martedì 19 giugno 2007

MISTICISMO: MEISTER ECKHART - 2

(Dall'antologia di Meister Eckhart, La Via del Distacco, p.54)
Eckhart è un Cristiano e il suo orizzonte resta pienamente quello cristiano; né poteva essere diversamente, visto che a quel tempo in Europa non erano certo conosciuti né il Buddhismo né l'Induismo; inoltre professare altro che non fosse il Cristianesimo da parte di chi già era Cristiano poteva essere molto, molto rischioso; Eckhart stesso era sulla via per recarsi ad essere giudicato per eresia quando una morte provvidenziale lo sottrasse a cose assai spiacevoli. Anche nei suoi sermoni a volte egli pone un ‘cappello' cristiano su affermazioni che suonano più, diciamo, come buddhiste o vedanta (una tradizione induista) e che probabilmente provengono dal Neo-Platonismo . Non sappiamo se egli avesse avuto esperienze contemplative e a quale livello: diamo come possibilità che le avesse avute anche se egli non sembra parlare mai di se stesso (in questo c'è un parallelo con Sengzhao, un monaco buddhista cinese di tradizione Sanlun o Madhyamika che ha scritto cose interessanti ma di cui non si sa se ne avesse esperienza diretta) . Ad ogni modo, pur tenendo presente la cornice cristiana in cui vengono collocati i suoi discorsi, le sue affermazioni sono davvero notevoli. Già quella riportata più sopra, "Dio è negazione della negazione" riporta alla concezione che la Realtà ultima è /sono "le cose come sono", cioè Dio è negazione della realtà convenzionale ma è contemporaneamente negazione di questa negazione: le due verità di cui parla il Buddhismo madhyamika. E' interessante come Eckhart usi poi una tecnica usata in epoca moderna dai Situazionisti, quella del DETOURNEMENT , cioè lo stravolgimento delle forme tradizionali di comunicazione. Ad es. gli Atti degli Apostoli (sono andato a cercare il passo) dicono che quando Saulo di Tarso ebbe la sua visione sulla via di Damasco " si alzò da terra e aperti gli occhi, non poteva vedere nulla" (Atti, 9.8 ) . Eckhart invece scrive (Vannini, opera citata, p. 80) : " 193 / Quando Paolo fu avvolto dalla luce e gettato a terra, i suoi occhi si aprirono, in modo tale che VIDE TUTTE LE COSE COME UN NULLA. E QUANDO VIDE TUTTE LE COSE COME UN NULLA, ALLORA VIDE DIO" .

Sempre citando da Vannini (spero che non mi faccia causa ma che anzi sia lieto del mio apprezzamento verso la sua opera) , riporto qui i passi che mi sembrano più interessanti, nel senso che vanno in una direzione che, pur con i suoi limiti (limiti di ‘cappello ideologico' ) pure almeno parzialmente portano un appello a de-concettualizzare. Inoltre sono evidenti riscontri alla vacuità, cioè alla mancanza di sostanza intrinseca degli esseri e all'assenza di motivazioni nell'azione della Divinità (ma non di Dio) .Credo sia utile che parli Eckhart stesso. I passi sono numerati secondo Vannini.

1 / Il tempio in cui Dio vuole regnare da signore secondo la sua volontà è l'anima umana, che egli ha fatto perfettamente simile a sé. Perciò Dio vuole che questo tempio sia vuoto, perché all'interno non vi sia che lui solo.

7 / Dio è un permanere nella purezza della propria essenza, NELLA QUALE NON VI SONO ATTRIBUTI. Deve andarsene tutto ciò che è contingente. Egli è un puro dimorare in se stesso, dove non c'è il questo e il quello: infatti quel che è in Dio è Dio.

12 / Tutte le creature sono un puro nulla. Non dico che valgono poco o che siano qualcosa: sono un puro nulla. Quel che non ha essere, è nulla. Le creature non hanno essere, perché il loro essere dipende dalla presenza di Dio: se Dio si allontanasse un istante, le creature sarebbero annientate.

27 / Chi pensa di ricevere Dio nella interiorità, nella devozione, in un dolce rapimento o in una grazia particolare più che presso il focolare o nella stalla, non fa altro che prendere Dio, avvolgergli un mantello intorno al capo e cacciarlo sotto una panca. Perché chi cerca Dio secondo un modo, prende il modo e perde Dio, che nel modo è nascosto. Ma chi cerca Dio senza modo, lo prende come è in se stesso; vive nel Figlio ed è la vita stessa.

28 / Se si interrogasse per mille anni la vita, chiedendole perché vive, ed essa potesse rispondere, non direbbe altro che: " Io vivo perché vivo" . Questo perché la vita vive dal suo fondo proprio, e fluisce dal suo essere proprio; perciò vive senza perché, poiché vive per se stessa.

Se si domandasse a un uomo vero, che opera dal suo fondo proprio, perché compie le sue opere, questi, per rispondere giustamente, non direbbe altro che: " Io opero perché opero [quindi: senza farsene concetti, Nota mia ] " .

30 / Rendono davvero onore a Dio e gli danno quel che gli spetta quelli che sono del tutto usciti da se stessi, che non cercano assolutamente niente di proprio in nessuna cosa, grande o piccola; quelli che non considerano niente, né al di sopra né al di sotto di loro, né accanto né in se stessi; che non fanno conto di bene od onore, di soddisfazione o di gioia, di utile o di interiorità, di santità o premio, e neppure di regno dei cieli.

41 / Alcuni maestri rozzi dicono che Dio è puro essere, ma egli è al di sopra dell'essere quanto il sommo angelo è al di sopra di un moscerino. Chiamare Dio essere è falso quanto dire che il sole pallido è nero.

48 / Fintanto che l'uomo ha tempo, spazio, numero, molteplicità [cioè concetti, nota mia] non è come deve essere e Dio gli è lontano ed estraneo. Perciò Nostro Signore dice: " Chi vuole divenire mio discepolo, deve abbandonare se stessi (Lc 9, 23) .

64 / Alcuni guardano a Dio con gli stessi occhi con cui guardano a una vacca, e come una vacca lo amano. Si ama la vacca per il latte, per il formaggio, per l'utilità insomma. Lo stesso fanno coloro che amano Dio per la ricchezza esteriore o per la consolazione interiore: essi non amano davvero Dio, ma il proprio utile.

67 / Tutte le creature portano con sé la negazione: l'una nega di essere l'altra. DIO INVECE HA UNA NEGAZIONE DELLA NEGAZIONE: egli è Uno e nega ogni alterità, giacché niente è al di fuori di Dio.

69 / Dio è uno, è negazione della negazione.

78 / Se sei malato e preghi per la tua salute, essa ti è più cara di Dio. Allora egli non è il tuo Dio: è il Dio dei cieli e della terra, ma non è il tuo Dio .

85 / Dio e la Divinità sono distanti l'uno dall'altra come il cielo lo è dalla terra. Dico di più: l'uomo interiore e l'uomo esteriore sono separati l'uno dall'altro come il cielo dalla terra. Ma Dio infinitamente di più: Dio diviene e disviene .

88 / Perché le creature parlano di Dio e non della Divinità? Perché quello che è nella Divinità è uno, e di ciò non si può parlare. DIO OPERA, LA DIVINITA' NON OPERA; NON HA NULLA DA OPERARE, NON VI E' IN ESSA OPERA ALCUNA, NE' MAI HA AVUTO DI MIRA UN'OPERA. Dio e la Divinità sono separati dall'operare e dal non operare.

94 / Nostro Signore dice: " A chi rinuncia a qualcosa per amore mio e per amore del mio nome, io restituirò il centuplo e la vita eterna" (Mt 19, 29) . Ma se rinunci a qualcosa per il centuplo o per la vita eterna, e anche per una ricompensa mille volte più grande, non ti sei distaccato da nulla...

95 / L' UOMO DISTACCATO DA SE STESSO E' COSI' PURO CHE IL MONDO NON PUO' SOPPORTARLO.

(continua)

A proposito di quel che c'è davvero...

Nel numero precedente veniva fatto un invito a vedere cosa c’è davvero invece di aderire alle opinioni e ai punti di vista. Vorrei oggi fare un esempio che mi è accaduto e da cui forse, se uno vuole, si potranno trarre analogie per la vita quotidiana.

