di menti illuse, una costruzione che appare, per questo, talmente reale da essere divenuta parzialmente reale.
Ecco dunque, che la metafisica (la presunta scienza dell’oltre il mondo fisico) crea sostanza e significato. Crea sostanza stabile e assoluta [eterna quindi] (l’anima ad es., Dio ecc.) quando non si vede nel mondo nulla che non DIPENDA DA QUALCOS’ALTRO: questo mondo è dunque il mondo dell’instabilità e della dipendenza reciproca generale. Pretende di dare un senso alla storia quando questo non è riscontrabile; si veda ad es. il concetto della salvazione umana da parte di Gesù. Se questo è avvenuto, come sono stati possibili i campi di sterminio dove MILIONI di persone sono state torturate e annientate? In cosa si verifica, in cosa si realizzerebbe questa salvezza? (Questo, per inciso, è stato il punto di angoscia di molti mistici cristiani contemporanei, risolto con vari espedienti mentali e autoconsolatori) .
Il mondo è in effetti quello che è. E basta. Questo è il senso indicibile e allo stesso tempo meraviglioso. La realtà ultima è questa stanza dove scrivo, è la tastiera su cui scrivo, è la testa che mi ritrovo. Non se ne vedono altre. Forse esisteranno altre dimensioni dello spirito ma certamente anch’esse faranno parte del nostro universo. Se vogliono avere capacità di espressione dovranno basarsi ad es. su vari tipi di corporeità. Ma questo implica dipendenza, dipendere da.
So che qualcuno mi dirà: ma perché critichi la credenza in queste cose? La mia risposta è che viviamo in un mondo interconnesso dove quello che fa un altro o quello che faccio io interessano tutti. Tutti siamo reciprocamente dipendenti. E’ un fatto, questo sì accertato, che in questo mondo la sofferenza esiste. Esistono sofferenza fisica e mentale. Quest’ultima a volte è talmente potente da portare alla depressione, al suicidio ecc.; perciò non mi si dica che scrivere queste cose è ininfluente (naturalmente per chi ha voglia di leggerle e soprattutto di usarle come riflessione) . Nonostante quello che i ‘religiosi’ pensano, la metafisica, le costruzioni concettuali, costituiscono una fonte di ignoranza tale da FAR SOFFRIRE le persone. Essendo basate su forme di desiderio (ad es. il desiderio di Dio), queste forme concettuali creano una forte sofferenza quando si urtano contro una realtà di vacuità e di assenza. Questa stessa realtà di vacuità e assenza potrebbe essere la base della loro libertà. Poiché invece queste persone sono fortemente attaccate alle illusioni che hanno accettato acriticamente, cadono in quella cosìddetta buia notte dell’anima di cui molti parlano.
Da ‘La Nazione’ , Domenica 26 Agosto 2007:
A pochi anni dal decimo anniversario della morte, sono comparse alcune lettere, scritte di pugno da Madre Teresa di Calcutta che rivelano un’incredibile e sconcertante crisi di fede che la suora, beatificata nel 2003, avrebbe sofferto per più di 40 anni....Nelle lettere rivela come da Dio si è sentita abbandonata, fin dall’inizio delle sue grandi opere di carità, che pure la portarono al Premio Nobel per la pace nel 1979, oltre a una beatificazione record dopo la sua morte nel 1997, a 87 anni.
Poco dopo aver cominciato i suoi primi lavori missionari a Calcutta, nel 1948, la suora - nata a Skopje da genitori albanesi - scrive:Dov’è la mia fede? Anche dentro nel mio più profondo non c’è che vuoto e oscurità. Se c’è Dio per favore, aiutatemi” .
In un’altra occasione la beata scrive:
“ Sento solo un fortissimo dolore per aver perduto, per non essere voluta da Dio, per Dio che non è Dio, per Dio che non esiste veramente” :
In un’altra lettera, Madre Teresa parla di come il suo sorriso solare non è altro, per lei, che “ una maschera” , “ un velo”, che cela la sua voragine di fede, e si dà addirittura dell’”ipocrita” :
“ Il sorriso è una maschera, un mantello che copre tutto" - scrive la suora - "Ho parlato come se il mio stesso cuore fosse innamorato di Dio, pieno di un amore tenero e personale. Se tu fossi stato lì, avresti detto: “ Che ipocrita!”.
