mercoledì 19 aprile 2006

Sorriso interiore, silenzio, trasformazione

Ogni tanto faccio una news sul sorriso interiore. Non mi stancherò di farlo poichè do grande importanza a questa pratica che è una pratica essenzialmente di trasformazione. Ne ho già parlato approfonditamente in "Visualizzati come una Divinità".


Perché tanta importanza a questa pratica di tipo Samatha?


In una pratica che tendenzialmente svalorizza ogni cosa come è quella della meditazione Madhyamika (una pratica basata audacemente sulla vacuità / assenza di sostanza intrinseca di tutti i fenomeni e DI TUTTI I CONCETTI) c'è il rischio di una perdita di motivazione da parte di persone non ancora troppo saldamente installate in un'assenza che è positiva, liberante (in quanto, detto brutalmente, sbaracca ogni tipo di concetto creando quindi uno spazio vuoto che è appunto LIBERAZIONE DELLA MENTE) ma che alla persona media può apparire semplicemente demotivante.



Fin da quando nasciamo siamo abituati ad afferrare, COSE, ESPERIENZE E CONCETTI . Questo è semplicemente quello che poi diventa la nostra "personalità" che è quindi basata sull'afferramento e si evolve intorno al dualismo di piacevole e spiacevole. Anche nella pratica ‘spirituale' della maggioranza delle persone è presente questo afferrare, sia consapevole (si prega spesso per OTTENERE) che inconsapevole, inconscio. Perciò, se tutto viene svalorizzato, se di ogni cosa viene colta la relatività (ebbene, sì, siamo assolutamente per il Relativismo culturale), chi ce lo fa fare di applicarci ad una pratica che tutto sommato qualche fatica e qualche sforzo comporta? Che ce ne può importare di una pratica che non promette di arricchirci, di confermarci nelle nostre idee e nella nostra "personalità", di renderci più brillanti
ma al contrario porta in qualche senso a impoverirci, a lasciare la presa anche sulle nostre più care ossessioni? Ricordo a questo proposito che quando iniziai a meditare la frase che più mi colpì fu appunto "liberarsi dalle ossessioni". In un lampo vidi sì le ossessioni più grandi (desiderio, culto della propria personalità, avversione) ma con sgomento e - si noti - con uno stupefatto interesse improvviso mi accorsi che questo riguardava anche le mie ossessioni più dolci: i miei hobby, i miei interessi, i miei piccoli piaceri quotidiani. In seguito aggiunsi a questa lista anche le mie idee: sulla politica, sulla religione e in seguito anche sul Buddhismo quando inteso come una religione formalizzata. Allora avevo una visione più drammatica e severa di quella che doveva essere la mia pratica. Adesso accetto di più di essere quello che sono anche se vedo, direi chiaramente, quello che mi muove. Nè giustifico né reprimo. Mi affido a una costante evoluzione.

In ogni caso lo scoglio di cui sopra lo vedo, talvolta in me, talvolta negli altri. Viene mascherato in varie maniere ma esiste. Per questo secondo me va sciolto un nodo che riguarda la nostra posizione rispetto alla pratica. Siamo qui per ottenere una realizzazione spirituale che verrà (un giorno, forse, per qualcuno con la credenza nel Paradiso, per altri con il Nirvana) o non è forse che la realizzazione spirituale è già qui ed ora? In questo la scoperta di pensatori e mistici come Nagarjuna ("Qualunque sia il limite del Nirvana quello è il limite dell'esistenza ciclica.
Non c'è nemmeno la più lieve differenza fra loro, o la cosa più sottile" ) o Dogen mi ha chiaramente confermato in questa idea e dato una nuova spinta propulsiva.