Mi è accaduto stamani che, essendo nei pensieri per una certa situazione sviluppatasi sul mio lavoro, stavo guidando la macchina e ragionando dentro di me quando, tutt’a un tratto è sbucata da una curva un’altra macchina e io mi sono accorto di trovarmi perricolosamente verso il centro della strada. Sono riuscito, con prontezza, a rientrare però l’incidente mi ha spinto a vedere cosa c’era davvero in quel caso. E che cosa c’era davvero? C’era attrazione da parte di certi contenuti e non-presenza a cosa c’era davvero, cioè alla distrazione.

Mi sono detto allora: in caso di incidente grave, magari mortale, quello che sarebbe contato sarebbe stata il contenuto dei miei pensieri, che in quel momento mi sembrava davvero importante e vitale, oppure quello che c’era davvero, cioè la mente ubriaca di quei pensieri? Noi siamo sempre pronti a farci ubriacare dai nostri pensieri, dai nostri contenuti, belli o brutti che siano. Questa è la mente, la scimmietta che ci tiene le mani sugli occhi mentre guidiamo (o facciamo altre cose) .

Ma più importante ancora è una considerazione riguardo ai contenuti chiamiamoli “religiosi” o “metafisici”: avrei potuto essere un mistico, tutto intento al pensiero di Dio o comunque della Realtà Ultima… e sarei morto perché non presente a quello che c’è davvero. La bellezza dei contenuti mi avrebbe oscurato la vera presenza di quel che c’era davvero e cioè il funzionamento, nudo e crudo, della mente. Dico questo perché sia chiaro che cosa sia davvero importante al di là delle nostre credenze o adesioni contenutistiche.

Vedere cosa c’è davvero o, detto in altri termini, accettare le cose come sono venute in essere. Vedere le cose come sono venute in essere (yatabhuutam ) significa comprendere a fondo la causalità, capire che qualunque stato o situazione che ci troviamo a vivere (con le relative reazioni mentali) ha cause e condizioni piantate come semi dentro di noi. Queste predisposizioni ci fanno reagire come reagiamo.

Queste predisposizioni sono in una certa misura necessarie, servendo ad organizzare la nostra vita, a discriminare fra miliardi di dati che ci arrivano quotidianamente. Sono le predisposizioni però che ci portano facilmente a perdere di vista la realtà così com’è e a sostiturvi la visione che più ci aggrada. Un pensatore moderno non buddhista, William James, ha così sintetizzato questo dato: “ La vita intellettuale dell’uomo consiste quasi integralmente nella sua sostituzione di un ordine concettuale al posto dell’ordine percettivo in cui avviene originariamente la sua esperienza” . In questo processo di concettualizzazione, in questo “mettere le cose insieme” (il senso letterale della paola indiana samskaara , tradotto sia con ‘predisposizioni’ che con ‘costruzioni’ a seconda del contesto), i nostri interessi vengono facilmente trasformati (in base alle sensazioni che ne riceviamo) in desiderio o avversione che sono la causa del nostro soffrire. Così, mentre abbiamo bisogno delle predisposizioni per vivere, possiamo anche vedere come esse ci portino facilmente alla sofferenza. Perciò dobbiamo cercare una pacificazione di queste predisposizioni, un po’ come curare una malattia.

Per curare una malattia occorre una diagnosi ed ecco che qui arriva l’importanza del ‘vedere cosa c’è davvero’ . Nel Medioevo ed in certe culture odierne si curava la malattia in base a pregiudizi ereditati, ad una certa visione del ruolo dell’uomo in rapporto a Dio ecc. ; naturalmente, dovuto all’ignoranza di come stavano davvero le cose, la diagnosi era spesso inventata, fabbricata, e questo portava a risultati per lo più disastrosi. Al giorno d’oggi per la diagnosi il medico ha a disposizione tutta una serie di dati che gli fanno vedere la situazione dell’organismo in modo abbastanza oggettivo. Per questo, per curare le nostre vite, noi abbiamo bisogno di una diagnosi, di vedere “cosa c’è davvero” e non di partire da dati culturali ricevuti, da credenze o da speculazioni metafisiche. Una volta visto quello che c’è, le cose cominceranno a cambiare.

Vedere quello che c’è porta all’accettazione. Vediamo quello che c’è, sappiamo che c’è perché vi sono cause e condizioni per cui vi sia. Tutto sommato siamo obbligati ad accettarlo. Date quelle cause e condizioni, le cose non potevano essere diversamente. Se le cose non potevano essere che così, non c’è motivo per non accettarle. Avviene una relativa pacificazione con il mondo così com’è.

Un passo oltre è cogliere nella catena causale (contatto sensoriale>sensazione piacevole>desiderio>afferramento> venire in essere ) l’anello dell’afferramento (gli Inglesi usano il termine clinging , io preferisco ‘afferramento’) . E’ questo l’anello in cui possiamo usare il ‘lasciare andare’ . Se noi rompiamo qui la catena causale, la nostra mente diventa pacifica e silenziosa.

Questo vale in generale. In particolare, per chi medita, c’è un tipo di afferramento sottile, quello “spirituale” che io definisco anche “materialismo spirituale”. Vogliamo risultati senza capire che la Liberazione è proprio un aderire alle cose come sono, un’assenza di risultati. Un risultato è un bagaglio. Non ci sentiremo liberi finché avremo bagagli.

Nella discussione di ieri, Elena, che è una nuova venuta, ha posto il problema che però è di tutti o quasi. “ Mi accorgo che quando medito non riesco a sorridere. Se qualcuno vedesse il mio viso non noterebbe felicità ma sofferenza” . Questo il senso del suo discorso.

La mia insistenza sul sorridere non deve essere una forzatura, non possiamo sorridere a comando o come fanno certe sette religiose che per presentarsi adottano un sorriso un po’ artificiale (come qualche politico) . Come tutte le cose sorridere è un processo che sorge, si rafforza, continua e può anche finire o modificarsi. Se noi cominciamo la nostra pratica con l’attenzione al respiro e con il sorriso (magari usando la scia della gioia che sorge dallo stare insieme in meditazione

o qualche altro motivo non sensuale) , se poi continuiamo osservando sensazioni e pensieri, se poi portiamo la nostra attenzione sul SORGERE di queste sensazioni e pensieri, potremo cogliere lì il punto di afferramento e lasciare andare. A questo punto la mente si tranquillizzerà e pacificherà e il sorriso potrà rafforzarsi.

“Perché la gente non fa meditazione?” ho chiesto a Elena. “Perché non vi trova soddisfazione. La nostra vita è tutta così basata sul fare per ottenere che lo stare semplicemente lì, senza ottenere nulla, ci sembra spiacevole. Si cerca nella pratica spirituale un arricchimento. Invece la pratica vera è un impoverimento, un lasciare andare. Questa è l’analisi che nel tempo ho fatto anche di me stesso. Praticavo per ottenere. Per questo a volte si dice che la meditazione ‘è andata male’. Abbiamo avuto confusione nella mente. In realtà non è andata male, siamo semplicemente noi a esprimere un giudizio sulla realtà. Ma se noi aderiamo alla realtà di quel momento, se stiamo con lo stato confusionale, che motivo c’è di dire : ‘E’ andata male’? Certo stiamo male perché ci facciamo risucchiare dai nostri pensieri. I pensieri ci affascinano, anche quelli di sofferenza; ci risucchiano. Non bisogna però sviluppare avversione nemmeno verso di essi. Siamo consapevoli che se ci sono è per cause e condizioni, quindi né li dobbiamo accettare (attaccamento) né li dobbiamo respingere (avversione). Dobbiamo solo toccarli lievemente, direi quasi con benevolenza e poi lasciarli andare al loro destino’. Allora la mente diverrà naturalmente silenziosa, cioè avrà come una stanza posteriore di silenzio da cui si vede l’apertura della stanza anteriore piena di chiasso e confusione; ma noi siamo lì a goderci il silenzio e osserviamo distaccati il rumore. Io lo chiamo ‘fare un passo indietro’.

Un passo successivo può essere fare attenzione ai ‘segni’. Voglio dire che anche in questo relativo silenzio, osservando corpo e mente, potremo notare qua e là dei ‘segni’ (i segni provengono dal desiderio o dall’avversione) : una contrazione, la faccia tesa, immagini… Notando questi segni dobbiamo subito essere consapevoli del loro sorgere da desiderio o avversione. A quel punto scompaiono e noi sentiamo un maggiore rilassamento. Questa io la chiamo ‘meditazione verso il senza-segni’. Spesso questi segni vengono da un’inconscia pulsione ad ‘ottenere’ . Bisogna lasciare andare anche queste pulsioni ‘spirituali’.

mercoledì 13 giugno 2007

Esperienze (3)

Pubblico di nuovo alcune esperienze meditative da me vissute. Come si vedrà alla fine, il mio atteggiamento attuale è un po' diverso ma poiché deriva anche da queste esperienze, c'è una continuità.