La lettera, come diverse altre, è indirizzata al suo amico e confessore spirituale, don Michael Van Der Peet, a cui Madre Teresa scrive anche:
“ Gesù porta un amore speciale per te. Per me, invece, il silenzio e il vuoto sono così enormi che io guardo e non vedo, ascolto ma non sento. La lingua si muove (in preghiera) ma non parla”...
Una volta, quando le fu chiesto da dove traesse la sua straordinaria forza morale, Madre Teresa aveva risposto:
“ E’ semplice: prego. Attraverso la preghiera divento una cosa sola nell’amore di Cristo. PregarLo è amarLo” .
Ma dentro, nel profondo della sua anima, la suora soffriva e combatteva per riconquistare una fede messa a dura prova dagli orrori quotidiani che la circondavano, come dimostrano queste straordinarie lettere che Madre Teresa, in realtà, voleva fossero distrutte.
“ Per che cosa mi tormento?” si chiede la futura beata in uno scritto del 1956. “ Se non c’è alcun Dio - è la sua disarmante risposta - non c’è neppure l’anima e allora anche tu, Gesù, non sei vero” .Quasi un atto d’accusa sancito da un’altra struggente confessione:
“ Io non ho alcuna fede, nessun amore, nessuno zelo” .
(Da Repubblica, stesso giorno).
Meditazione ogni sabato a S. Andrea di Compito, via della Torre n. 9, dalle ore 15,30 alle 16,10 circa con un seguito di condivisione. La partecipazione è libera e gratuita. Tel. 0583977051
La morte all'orizzonte
Che cosa proviamo in proposito?Sgomento? Timore? Speranza in un mondo oltre? Speranza di rinascere? L’oblio?
Sono tutte concezioni mentali, inclusa la morte stessa. C’è davvero un confine tra la vita e la morte o moriamo e rinasciamo ad ogni istante senza accorgercene? Mi viene in mente la storiella raccontata da Anthony de Mello (in Messaggio per un’Aquila che si crede un pollo, p.143) : “Per es. io sono Indiano. Ora, supponiamo che io sia prigioniero di guerra in Pakistan e i Pakistani mi dicano: ‘ Bene, oggi ti porteremo alla frontiera per farti dare un’occhiata al tuo paese’ . Così mi portano alla frontiera, io guardo al di là del confine e penso: ‘Oh, il mio paese, il mio magnifico paese. Vedo dei villaggi, degli alberi, delle colline. Questo è il mio paese natale!’ Dopo un po’ una delle guardie mi dice: ‘ Scusa, abbiamo fatto un errore. Dobbiamo spostarci di altre dieci miglia” –
Dunque, conclude De Mello, a cosa stavo reagendo? A un nome. “ In effetti non esistono né confini né frontiere.: sono stati posti in essere dalla mente umana” . Per inciso si sente che De Mello ha praticato Vipassana (con Goenka) e per questo la Chiesa ufficiale lo guarda un po’ di traverso, così come faceva verso il 1300 verso Meister Eckhart – che si scampò il rogo solo per la fortuna di essere morto prima.
Tornando alle concezioni sulla vita e sulla morte… perché stabilire questo confine? Non c’è nessuna separazione fra esse. Il nostro essere che ci sembra così stabile è teatro di un continuo rimpiazzarsi di cellule che muoiono e vengono sostituite da altre. Siamo dunque gli stessi di dieci anni fa? Né gli stessi né differenti. Siamo un fluire di avvenimenti fisici e mentali che in miliardi di anni è riuscito ad autoorganizzarsi in relazione ad un fluire di altri innumerevoli fenomeni che formano l’ambiente intorno a noi. Le cose interagiscono.
Certo che dal punto di vista relativo di questo essere la morte “esiste”: questo aggregato di aggregati psico-fisici verrà un giorno o l’altro a finire. Ma mentre da un punto di vista relativo il “passare via” esiste, dal punto di vista della realtà assoluta non esiste niente del genere e tanto meno un confine tra vita e morte. Se le cose avessero sostanza stabile non ci sarebbe un confine tra un fenomeno chiamato vivere e un fenomeno chiamato morire. Tutto vivrebbe e basta e tutto sarebbe ovviamente immobile. Se le cose invece non hanno sostanza stabile, ugualmente e proprio per questo non si può stabilire un simile confine. Non in senso ultimo per lo meno: si tratta solo di una modificazione da un modo di essere fenomenico in un altro. Si dirà che questi sono sofismi intellettuali. E’ vero. Ma forse non regoliamo la nostra vita in base alle nostre concezioni mentali? Si veda la storiella sopra citata del confine.