Perciò è importante la motivazione con cui cominciamo la pratica, specialmente quella seduta. Dovremmo considerare che già il fatto di acquietarsi un momento mettendosi a sedere (una cosa che quasi nessun altro fa) ci pone in una condizione speciale. Abbiamo capito qualcosa. Se arriviamo a vedere dentro di noi con la pratica dell'introspezione (insight, sati>vipassana ) , a vedere chiaramente le nostre motivazioni, ciò che ci muove, a vedere che è l'afferramento che ci muove anche quando lo mascheriamo con motivazioni varie e a lasciarlo andare, bene, credo che abbiamo capito qualcos'altro. Forse siamo già a quella saggezza di cui si sente parlare ma che reputiamo sempre "qualcosa di differente" . Se poi in base a questa visione arriviamo ad "accettare" , direi che siamo nella saggezza della visione interiore. Possiamo allora sviluppare un ‘giusto orgoglio' che si riverberi non contro altri come è tipico dell'orgoglio egoistico ma che illumini il nostro interno.


C'è una pratica antica nel Buddhismo, sollecitata fortemente dal Buddha, che è quella dei Brahma-vihara o "Residenze divine" : risiedere nella gentilezza amorevole, nella compassione, nella gioia altruistica e nell'equanimità. Secondo il Buddhismo praticando intensamente queste qualità si ha una rinascita come divinità. Ma al di là di concetti come la rinascita (vi si può credere o no) si può già essere una divinità qui ed ora. E come ve la raffigurate una divinità? Arcigna e tesa? O non piuttosto sorridente e rilassata? Esclusiva e gelosa come il Dio cristiano o non piuttosto inclusiva e aperta?


Perciò iniziamo ogni nostra seduta di meditazione con questa consapevolezza. Siamo esseri speciali (speciali perché prima di tutto sappiamo di non essere nulla), abbiamo la conoscenza di come le cose vengono in essere e proviamo amore e compassione - proprio in base a questo vedere - verso tutti gli esseri. Per questo sorridiamo. Sorridiamo al mondo, sorridiamo agli esseri, irradiamo una chiara tranquillità. Siamo dei. O Buddha, illuminati. L'Illuminazione è già qui. Vedere con chiarezza i processi che creano il nostro mondo non è illuminazione?


E che fa un Buddha? Sorride lievememente, calmo, rilassato, accettante.


Perciò occorre portare questa consapevolezza all'inizio di ogni nostra seduta, essere consci di questo processo di trasformazione che ci rende ‘speciali'; occorre, sorridendo lievemente, magari concentrandoci sul contatto delle labbra, espandere la nostra consapevolezza fuori da noi. Anzi, da subito, non vi devono essere un fuori e un dentro (ancora un dualismo) ma solo spazio: uno spazio dove avvengono fatti come rumori, sensazioni fisiche, pensieri....


C'è anche una sequenza fisica che a volte possiamo praticare, una sorta di brevissimo Taiji meditativo: effettuare alcuni gesti o mudra mentre abbiamo il sorriso sulle labbra e dentro di noi la consapevolezza di essere già qui e ora realizzati. Una consapevolezza che deve irradiare dagli occhi. Questa sequenza io la metto sempre in fondo ad una serie di esercizi nel Taijiquan o nel Kungfu. Mi piacerebbe che qualcuno mi chiedesse il significato di questi gesti, cosa che quasi mai avviene. La risposta sarebbe che mentre essi possono in effetti richiamare qualche significato, in realtà non ne hanno nessuno. Sono gesti di una divinità o di un essere realizzato che non ha scopo. Perché uno scopo è al di là , anzi al di qua, di un essere realizzato, presuppone un afferrare in base ai soliti dualismi.


Cominciai a praticare questa breve sequenza verso il 1999-2000, quando i miei genitori stavano male. Ogni pomeriggio mi prendevo una pausa di un'ora e andavo nel Rio (qui chiamiamo così il nostro torrentello Visona) . Praticai questi gesti e mi accorsi di come essi, uniti al sorriso, chiudevano il pensare. C'era un senso di bella pienezza e vuotezza allo stesso tempo. Ciò mi fece pensare e passai ad apprezzarli.


Saper sorridere ci porta ad illuminare anche gli altri con il nostro sorriso. Riportare la nostra divinità nella vita di tutti i giorni.


Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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