27 febbraio 2000.



Stamattina ho avuto un'esperienza di Liberazione della mente (vimutti? cetovimutti?) o qualcosa del genere. Ho cominciato a meditare sul respiro, pensando di indurre così il primo jhāna; seguivo all'inizio il respiro
che ruotava nell'addome come una ruota verticale poi l'ho seguito, sempre come una ruota oblunga, lungo la spina dorsale e poi la parte anteriore del corpo. Si sono mostrati dei segni tipici dell'induzione del jhāna, come luce e rilassamento, presenza poi di tutto il corpo nel respiro; ma non è sorta pitī, non è sorta sukha.

A quel punto sono passato a quella che ora è la mia prassi abituale: ho cioè espanso la coscienza prodottasi nello spazio fuori da me, senza più prestare attenzione alla molteplicità
delle forme o dei pensieri, anzi concentrandomi nel puro irradiare senza oggetto, senza cioè avere un oggetto particolare da percepire o il mio corpo-mente come base.Dopo un po' mi sono reso conto che era sorto, intorno alla mia mente, come una specie di alto muro che la isolava.
E' stata proprio come una sensazione fisica, ma è ovvio che si trattava di un'immagine mentale.
L'inconscio dava cioè questa interpretazione dello stato in cui mi trovavo.Sono rimasto un certo periodo in questo stato,
poi mi sono alzato, ho fatto le mie cose abituali, sono uscito per fare colazione ed infine mi sono recato all'ufficio postale dove dovevo svolgere una pratica che implicava il rintracciare dei fondi andati perduti.
Mentre parlavo con Giovanni, l'addetto a questo tipo di pratiche, mi sono reso conto di come la mia mente fosse in uno stato particolare. Nessuna apprensione, nessuna tensione, una mente totalmente calma ed attenta. All'attenzione sono abituato, ma non sempre lo sono alla mancanza di tensione, di apprensione.

E' nella mia personalità essere apprensivo ed emotivo. Ho allora scandagliato la mente e mi sono reso conto che essa si trovava in uno stato simile a quello provato nel '95 a Pomaia; verso qualsiasi direzione della mia vita io guardassi, verso qualsiasi ipotesi contemplassi (a titolo di esperimento), non trovavo niente che colpisse la mia mente, che le creasse la minima preoccupazione. La mente era cioè libera, liberata. Quanto è durato questo stato mentale? Non molto, forse una mezz'ora, dopodiché ho cominciato a vederlo scemare.



All'inizio c'è stato il tentativo di afferrarlo, di trattenerlo, poi mi sono detto che dovevo lasciare andare, che era solo uno stato mentale, che dovevo non aggrapparmici, che dovevo osservarne il dissolversi. Fa parte dell'Impermanenza. Così l'ho lasciato andare, felice comunque, di una felicità però equanime, non quella che si prova nel primo jhāna.
Investigando successivamente sulla situazione mi sono detto che è la meditazione sullo spazio che ha provocato questo.

Su questi tipi di meditazione ho adesso una mia opinione, che è diversa ad esempio da quella degli insegnanti di Vipassanā pura; prima di tutto non condivido la separazione stretta tra samatha e vipassanā che alcuni insegnanti propongono; questa separazione non esisteva nei sutta e fu un prodotto dell'Abhidhamma e di commentatori remoti come Buddhaghosa. Inoltre, poiché tutti i dhamma sono dipendenti, a mio parere la genesi della liberazione del Buddha deve avere una base nelle precondizioni in lui instaurate da insegnanti come Alara Kalama che insegnò fino alla base del ‘Non c'è Nulla'.



Quindi la meditazione sullo spazio e sulla coscienza, che sono i due primi arupa jhāna, e che fanno parte sicuramente del pensiero e della metodologia di Alara Kalama, dovettero senz'altro contribuire in qualche maniera alla genesi (condizionata, prima di) della mente liberata.
Sono ipotesi, ma mi sembra che spieghino diverse cose.


4 marzo 2000.

Le condizioni di papà si sono molto aggravate negli ultimi giorni e sembra in bilico tra la vita e la morte. Ho fatto arrivare la legna per la stufa che era finita e mi ero messo a metterla dentro. Ogni tanto la mente fantasticava sulle varie possibilità di evoluzione della situazione. Mi venivano alla mente tutti i momenti passati insieme e mi coglieva la commozione del ricordo. Poi mi accorgevo di essermi lasciato andare e tornavo all' attenzione, al presente. Questo più volte. Ad un certo punto sono però giunto ad una conclusione liberatrice:


IL PASSATO NON ESISTE, non c'è proprio più, NON C'E' NESSUNA SOSTANZA CHIAMATA PASSATO CHE NOI POSSIAMO AFFERRARE.


Questo sembra come al solito banale, ma nella sua semplicità è rivoluzionario: infatti spazza e ripulisce in un attimo intere zone della mente. Il passato è estinto , scomparso, un sogno, perché cercare di afferrarlo e farsi del male? Questo perché l'ego, nel suo sogno di esistenza, di eternalizzazione, crea una pseudo-sostanza con cui trastullarsi. Dando sostanza al passato, riconferma se stesso come entità sostanziale.


NON C'E' NESSUNA SOSTANZA CHIAMATA PASSATO, NON C'E' NESSUNA SOSTANZA CHIAMATA FUTURO, c'è solo il qui ed ora, c'è solo l'attimo.



Accetto con equanimità qualunque cosa possa accadere a mio padre. Sono qui e faccio il mio dovere con grande affetto ma accetto pienamente qualunque cosa possa accadere. Forse a qualcuno sembrerò lo scemo del villaggio, una persona che vive superficialmente questo attimo, non è così! Cerco di essere lo scemo del villaggio, nel senso dell'accettazione più totale degli avvenimenti, di una mente che semplicemente accetta! Una mente che resta tranquilla anche quando la commozione è presente.
Non rinnego la commozione. Mio padre, un caro amico che forse ci lascerà, come non esserne commosso?

Ma, al di là di questo, vedere le cose come sono mi facilita l'accettare, il vivere quello che accade senza aggiungervi imputazioni di pensiero di alcuna sorta; quando comunque questo avviene, la mia mente ne è subito consapevole e ritorna alla vacuità e libertà dell'accettazione.
Questa nuova consapevolezza - passato e presente non sono qualcosa di reale - mi ha portato a discuterne con alcune persone care. Le obiezioni fatte sono: "Noi siamo formati nel passato, proveniamo dal passato ecc...".

In realtà ribadisco che non esiste una cosa, una sostanza, chiamata passato. Se esistesse, noi potremmo afferrarla e richiamare alla memoria ogni attimo-ogni attimo- della nostra vita. In realtà noi ricordiamo solo qualche episodio qui e qualche episodio là del nostro passato. Non è il passato: sono brandelli di memoria ed anche questi travisati dalla percezione. Quante volte riviviamo con gioia momenti che in realtà vivemmo come drammatici o dolorosi. Si tratta dunque di brandelli rimasti nella memoria- non sono il passato. Si tratta di brandelli vuoti internamente- e infatti li riempiamo con percezioni fasulle - vedi sopra -, si tratta di veri e propri fantasmi.



Liberarsene , così come liberarsi dei brandelli del futuro - un ectoplasma ancor più inesistente - restituisce ampi spazi di libertà nella mente.
Questo fornisce materiale anche per un nuovo approccio conoscitivo al presente. Quanto di ciò che percepiamo è illusione? Quanto di ciò che percepiamo non è reale?
So di non dire nulla di nuovo, ma una cosa è capire razionalmente le cose ed una cosa è farle proprie.


5 marzo.

Stamattina per la prima volta ho raggiunto il primo jhāna usando la meditazione sullo spazio. Questa volta ho usato un metodo più tradizionale, quello ben spiegato nel Visuddhimagga.


Le condizioni di mio padre, nonostante alti e bassi, non accennano a migliorare realmente. Mi sono posto a meditare ai piedi del suo letto. Ho praticato l'attenzione e con la mente attenta e chiara ho avvolto i miei genitori nella irradiazione della consapevolezza accettante. Non c'è nient'altro che si possa fare, direi.