Chi pratica la visione profonda si sposta continuamente fra i due livelli di verità, quella assoluta e quella relativa. Gli Illuminati parlano normalmente dal livello di realtà assoluta. Per quello le risposte degli antichi maestri Zen, i famosi koan , erano incomprensibili. Essi o parlavano dal livello di realtà ultima o tentavano di trasportarvi a quel livello. In entrambi i casi quello che dicevano appariva privo di senso alla mente comune. Questo perché ci basiamo su concetti e parole. Si può sentire dire a volte che il nostro è un mondo basato sulla mente ma occorrerebbe aggiungere che è anche un mondo organizzato dalla parola. Questo è molto profondo se ci si riflette. Sembra una banalità ma è molto, molto profondo.
Così, tornando alla “morte all’orizzonte”, non c’è realmente nulla del genere. Quello che c’è davvero è solo un concetto, dettato da consapevolezze e attaccamenti.
Mescolando i due livelli (assoluto e relativo) , in questo territorio di mezzo che è il ‘mio’ vivere, devo dire che non sento paura del fenomeno ‘morire’. L’idea che ho di me stesso e degli altri è simile a quella di un fiore. Un fiore sorge la mattina e forse già a sera appassisce e muore. E’ un fenomeno. Ci si lamenta della morte di un fiore? Ci può dispiacere un po’ ma la vita continua indifferente. Anche noi siamo fenomeni , complessi ma sia pure fenomeni. Nel quadro della vita la nostra comparsa, durata e scomparsa è altrettanto importante e preziosa quanto quella di un fiore e altrettanto poco importante.
Lo stesso vale per le persone care. E’ nella natura di questo fenomeno complesso che chiamiamo essere umano (o animale) provare sentimenti di attaccamento e quindi di conseguenza amore e dolore. Possiamo provarli del tutto intensamente ma se riusciamo a staccarci, a porci come osservatori, a pensare al paragone del fiore, potremo avere un senso di quello che accade, a cogliere la relatività anche del nostro dolore. In sostanza e ancora una volta, dobbiamo ACCETTARE, anche perché è questa la realtà e non ci possiamo fare nulla. Possiamo trovare conforto nei vari concetti che la mente umana ci ha posto a disposizione nei secoli ma sono solo concetti. “ Caro Belluomini” mi disse il Direttore Didattico di Camaiore quando spiegai che non intendevo insegnare anche Religione, “ la Religione è una grande consolazione!” . Appunto. Nei secoli l’uomo ha sviluppato tanti modi di consolarsi, di provare meno terrore o meno dolore. Ma hanno a che fare con la verità? Ognuno risponda come crede.
Occorre accettare il dolore, la perdita, la sofferenza come naturali, intrinseci alla nostra realtà. Nessuno può sfuggirvi, nemmeno i ricchi (“Anche i ricchi piangono”, titolo significativo di una vecchia serie televisiva) . Il Buddha, l’Illuminato, enumerò questa come la prima verità.
domenica 19 agosto 2007
La forza della gentilezza
Pratichiamo la meditazione della gentilezza amorevole. Arrivati alla fine, dopo avere cioè irradiato in ogni direzione e verso tutti gli esseri, buoni e cattivi, riconoscendo in questi estremizzazioni delle nostre stesse tendenze ( e mettendo anche tra questi i “cattivoni” del momento, come Bin Laden, Al Zarkawi ma anche i vari George Bush e altri) , prende la parola Marc., una persona estremamente buona e piena di buon senso pratico e dice che non gli sembra di vedere cambiamenti nel mondo intorno a noi, che anzi sembra che le cose peggiorino sempre di più.
Questa affermazione viene fatta ogni tanto e da varie persone. In effetti è così o per lo meno sembra così. Certo se noi ci aspettassimo cambiamenti macroscopici, rimarremmo probabilmente delusi. Ma i cambiamenti dovuti alla gentilezza amorevole (mettaa, maitri ) non si rivelano in forme così apparenti. Si tratta piuttosto di cambiamenti poco visibili ma sottilmente occorrenti, di una trasformazione a macchia d’olio che avviene piano piano. E certamente essa è anche reversibile. Se non è associata alla consapevolezza e alla visione profonda, la gentilezza amorevole si disintegrerà al primo urto con la realtà. Ed è questa la grande lezione: la realtà è quello che è, noi possiamo in qualche misura modificarla ma in sostanza resta quello che è. Questo potrebbe apparire conme deludente ma in realtà è appunto una grande lezione di visione profonda.