Ad un certo punto ho cominciato ad irradiare- come faccio sempre- nello spazio, superando ogni concetto di materialità. Ogni tanto però restringevo la sfera della mia attenzione: dallo spazio infinito allo spazio di un'apertura circolare -come l'apertura circolare all'interno di una tenda indiana, suppongo, con la visione dello spazio che si vede attraverso. Con l'attenzione poi ‘arrotondavo' continuamente, in senso antiorario - non so perché in senso antiorario: mi è venuto così - i bordi del cerchio, sprofondandomi nello spazio al suo interno.


Poi di nuovo allargavo i confini dell'attenzione, dal cerchio alla sfera dello spazio infinito - ho proprio notato questa differenza tra lo spazio visto attraverso il cerchio e la forma sferica dell'espansione spazio-infinito e questo mi ha fatto venire in mente la designazione di spazio-infinito, coscienza-infinita ecc., ‘sfera' appunto- ed ho giocato a lungo su questa contrazione- espansione, proprio come dice di fare il Visuddhimagga con qualsiasi kasina od oggetto di contemplazione, finché la mente si è trovata a sprofondarsi sempre più in se stessa ed a provare gioia e felicità. Tutto il complesso corpo-mente era intriso di questo approfondimento mentale e di questa felicità lieve e leggera. C'era un senso di agio e di freschezza- ma non è proprio la parola giusta.



Non c'è [NOTA: QUI, PER UNO SCHERZO DEL MIO COMPUTER, C'E' UNA LACUNA TESTUALE RIEMPITA DA QUADRETTI - MAH? Tutto e' impermanente!]
⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪⨪ni posteriori dell'Abhidhamma. Nei sutta antichi l'unicità di attenzione è posta nel secondo jhāna: solo l'Abhidhamma la pose già nel primo jhāna!

Sono rimasto per un discreto periodo in questo stato, che ho riconosciuto facilmente come il primo jhāna, ed allo scoccare dell'ora del campanile ho terminato la meditazione.
Un'osservazione: avevo già raggiunto altre volte il primo jhāna ed a volte anche il secondo, ma mai usando come oggetto di meditazione lo spazio. Mi sembra che questo oggetto di meditazione sia molto importante, soprattutto perché esso condivide molte caratteristiche con la Vacuità ( tanto è vero che alcune scuole antiche lo posero nella categoria del non-condizionato - non la Theravada però).


12 marzo 2000.

L'8 marzo, è morto papà., alle 10 circa. Ero a scuola quando mi è arrivata la telefonata di Pola.
Direi di essere contento di come è morto: a casa sua, circondato dalle cure continue dei suoi figli e di sua nipote. Lolita, in particolare, va elogiata per la sua devozione ed il suo impegno. E' passato oltre, probabilmente senza soffrire. Negli ultimi tempi aveva cominciato a disfarsi, per le piaghe da decubito, per cui dovevamo girarlo spesso e con mille precauzioni ogni 3 o 4 ore. In più c'era mamma che stava anch'essa male. Era divenuto magro magro, emaciato, senza più alcuna muscolatura, non mangiava, veniva nutrito a fleboclisi, non parlava. Era in uno stato di semi-coma ma rispondeva con lo sguardo quando lo chiamavamo. Ricorderò sempre il suo sguardo intenso mentre lo giravamo nel letto o lo accarezzavo. Sembrava che volesse ‘bermi', che volesse portare con sé il ricordo intenso di noi.

Per me era un padre ed un amico. Negli ultimi anni eravamo divenuti amici di caffè, perché quando potevo lo portavo al bar, da Enza, dove salutava tutti con gioia anche se nel parlare non si capiva cosa dicesse. Grazie a lui avevo riscoperto i rapporti umani più semplici, più elementari, con la gente del posto ed in particolare del bar: Giulio, Pietrino, Pietro ed altri.
Mentre stava male, in questi ultimi giorni, ho mantenuto la mente in uno stato di accettazione il più possibile, senza permettere, se non in rari casi, che andasse a fantasticare, a costruire. Così, per esempio, ho mantenuto la mente assolutamente attenta a non preferire: né volere che vivesse né volere che morisse: solo stare nel presente, perché ogni scelta, ogni desiderio è, in ultima analisi, una scelta dell'ego. Una scelta malsana, tesa a non soffrire, anche se mascherata- ed in parte identica- con il non voler far soffrire la persona amata. Così, anche mentre, durante le meditazioni, irradiavo, irradiavo con mente equanime e non desiderante. Ero lì e basta!


12 settembre 2000

E' passato molto tempo dall'ultima volta che ho scritto qualcosa.
Ci sono state tante cose. Il ricordo di papà e mamma tende ( o forse : ha teso) spesso ad affiorare, provocando dolore. Qualche settimana fa sono andato in crisi depressiva. La sostanza era: ‘per chi vivo ora?' o, tradotto: ‘ Che scopo ha ora la mia vita?'.
C'è voluta una buona meditazione analitica per vedere che quello che mi faceva soffrire era l'immagine che volevo dare/darmi di me. Costruiamo sempre immagini, segni, simboli,
è questa una delle capacità della mente. Darsi un'immagine, creare scopo, senso, significato. Questo, direi, è anzi il vero compito della mente. Questo ci tiene in effetti incollati al mondo, ad un mondo che sostanzialmente è rappresentazione.



Nella mancanza di senso
Trovo senso
Nel non avere scopo
trovo scopo.
Proprio in quello che mi affliggeva
Trovo oggi la libertà.
La collina vista da un lato
È ben diversa vista dall'altro.
Si parla sempre di qui ed ora
Ma tutti cercano là ed allora.
Cercare persone magiche
è ancora crearle,
cercare l'illuminazione
è ancora afferrare,
pensare che un luogo sia migliore
è stabilire distinzioni.




3 dicembre 2001.

Tanto tempo è passato dall'ultima volta che ho scritto.
E' difficile da spiegare, soprattutto come ci sono arrivato, ma è accaduto. Dopo forse 6 anni dalla prima esperienza di Liberazione, stavolta in maniera meno drammatica, sono entrato di nuovo in quel regno. In realtà non è per niente diverso dal "qui ed ora" ma è l'atteggiamento psicologico che cambia. In questi ultimi tempi mi arrovellavo un po' sul fatto che la mia pratica sembrava aver fatto un passo indietro. Non più jhana né stati particolari, molto ragionamento anche se spesso - quasi sempre, raggiungevo un buon livello di concentrazione, forse quello di accesso.

Mi chiedevo se dovessi "rinforzare " la pratica, metterci più intensità e severità, mi sembrava di essermi lasciato andare - pure ricordavo di averlo fatto come scelta: c'era troppo impegno, troppa ansia di risultati nella mia pratica; avevo stabilito che l'assoluta semplicità [di vita, di pratica] era quello di cui avevo bisogno. Forse avrei dovuto ricominciare ad etichettare e praticare in maniera più formale.
Pure, negli ultimi giorni, ero giunto ad una conclusione: "in realtà va bene così. E' un trucco della psiche le cui predisposizioni sono all'afferrare. Non vedo più i risultati di un tempo e mi sgomento. Devo accettare che è proprio questa consapevolezza dei non-risultati che è positiva: devo accettare questa consapevolezza". E così praticavo rendendomi sempre più conto di quanto insidioso sia il volere risultati.

Domenica 1 settembre c'è stato il ritiro con Dhammiko. Ho cominciato praticando metta radiante, liberandomi poi anche della radianza e restando nello spazio infinito. Poi ho cominciato a praticare la consapevolezza del non-afferrare e a notare così che la mente si svuotava. E' stato durante la meditazione camminata (anche l'altra volta accadde mentre ero in piedi e mi muovevo): riflettevo sui continui tentativi di afferramento e lasciavo andare ed osservando la mia mente ho notato che era semplicemente lì, non c'era alcun desiderio di risultati.


D'un tratto ho intuito che questo lasciar andare continuo, questo sapere che eventuali "segni" erano dovuti al desiderare latente, avevano svuotato la mia mente dove non vi era nemmeno attaccamento per la pratica. Ho fatto allora una cosa che feci sei anni prima: ho guardato in tutte le direzioni della mia storia personale attuale ed ho constatato che c'era libertà, non c'era nulla da temere in alcuna direzione essendo libero da ogni attaccamento.


Con questo è venuta la consapevolezza che la mente era liberata. Mi sono un po' sorpreso che la cosa non sia avvenuta nei termini felicemente drammatici di sei anni fa -e nemmeno nei termini di terrore [dovuto all'attaccamento] di alcuni anni fa. Semplicemente sono come scivolato dentro questo stato, mi sono solo reso conto di esservi dentro. Forse era il nirvana? In effetti, pur senza concettualizzare, ho avuto davvero la sensazione di entrare in un altro regno, in un'altra dimensione, quella della libertà. Mi sono reso conto che la mente era, come la volta precedente, attenta e consapevole senza sforzo, con i pensieri che entravano ed uscivano chiaramente.



Questo è continuato per due giorni: per inciso ho cominciato a rendermi conto che, alla mattina del terzo giorno, pur mantenendo una certa dose di consapevolezza, stavo scivolando via da questa "dimensione" (il termine è forse improprio e può creare attaccamento come a qualcosa di sostanziale).
La libertà è meravigliosa: guardando alla mia vita ed alle sottili paure che la costellano (paura dell'abbandono, di malattia, di sofferenza, di morte, dell'incertezza economica potenziale, dei problemi economici) oppure alle mie attività preferite (kungfu, studio del cinese o dello stesso buddhismo) ho visto che in quello stato non temevo nulla in alcuna direzione poiché non c'era nulla a cui fossi attaccato. Mi tornava anche in mente l'esperienza di "terrore" che ebbi a Cremolino: sulla soglia della libertà, osservando l'assoluta mancanza di significato, mi colse il terrore.

Fu un'esperienza importantissima che mi diede la spia dei miei attaccamenti: se vi è l'attaccamento la libertà genera spavento! In sostanza: oh, no, e i miei giocattoli?
In effetti fu un'esperienza preziosissima che mi spinse a riesaminare la mia vita e ad osservare quante intrusioni più o meno nascoste di attaccamento vi erano avvenute.

In giardino c'erano X e Y che parlavano. X, in maniera indiretta, mi ha rimproverato perché, secondo lui, non avevo fatto nulla per portare qui Dhammiko. Ma l'iniziativa era stata sua, non mi aveva chiesto nulla e in effetti ero stato lieto di non coinvolgermi. X ha fatto poi tutta una serie di esaltazioni del sangha, della necessità di un maestro che sappia di cosa parlare ecc. Sono stato zitto. Che dovevo dire? X non si rende conto che sviluppa una sorta di rimprovero: " Perché non sei così?" Questo si commenta da solo.
La verità, credo, è che bisogna lasciare andare tutto, fare la propria pratica e basta. Se il desiderio è che vengano più persone (c'era anche una lamentela in tal senso), ciò avverrà da sé, di conseguenza. Con ciò non voglio dire che non occorra fare niente.

Ma non occorre volerle "attirare". Andiamo per la nostra strada e se le condizioni matureranno le persone verranno. Non dobbiamo essere dei buddhisti, dobbiamo essere dei buddha. Tutto il resto è "non accettare quello che c'è e volere quello che non c'è".
Per quello che mi riguarda mi sono reso conto che mi ci sono voluti sei anni per abbandonare anche l'esperienza precedente. Mi ci vorrà altrettanto per questa? No, ora sono consapevole del desiderio sottile che le esperienze provocano: anche la liberazione va lasciata andare, non bisogna "sostanzializzarla" (per inciso una lettura non approfondita del canone Pali può portare a qualche sostanzializzazione: è solo dopo aver letto Nagarjuna che mi sono accorto del pericolo).
Perciò occorre lasciare andare questa esperienza e riprendere la pratica, senza attaccamento.


4 Dicembre 2001

Quello che è interessante, rispetto a sei anni fa, è che posso richiamare questo stato di libertà direi a piacimento: basta una leggera concentrazione o comunque portare la mente in consapevolezza e subito percepisco la libertà, l'assenza di ostruzioni, l'indifferenza al mio destino, come una sorta di capacità di fruire a piacimento di questo stato.




4 dicembre, ore 14,12 (al lavoro).

Un altro modo di verifica di questo stato è portare l'attenzione su un amico e pensare che abbia ottenuto la liberazione. Immagino varie persone in questa posizione e, mentre fino ad ieri anche il solo pensiero mi avrebbe, lo confesso, creato un po' d'invidia, mi rendo conto che ora la mia mente è, al proposito, perfettamente pacifica, equanime: c'è spazio per tutti nella libertà.


Anche la mia sorte mi è indifferente: l'idea di morire ora, per esempio, non mi fa né caldo né freddo; mi chiedo anzi come sarebbe morire in questo stato, senza attaccamento. E ammalarsi? E soffrire? C'è solo una lieve presa in considerazione delle sensazioni implicite e distacco.




5 dicembre 2001, ore 8,20

Ho fatto meditazione con attenzione al non desiderare di essere libero: perciò ho praticato metta, lo spazio infinito, la coscienza infinita. Andando a scuola ho osservato la mia mente in tutte le direzioni: il senso di essere libero dalla paura persiste. Mi è venuto un paragone: come se la mente fosse ricoperta da una sostanza che le impedisse di andare alle preoccupazioni, alle paure, alle minacce dell'esistere. Mi diverto ad immaginare le situazioni più tragiche: la morte, l'abbandono, bruciare vivo, la malattia peggiore. A queste ipotesi la mente risponde con assoluta, quieta equanimità:




Qui termina il mio diario. Tenerlo mi sembrava far parte di una pratica di attaccamento. Così l'ho abbandonato. Naturalmente, dopo l'ultima esperienza, sono tornato ad uno stato di normalità. Non mi chiedo più dove sono, in che punto del sentiero. Come ho detto più volte anche queste sono concettualizzazioni e bisogna andare oltre.

Esperienze (2)

Un'esperienza di risveglio temporaneo


Nel 1995 imprevedibilmente vi fu un'esperienza di risveglio temporaneo. Non troppo imprevedibilmente, pensando a posteriori. Già avevo iniziato bene l'anno: ricordo che il primo dell'anno mi ero svegliato presto, come al solito ed ero andato sulle Mura di Lucca che, con i loro ampi bastioni, possono ospitare qualsiasi attività. Lì ogni domenica mattina, d'estate e d'inverno, col caldo o col freddo, mi sedevo in meditazione un'oretta dopodiché praticavo Taijiquan. Lo stesso feci quel primo dell'anno e la cosa mi sembrò piacevole e di buon augurio. Il resto dell'anno passò come al solito: due o tre anni prima avevo partecipato ad un ritiro di Thich Nhat Hanh in Liguria, poi non ne avevo più fatti. In compenso la mia pratica era continua e zelante.



Facevo allora parte di un gruppo che giusto in quel momento stava tendendo verso la direzione di Shambala training. Era una direzione a cui io ero contrario. Secondo me occorreva andare avanti così, senza affiliazioni. Era sorto perciò qualche contrasto. Nonostante ciò ricordo di aver pronunciato in un'occasione, ad una seduta allargata di questo gruppo, un discorsetto che suonava pressapoco così: " Bisogna aver fiducia nell'Illuminazione" . Questo mi tornò in mente in seguito.
Infine si presentò l'occasione di un maxi-ritiro di 10 giorni a Pomaia, un ritiro gestito da Corrado Pensa e due americani, un uomo e una donna , Martin e Narayan (almeno mi sembrano questi i nomi: i cognomi mi sembrano Grady e Liebensohn ma non ne sono certo, anche se si tratta di insegnanti piuttosto famosi) . Esitai un po' riguardo al ritiro, lo ricordo bene. Dieci giorni., Avrei resistito? Poi mi decisi ed infine il 25 Agosto iniziai il ritiro.
Subito mi rinfrancai.
Vedevo persone anche molto anziane ed io ero ancora nel fiore degli anni (ne avevo 48 ). Pensai: " Se ce la fanno loro ce la faccio anch'io . Anche questa è una frase che mi torna spesso in mente, anche riguardo ad altre situazioni.
Quindi, la sera del 25 iniziò il ritiro. I due giorni successivi passarono in mezzo a varie tensioni e dolori fisici, dovuti soprattutto a tensione nelle spalle e al collo, però ressi e anzi la mia pratica si approfondì. Al terzo giorno, nonostante i consigli contrari datici dai nostri insegnanti, cominciai a tenere note di un diario. Sono sempre stato un po' anarchico. In seguito sono stato felice di aver tenuto queste note che riporto esattamente come erano e che quindi vengono "in diretta" da quei momenti. Si abbia perciò pazienza verso il tono enfatico, che corrisponde alla gioia della pratica di quei momenti.