La Gentilezza Amorevole è considerata una delle quattro “Sedi divine” o Brahmavihaara . Si ritiene che chi risiede costantemente in questa pratica meditativa abbia una rinascita come divinità. Secondo alcuni studiosi del Buddhismo antico- come Richard Gombrich e me stesso-
essa era, in realtà, una delle vie alla Liberazione. Poiché essa era una pratica effettuata anche da altre scuole venne svalutata come insufficiente, ma in realtà il Buddha ne parlava continuiamente, elogiandola, e facendo vedere come essa aveva dei culmini che nelle altre scuole non apparivano.
Se noi osserviamo la pratica della Gentilezza Amorevole, vediamo infatti che essa porta inevitabilmente ad ulteriori sviluppi e cioè verso le sue due consorelle, la Compassione e la Gioia altruistica e sfocia, in ultimo, nella pratica che trascende tutte tre e cioè in upekkhaa, l’equanimità . Perché dico questo? Perché noi pratichiamo ad es. la gentilezza amorevole verso certi soggetti ma vediamo poi che questi soggetti non cambiano. Che cosa facciamo? Ci arrbbiamo e smettiamo questa pratica? No, evidentemente. Il fatto è che la visione profonda e questa stessa osservazione del non-cambiamento o dello scarso cambiamento dei soggetti in questione, ci fanno vedere che le forze all’opera nel mondo sono quelle che sono e producono i risultati che producono. E questa è appunto la visione profonda. La visione profonda produce accettazione. L’accettazione è appunto l’equanimità. Che cos’è l’equanimità, parola abbastanza sconosciuta al nostro vocabolario? E’ appunto l’accettazione del destinno degli esseri, accettazione che non è indifferenza perché è proprio come la parte superiore (trascendente) di un tavolino a tre gambe: le tre gambe sono appunto la gentilezza amorevole, la compassione e la gioia altruistica. Se non vi fossero le tre gambe il sopra del tavolino potrebbe essere un semplice cerchio –non sarebbe più un tavolino. Allo stesso modo l’equanimità, senza le tre gambe di gentilezza, compassione e gioia non sarebbe più equanimità ma sarebbe indifferenza – e l’indifferenza può facilmente trasformarsi in qualcosa di peggiore.
Sia chiaro che l’equanimità è indifferenza, ma si tratta di un’indifferenza illuminata che ha come scenario alle sue spalle i colori della gentilezza ecc. . Di che tipo di indifferenza si tratta allora: è l’indifferenza illuminata dalla visione profonda: “ Benché io auguri a tutti gli esseri salute, felicità e liberazione, vedo bene che le forze all’opera sono tali per cui gli esseri vanno per la loro strada raccogliendo il frutto delle proprie azioni, essendo figli delle proprie azioni (questo è il karma). Perciò, se non voglio sviluppare ulteriore negatività in me e negli altri, devo accettare-con profonda compassione- che ciascuno vada per la sua strada e raccolga i propri frutti”.
Non a caso l’equanimità è il settimo e massimo/finale fattore del risveglio o illuminazione. L’equanimità è il Santo, il Liberato. Sfiora questo mondo e vi partecipa ma non ne è sostanzialmente toccato.
Uno dei maggiori crucci delle persone che praticano con convinzione è quello di non riuscire a coinvolgere i propri cari nella pratica. Un controllo sulla propria equanimità è proprio qui, nella misura in cui accettiamo, con distacco, senza sofferenza, che i nostri cari non condividano questa esperienza di liberazione dal dolore. Un altro controllo è se l’apparente assenza di risultati nella pratica ci porti delusione Si può praticare solo per praticare? Questo è un altro passo nella visione profonda: uno degli anelli della visione profonda è l’osservazione dell’afferramento, della funzione di afferrare. Non è già un grande passo avanti allora questo praticare senza nulla ottenere?
Tuttavia (a consolazione di noi afferratori) qualche cosa otteniamo dalla pratica: il cambiamento dello scenario della nostra vita, una vita migliore e più luminosa ed anche, impercettibilmente, il cambiamento, in meglio, delle persone a noi vicine. E questo è dovuto alla pratica della gentilezza amorevole e dell’equanimità insieme. Pensiamo al nostro posto di lavoro, alle nostre relazioni….