27 Agosto (3° giorno)


Mi aspettavo che il terzo giorno fosse molto difficile, un giorno di stanchezza e crisi. Invece nella meditazione dell'alba (1 hr), meditando sul respiro, lasciandomi andare alla sola attenzione sul respiro, ho raggiunto il primo Jhana. Questo mi ha dato nuova energia che mi ha pervaso per tutta la giornata. La mente era concentrata sul solo respiro, non c'erano pensieri distraenti, c'erano gioia e riconoscimento del Jhana.


28 Agosto (4° giorno)



Stamattina, nell'ultima meditazione mattutina, la posizione mi dava molto dolore. Non potendovi sfuggire (la mente prima era molto distratta), l'unica possibilità era restarne consapevoli. E' stato davvero notevole: il rendermi conto che non c'era nient'altro da fare che stare consapevoli!
La consapevolezza continua, forse legata ad uno stato samadhico collegato, mi ha fatto, dopopranzo, un buffo scherzo: per abitudine avrei voluto abbandonarmi a qualche fantasticheria gratificante (sul Taiji che avrei insegnato quest'anno, molto bello ecc.): ebbene, la mente si è bloccata come se fosse racchiusa fra delle pareti: non era possibile pensare a qualcosa di diverso dalla consapevolezza.
La giornata è trascorsa con molta energia nella meditazione. Buono anche il Karma Yoga (cioè il lavoro manuale: avevo scelto di falciare i campi del monastero, Nota posteriore ). La sera, nel colloquio di routine ho parlato con Corrado che mi ha incoraggiato a non lasciar perdere il lavoro sul samadhi, riconoscendo la possibilità del jhana.
Carico di energia ho fatto la "seduta-extra" di mezz'ora (10-10,30 di sera) .

29 Agosto (5° giorno)



Ancora carico di energia, stamattina nella meditazione lunga ho usato Metta per conseguire il Jhana, poi abbandonata la presa ed il pensiero discorsivo sono entrato nel secondo Jhana, contraddistinto appunto dalla mancanza della presa sull'oggetto meditativo e del discorso mentale. Alla fine (per un paio di volte) sono ricaduto nel primo Jhana. In fondo ho tentato di applicare il Jhana come base per la Vipassana ma è stato difficile, c'era ancora troppa concentrazione. La mente comunque aveva un'incredibile spaziosità. Penso di essere stato nel 2° Jhana (a due riprese) in tutto forse 10 minuti, nel 1° Jhana forse 15/20, ma è tutto molto ipotetico poiché non c'era modo di stabilire il tempo. La spina dorsale, quando sono entrato nei Jhana, ha iniziato ad essere percorsa da calore verso l'alto e poi ha cominciato a scuotersi. Alla fine, quando dal 2° Jhana sono decaduto nel 1° e poi ho tentato di usare la calma raggiunta ai fini della Vipassana, non mi è riuscito. Secondo Pensa la mente era ancora troppo "samadhizzata". Comunque Pensa mi ha rimproverato garbatamente: "Attieniti alle istruzioni. Siamo qui per fare Vipassana, non siamo ad un ritiro di Samatha". E' giusto (anche se la sera prima mi aveva incoraggiato)! Infatti questa esperienza ha indebolito la mia presenza mentale invece di aumentarla poiché ne ero tutto esaltato sicché la mente era piena di discorsi. In ogni caso ero consapevole di questo discorrere sicché è stato, tutto sommato, tutto ricondotto nel quadro della Vipassana.
Nelle successive meditazioni mi sono attenuto alle istruzioni senza nulla di rilievo da segnalare. Solo la meditazione camminata si è fatta più attenta.

Tornando ai Jhana: l'esperienza mi insegna che da un punto di vista della liberazione essi sono insufficienti. Infatti da soli non mi hanno dato granché se non gioia, serenità ed energia (e nei Nikaya del Canone Pali viene detto che anche un uomo malvagio può giungere fino ai più alti livelli): Perché allora, mi chiedo, il Buddha nei suoi processi meditativi stava sempre in questi 4 Jhana? E' forse perché anche se da soli sono del tutto insufficienti essi offrono una base di accesso alla consapevolezza (alla Vipassana) del tutto formidabile. Probabilmente anche Vipassana da sola è insufficiente al Gran Salto; ma Samatha e Vipassana insieme danno un prodotto formidabile che non è la semplice somma degli addendi. Mi ricordo di aver letto che all'inizio dei "Frutti del Sentiero" e cioè per ottenere ad es. il frutto di "Entrato nella Corrente" - frutto che ottiene chi è saldamente impiantato e non verrà più rigettato nel Samsara, c'è appunto il fatto che lì vengono di nuovo ripresi i Jhana ma aventi come oggetto il Nibbana stesso e non solo qualche altro elemento di meditazione.
Per caso, aprendo il libro che avevo con me La Psicologia del Nirvana di Rune Johanson, alla pag 78, dopo aver scritto queste righe, l'occhio mi è caduto su questa frase del Digha NikayaII 91: " Non esiste la meditazione (jhaanam ) per colui che è senza la comprensione (pañña ), non c'è comprensione per colui che è senza la meditazione (Jhanam ); colui che possiede sia la meditazione che la comprensione è vicino al Nibbana". Dal Canone Pali si deduce che nessuno dei 4 Jhana è il Nirvana/ Nibbana, però è sempre e solo da uno dei Jhana che si può conseguire il Nibbana. Il Majihma Nikaya I, 270 descrive come si possa realizzare il Nibbana partendo dal 4° livello; ma sempre il Majihma Nikaya I, 435 (lo leggo in Rune J, p. 91) stabilisce che "un monaco entra e risiede nel 1° Jhana...", poi sottopone a Vipassana ciò che vi ha sperimentato e da qui conclude: " Questa è la pace...ecc...., il Nibbana. Se egli è risoluto in questo, ottiene la distruzione delle ossessioni" . Lo stesso viene detto di tuttii primi 7 Jhana. Cioè qualsiasi Jhana può essere usato come trampolino per il Nibbana, anche il primo!

29 Agosto, sera



Mi sono disposto alla meditazione pomeridiana senza voler strafare, senza voler raggiungere nulla, solo seguendo le istruzioni ma, guarda caso l'l'insegnante americana propone Metta dicendo di farne uso quando vogliamo; io partecipo davvero con il cuore ed ecco che nasce il solito tremito nella spina, la concentrazione sale e sicuramente raggiungerei il primo Jhana ma l'idea di essere osservato mi trattiene.
Meditazione camminata: sempre meglio, più attenta.
2° meditazione seduta pomeridiana: mi sono dedicato alla sola attenzione alle sensazioni e poiché i pensieri mi disturbavano ho accentuato l'attenzione. A quel punto succede quello che mi era accaduto altre volte: la meditazione d'attenzione diventa attenta a se stessa, diventa Samadhi, entro nel primo Jhana mentre la spina trema e allora, visto che ci sono e me ne rendo conto, mi dico:
" Perché non lasciare andare il pensiero discorsivo?" ed entro nel 2° Jhana. La mia presa su questo è però ancora scarsa e ben presto ne decado. Infine concentro di nuovo l'attenzione sulle sensazioni.
Riflessione: Mentre questa cosa accadeva ne ero compiaciuto; successivamente però vi ho ripensato e mi son un po' preoccupato (questo durante la meditazione camminata) . Sarà positivo o negativo il fatto che avvenga un Jhana dell'attenzione? Ho deciso di accettare le cose come sono. Vedremo in seguito.

Le meditazioni dopo cena sono andate bene, nel senso che sono stato consapevole e basta, talvolta molto consapevole, delle sensazioni. Ho fatto anche la meditazione-extra che mi è servita a superare un momento di minore presa.


30 Agosto, 6° giorno



Stiamo entrando nel 6° giorno.
Riflettendo sul problema di ieri: se l'attenzione vede se stessa è senz'altro un fatto positivo ed il fatto di andare in Jhana lo vedo anche questo positivo. In certi momenti si avrà il Jhana, in altri la consapevolezza. E' OK.