E tuttavia è debole l’appello all’amore come è fatto in certe tradizioni religiose se non è sostanziato dalla visione profonda. Solo la visione profonda può fornire gambe efficaci all’amore. In sua mancanza si tratta solo di un appello moralistico che cede facilmente il passo allo scontro, all’avversione e perfino alla guerra santa, piccola o grande che sia . Tutte le religioni che si combattono oggi parlano di amore…ed arrivano ad usare le armi per imporre il loro tipo di amore.
Tutti noi abbiamo nemici, persone che non ci hanno in simpatia o persone verso cui sentiamo una certa assenza di simpatia. Mettiamole al centro della nostra pratica pur senza aspettarci che cambino. E possiamo anche arrabbiarci, quando necessario (poiché viviamo nel mondo, con le sue regole e necessità) . Ma facciamolo spassionatamente (se solo questo ci appaia possibile) o comunque osserviamoci mentre ci arrabbiamo. Come un genitore o un maestro fanno verso i bambini. Io talvolta mi arrabbio con qualche bambino ma è una rabbia breve, di ruolo. Quello che l’altro deve sentire è che noi fondamentalmente siamo con lui, che noi ci riconosciamo in lui, che noi l’accogliamo con noi.
giovedì 19 luglio 2007
Una lettera...
Come stai? Qui tutto ok....finalmente posso dirlo senza riserve!
Senti ti scrivo per porti una domanda che mi è stata posta per e-mail ma a
cui non mi sento in grado di rispondere....se tu hai qualche osservazione
da fare a proposito, sarò felice di inoltrare alla persona interessata la tua
e-mail. Grazie Nicola
> -------------------------------------
> Volevo chiederti questo: nel libro di Thich Nhat Hanh "La vita di
> Siddhartha il Buddha" alla fine del capitolo 26 il re Kassapa chiese al
> Buddha "Se non c'è il sè perchè dovremmo seguire un sentiero spirituale
per
> ottenere la liberazione? Chi si libera?".
> Non sono riuscito a capire la risposta che si trovava nel capitolo
seguente,
> puoi spiegarmelo in parole semplici?
> Cioè cosa succede dopo la morte fisica?
> Grazie per il tempo che vorrai dedicarmi e perdonami per il tempo che ti
> faccio perdere.
Risposta: Noi siamo talmente radicati nella credenza di un sé stabile e reale da non
riuscire a concepire che possano esistere solo processi, pure è questa la
realtà ultima, solo processi. Dura da digerire,eh?
Questi processi creano però sofferenza per cui si dice che esiste la
sofferenza ma non colui che soffre. Naturalmente questa affermazione non va
presa alla lettera ma considerata da due livelli di realtà. Nella realtà
"normale" esistono aggregati asssai complessi che sono condizioni per il
sorgere di coscienza. Dove sorge la coscienza vi è certo posto per tutte le
sensazioni inclusa la sofferenza fisica. Se tocchi un tessuto vivo, questo
si ritrae. Questo avviene perché esiste la coscienza tattile di quel
tessuto. Più difficile è capire come possa esistere la sofferenza mentale.
Qui si arriva a risulrtati eccelsi, cioè l'aggregato della coscienza è
talmente complesso da far sorgere una sofferenza puramente mentale!
A livello di realtà ultima non possiamo dire che esista un sé finale come
postulato invece da tutte le religioni (eccetto il Buddhismo). L'esempio dei
sei tipi di coscienza: togli la coscienza tattile, quella del gusto,
dell'odorato, della vista, dell'udito e quella degli oggetti mentali (che è
anch'essa un tipo di coscienza avente come base fisica il cervello)... che
cosa resterà? Un bel nulla perchè se togliamo tutte le condizioni
sensoriali/fisiche non vi è base reale per una coscienza... naturalmente
possono (possono) esistere corpi di materia più sottile ma siamo ancora
quindi nei dati fisici....