(Più tardi) Fatta la prima meditazione di un'ora. Ho cominciato con Metta ma sono solo arrivato allo stadio di accesso al Jhana dopodiché mi sono inibito, non volevo andare oltre. Sono allora rimasto in consapevolezza. E' stato molto "bello" . La mente, "pari" , osservava le sensazioni. La sensazione del dolore alle gambe per es. La mia concentrazione era rivolta verso l'equanimità così ho retto finché ho potuto... poi ho cambiato posizione (dopo 5 giorni le ginocchia fanno male). Comunque è bella, sottile, delicata questa sensazione di equanimità. Bello, per es., fare la camminata con la mente non distratta, serena, tranquilla. Equanime. Andare alla colazione con mente equanime. Per inciso non mi sono stancato, fra me e me, di esaltare il valore del silenzio.
Corrado ha dichiarato che nel 6° giorno andremo più a fondo nel trattare ad es. le emozioni negative e tutti gli altri stati d'animo. Insiste sempre sul trattare i nostri stati d'animo e la nostra stessa presenza mentale in maniera delicata, sensibile, GENTILE.

L'insegnante americana ha spiegato oggi lo schema dell'insegnamento. I primi 5 giorni abbiamo fatto principalmente Samatha (attenzione alle sensazioni ma ancor più al Respiro); d'ora in poi il lavoro sarà dedicato alla presenza mentale in senso stretto, alla Vipassana. Come, non l'ha ancora spiegato, però un'indicazione ce l'ha data: Nel mangiare ci sia solo il mangiare; o anche: nell'udire un suono la mente non deve analizzare che tipo di suono sia, da cosa sia prodotto ecc. ma deve registrarlo unicamente come suono, come sensazione che esso provoca, ad es. all'ingresso dell'orecchio, e come percezione del suono stesso.
Quindi nell'udire ci deve essere solo l'udire, nel vedere il vedere e così via. Questa è l'attenzione, la presenza mentale nella vita quotidiana.

La meditazione n.3 della mattinata (10,45-11,30) , normalmente la più dura perché è il momento in cui le persone hanno sonno, è stata durissima, avevo un sonno tremendo e anche un po' di fame: mi ero rifiutato di prendere un caffè o di mangiare qualcosa poiché non è strettamente nelle regole. La fame mi è passata ma le ondate di sonno sono state terribili. Con vari espedienti sono riuscito a mantenere un minimo di presenza mentale in cui l'unica sensazione che realmente registravo era la sonnolenza. Nella meditazione del mezzogiorno risentivo ancora un po' dell'effetto della precedente (il sonno...) così ho deciso di rifugiarmi nel jhana. Mi sono concentrato sulla PURA ATTENZIONE e l'ho raggiunto: solito caldo nella schiena... però... c'era troppo rumore e così ne sono subito decaduto, quasi impercettibilmente. A quel punto ho deciso l'unica cosa da farsi e cioè ho dedicato questa solida base samadhica all'ATTENZIONE e ne è venuta fuori un'attenzione di diamante. Il che mi ha fatto poi riflettere che la miglior pratica in assoluto (almeno per me) è raggiungere il primo jhana, venirne fuori e dedicare la base samadhica allo sviluppo della Vipassana. Così ho visto le mie angosce di ieri.
Nonostante le prescrizioni, mangiare in consapevolezza è una cosa difficile: la mente si distrae spesso. Uso il metodo dei 4 bocconi+ acqua ma non sempre ricordo giustamente. Fra di me ho riflettuto che non raggiungerò mai il risveglio in questa vita: difatti non sopporto il formaggio (che qui a Pomaia viene sbattuto quasi dappertutto) e da questa avversione non riuscirò mai a liberarmi.
Un'altra riflessione da me fatta in diverse occasioni è questa: per me, che sono un tipo così ‘casalingo' , che appena vado in giro per il mondo vorrei subito essere di nuovo a casa, qui, IN QUESTA ESPERIENZA, mi sento davvero a casa mia. Non solo: io che sono sempre un po' pigro, mi stanco subito ecc., qui sono carico di un'energia incredibile. Saranno gli esercizi di Taiji e Qigong che faccio la mattina presto (ma non credo), sarà il bell'ambiente di Pomaia, ma forse ancor di più è la carica di un corso di meditazione bene impostato, del SILENZIO che ti impedisce dispersioni energetiche, della bravura di Corrado Pensa che non è quel professore serioso e accademico che pensavo ma che appare anzi molto umano e bravo nella disciplina....fatto sta che al sesto giorno sono ancor più carico del giorno prima (salvo momenti di defaillance). Anche il lavoro fisico del Karmayoga (mi sono messo a falciare il podere) mi piace e mi dà gioia e vigore.

30 Agosto, ore 7,30 p.m.



Il pomeriggio è stato curioso. Dopo aver scritto le note precedenti, carichissimo sono andato alla seduta delle 14,30. Ma Pensa, che forse era partito con un'idea, ci ha fatto invece un discorso sulla sofferenza; così siamo stati solo ad ascoltare. La seduta delle 16 è stata disastrosa (ormai so che le sedute ‘peggiori' sono quelle delle 10,45 a.m. e quella delle 16) ; sonno e stanchezza mi hanno preso, tant'è vero che non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Non avevo la forza di concentrarmi, tendevo ad addormentarmi ogni volta che mi basavo sul respiro o su un'idea... sono riuscito a salvare la seduta solo con respirazioni profondissime che mi hanno rinvigorito.
C'è stata la cena dopodiché ero stanchissimo. C'è stata la tentazione di una dormita ma mi sono detto che volevo vivere l'esperienza fino in fondo, anche con i suoi lati più scuri. Sono andato alla seduta delle 18,30 pronto ad un'altra lotta col sonno. Invece la seduta è stata un miracolo di ATTENZIONE. Ho rivolto la mente a guardare se stessa, senza usare alcuna formula e sono entrato nel jhana. Subito dopo però, forse per i rumori, sono sceso "all'accesso" e da lì ho usato una forte concentrazione vipassanica per il resto della seduta. Ancor prima del jhana comunque, l'attenzione era sostenuta e anche dolori come punture di insetti o altro venivano registrati soltanto, con assoluta equanimità: solo sensazioni sulla gamba, nessuna interpretazione mentale.

31 Agosto, 8 del mattino (7mo giorno).



Ieri sera ho retto fino all'ultimo, benché stanchissimo. Indimenticabile è stata la camminata finale (da solo) intorno ai due stupa, con il vento fortissimo che soffiava. Buon segno forse, ho sempre pensato che il vento fosse il mio elemento.
Ieri comunque mi aveva preso un altro senso di insoddisfazione; insoddisfazione personale (perché il mio io è ancora così forte) ed amare riflessioni sui miei rapporti egocentrici con il prossimo. Ma soprattutto sentivo insoddisfazione, sentivo che alla mia pratica mancava qualcosa, quel salto di qualità che, intuivo, non c'era ma senza saper dire in cosa consistesse.
Bene, stamattina, miracoli del Dharma, quel SALTO c'è stato e che SALTO!