Perciò la coscienza si sviluppa dove vi sono le condizioni fisiche perchè
esista. Pur esistendo in forma transitoria e mutante, da un punto di vista convenzionale non si può dire che non esista, così come non si può dire che non esiste la neve perché in ultimo si scioglie e diventa acqua (che poi non è nemmeno “acqua” ma molecole le quali a loro volta non sono che atomi i quali a loro volta…ecc.) .Riguardo al sé: non è dato rintracciare un sé stabile : anche convenzionalmente né esiste né non esiste, la realtà come la percepiamo convenzionalmente sta nel mezzo e quella ed è difficile da cogliere e tantomeno da accettare. Pure questo sé/non-sé è capace di sviluppare sofferenza ed ha
un'immagine propria assaI consistente e duratura ed è proprio questa immagine
che lo fa soffrire. Ho fatto un esempio nell'ultima mia newsletter: è come
un film, sai che è irreale ma ti fa soffrire... e vedi i personaggi del film
che gioiscono, soffrono ecc.
Non credo di poter essere molto soddsfacente in queste righe che dette così
sono astratte. Razionalmente si può arrivare a una certa comprensione del
problema (c'è anche chi si rifiuta, per la verità) ma è solo la realizzazione
meditativa che può permettere di arrivare a vedere le cose come sono, cioè
come processi.
Perciò la domanda che viene posta in questa lettera, pur naturale, andrebbe
riformulata. Il Buddha per esempio non ha mai detto che avrebbe dato una
risposta a questo tipo di domanda. A quanto si racconta, vedendo la
difficoltà dell'impresa per gli umani di comprendere la verità insita nel
suo risveglio, all'inizio non aveva affatto intenzione di insegnarla. Però
vedendo che nel mondo vi erano persone in grado di cogliere questa verità
(anche se non molte) si dedicò all'insegnamento. Il contenuto del suo
messaggio non è in termini sostanziali. Non dice: "Io vi parlerò di un sé
diverso da quello a cui fate riferimento, vi parlerò di una realtà ultima,
vi parlerò di chi esiste dopo la morte..." ; egli disse soltanto: "Io
insegno che esiste la sofferenza -leggi la condizione umana- e che esiste
una sua origine, una sua fine e un modo per arrivare alla sua fine" . Solo
questo ha detto il Buddha, come un dottore che di fronte a una ferita da
freccia non si pone il problema di chi l'ha scagliata e di quale fine farà
la freccia una volta estratta ma si pone il problema di curare e guarire la
sofferenza della ferita.
La domanda , dicevo, così come è posta è sbagliata. Fa riferimento a una
sostanzialità che in termini ultimi non esiste. Fose andrebbe posta così:
"Come far cessare la sofferenza esistenziale" con un corollario: " non sarà
questa credenza in un io/ mio sostanziale che mi fa soffrire?". Ma questo è
difficile. Un caro saluto.
Conoscenza impersonale = conoscenza che libera
'Qui, amico, riguardo a cose viste sentite o concepite:
All'interno del visto vi sia solamente il visto..
All'interno dei sentito vi sia solamente il sentito..
All'interno del percepito vi sia solamente il percepito
All'interno dei concepito vi sia solamente il concepito
Quando tu, amico considererai il visto come semplice vedere,
considererai il sentito come semplicemente udire,
considererai il percepito come semplicemente percepire,
considererai il concepito come solamente concezione,
allora, amico, tu non sarai o esisterai “per mezzo di quello”...
Quando non essendo 'da quello', tu non sarai ‘in quello’...
Quando non essendo ‘in quello’, tu non sarai né 'qui' né
'là', né 'oltre' né 'in mezzo'...
Questo sarà la fine della sofferenza... '
( Samyutta Nikaya IV 73)
Commenti:
La liberazione è concepita solamente nel divenire liberi dalla concezione di un sé, di un ego, di un’”anima” stabile. E’ solo quando si riesce ad essere tutt’uno con il flusso impersonale dei fenomeni, quando cioè si vedono il visto, il sentito, il percepito e l’atto di conoscere stesso come azioni e non come “cose” che si può percepire la liberazione dall’ego e dalla falsa idea di un sé stabile. Qualcuno ha fatto l’immagine di una foto del cosmo presa da un radio telescopio: c’è la visione ripresa ma non c’è colui che scatta la foto. (Only the directly observed experience itself is granted transient existence. One cannot conclude that anysubject or 'Me' is created, just because there is an object projected!Exactly like one cannot conclude that any photographer exists, just because a photo is taken [ex. a space-telescope is without any Ego!] ) . Le frasi un po’ oscure “ tu non sarai o esisterai a causa di quello”, in “quello “ ecc., stanno appunto ad indicare che proprio cogliere i processi come processi porta ad essere liberi dalla concezione di un sé e dalla perpetuazione di questa idea.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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