Mi sono alzato ancora molto stanco e ottenebrato dal sonno. Sono sceso in giardino alle 5,50 e ho fatto il Taijiquan della scuola Sun più vigorosamente del solito per svegliarmi. L'ho fatto rivolto al cielo stellato (vedevo il Carro) . Sono salito alla sala di meditazione e ho cominciato la seduta senza troppo entusiasmo. Nella mente hanno cominciato a danzarmi alcuni movimenti del Taiji e tutta questa forma, particolarmente bella. Ad un tratto mi è sorta nella mente la sensazione (forse perché non riuscivo a concentrarmi) che questo attaccamento ad un "oggetto" pur bello era nient'altro che sofferenza: ne dipendevo, quindi era una sofferenza.
Allora ho iniziato a meditare, con l'intenzione di fare una meditazione del tutto tranquilla (ieri anzi mi rimproveravo, mi dicevo che metto troppa energia nella meditazione) . Ho cominciato con Metta (gentilezza amorevole) e piano piano, quando sono arrivato alla "rottura delle barriere", la solita sensazione mi ha riempito la mente ed ogni poro della pelle, portandomi all'accesso del primo jhana: però sentivo che c'era qualcosa che non andava: invece di gioia serena sentivo sofferenza, una sofferenza che mi veniva dal profondo, da Metta, dal profondo sentimento di solidarietà e partecipazione al dolore degli esseri. Ho cercato volontariamente di introdurre l'elemento gioia-serena, dicendomi che questo avrebbe contribuito alla felicità degli esseri ma, pur continuando a irradiare, pur essendo concentrato e del tutto rilassato, permaneva la sofferenza per gli esseri. C'è stata la domanda: "Perché?" e la risposta, dal profondo, è stata " perché non conoscono la via alla liberazione", "non possono uscire dal loro stato di sofferenza" .
Alla fine anche la sofferenza è scemata e la mente è divenuta stabile. Mi è venuta allora una riflessione: " Per la prima volta ho sentito profondamente le prime due verità, non in maniera intellettuale, come al solito, ma in maniera profonda, del tutto integrata nella pratica". Riflettendo ancora mi sono detto che questo era un salto di qualità incredibile (per me): ieri notavo appunto il senso di insoddisfazione: OK, c'è consapevolezza delle sensazioni e del respiro, c'è consapevolezza in genere; dall'altra parte c'è la capacità tecnica di realizzare il Jhana ma manca qualcosa! E questo qualcosa, allora non lo sapevo, era l'integrazione profonda delle 4 Nobili Verità nella pratica. Sento anche che per ora vi ho integrato solo le prime due ma sono del tutto fiducioso che anche le altre due troveranno la loro strada.
Ho sentito anche una profonda gratitudine per gli insegnanti, così sapienti. Proprio ieri l'insegnante americana aveva parlato delle Quattro Nobili Verità. Io l'avevo ascoltata attentamente ma in fondo quante volte ne avevo sentito parlare? Eppure stamani hanno trovato il loro posto! Ed i discorsi di Corrado sono sempre lì, pronti, pertinenti, giusto nel momento in cui servono alla pratica. Anche questo è un miracolo di sapienza.

Ore 9,15.



Seconda meditazione. Dopo la solita attenzione al respiro e alle sensazioni con "mente da principiante", ci hanno invitato, nel caso sorgano processi mentali, a stare con questi processi (senza seguirne il contenuto, naturalmente). Ora io ero proprio nel mezzo di una mia vis polemica contro altre opinioni sul Dharma; prima ho cercato di trovare una scusante basata sulla validità di questo "discutere" dharmico; poi ho deciso di seguire le indicazioni degli insegnanti e di andare più dentro la cosa. Come? Etichettando? Mi è venuto però in mente che Corrado lo sconsigliava; ho provato allora a cercare dentro lo stato mentale (polemico) che era in corso, in maniera impersonale; MI E' RIUSCITO ed è stato quasi come vederlo, un grumo di energia forte, molto forte. Dopo un po' che lo guardavo, questo flusso energetico ha cominciato a scomparire.
Ancora una volta sono rimasto stupefatto. Finora avevo usato (e in genere solo per i processi mentali) le etichette ma ora mi sono reso conto di quanto sia più avanzato stare con i processi. Non solo, mi è venuta istintiva anche un'identificazione. Quel grumo era Viññāna, la coscienza, il processo di coscienza che costituisce la base delle rinascite; e allora mi sono venute in mente quelle frasi del Canone dove si dice (più o meno) che, pacificata la coscienza, estinta la coscienza, in pratica c'è il Nirvana; ebbene stamani ho avuto un piccolo esempio di comparsa ed estinzione, quasi visiva, di Viññāna.
Sento che è come se tante tessere di un mosaico, finora rovesciate, si andassero a comporre mostrando l'esperienza del Dharma. Ancora una volta posso solo essere grato agli insegnanti. D'altra parte sono anche grato alle mie letture alla conoscenza del Canone, che permettono anch'esse di mettere a posto tutte le tessere.

Ore 11,34.



Ogni ora una nuova esperienza. Questa è davvero la più grande avventura che abbia mai vissuto, se così si può chiamare. Mai ho avuto un periodo così vivo, così intenso di esperienze.
Dopo aver scritto le note precedenti sono andato a fare meditazione camminata ai due stupa. La mia mente era però euforica tant'è vero che mi sono detto: starò producendo nuovo Vinnana (coscienza). Ma tant'è: ho cercato di rimanere consapevole di tutto il ragionare che mi veniva. Mi sono poi recato ad affrontare la "terribile" meditazione delle 10,45 (quella in cui, si solito, mi addormento) con l'idea di cercare di avere una meditazione riposante, tranquilla. Ma come fare? Infatti, una volta seduto, la mente si è scoperta ancora piena dell'euforia precedente. Ho deciso allora di applicare l'insegnamento di stare nella sensazione mentale, quella dell'euforia appunto, e dopo un po' questa si è placata diventando una gioia serena. Allora ho deciso di stare semplicemente e gentilmente in questa gioia serena, di godermi questa gioia serena. Piano piano, dolcemente stavolta, si è sviluppato il Jhana assai diverso dagli altri dei giorni precedenti (forse perché questi avevano come oggetto la relativa passionalità di Metta oppure la Pura Attenzione). Questo era invece un samadhi molto dolce, ma era un samadhi, un Jhana: vi erano questa gioia serena, l'unicità di attenzione, l'esclusione di altri pensieri ma anche la capacità riflessiva sul Jhana stesso. Ad un certo punto, lo confesso, ho avuto un'inibizione: stavo per abbandonarmi completamente senza più alcun pensiero (e quindi entrare, probabilmente, nel secondo Jhana) ma non sono andato avanti. Sono rimasto in questo stato di Samadhi per 15 o 20 minuti, poi un generatore da qualche parte si è messo in moto e lentamente me l'ha fatto scemare: dopodiché ho applicato l'attenzione rimasta agli stati mentali e alle sensazioni. Così questa è stata una meditazione molto gentile e gradevole.

Ore 13.



Nulla di particolare da segnalare sulla meditazione di mezzogiorno. Poiché comincio ad essere stanco, volevo una meditazione di tutto riposo e così è stato: ho raggiunto in un paio di minuti lo stato di accesso, focalizzandomi sulla gioia serena e poi sono rimasto lì osservando la mente (del tutto vuota di pensieri distraenti) e la registrazione delle sensazioni.
Voglio qui fare qualche osservazione sulla RINASCITA: dopo aver veduto stamattina Vinnana come un grumo o flusso di forze e ricordando l'episodio di Margaret [NdA: Un episodio in cui, durante la meditazione, ‘entrai' letteralmente nella mente di questa persona], episodio di anni fa in cui "vidi" la stessa cosa e cioè questo groviglio di forze, ecco che mi diventano del tutto reali i Sutra in cui si scrive che il Buddha, " con l'occhio chiarificato della mente", poteva vedere la coscienza dei suoi discepoli e sapere se essi si erano estinti (in tal caso non avrebbe trovato tracce di coscienza) oppure no. L'esperienza di stamani e quella con Margaret mi fanno anche credere del tutto alla rinascita: Vinnana, flusso cumulativo di forze psichiche, si basa, secondo le scritture, su citta , la mente ma ne è anche autonoma. E' Vinnana, secondo gli stessi testi, che passa da una vita all'altra. Questo fa giustizia di chi parla di Reincarnazione: in effetti non c'è un'anima che si reincarna, c'è solo questo flusso psichico, in un certo senso più "rozzo", più brutale del concetto di anima che abbiamo, e questo flusso si identifica con "la sete" (di vivere, di dispiegarsi ecc.) . Ecco perché non si parla di anima o di reincarnazione nel Buddhismo ma di rinascita: c'è la rinascita ma non rinasce nessuno; la rinascita avviene solo quando il flusso della coscienza ne trova di nuovo le condizioni. E il Vinnana non è il sé: è solo un flusso di forze psichiche.
Apro ancora l'illuminante libro di Rune Johansson, La Psicologia del Nirvana , e, a pagina 68, trovo giusto giusto questa frase: " Rimane da dire sul Vinnana che è probabilmente un aspetto del citta (la mente) o un nome per un processo del citta . Si dice infatti che entrambi sono coinvolti nel processo della rinascita, ma certo non dobbiamo comprendere questo come una rinascita duplice: i processi strumentali sono i processi del citta . La base della rinascita (aarammana, upaadaana ) è l'intenso desiderio (upaadaana ) di continuare a vivere. Quando il vinnana è fermato (nel Nibbana, nello stato di Arhat) , praticamente non rimangono processi-vinnana nel citta e non c'è base per una rinascita".

Ore 16,49.



La seduta di oggi delle 16, quella che tradizionalmente è "da sonno", è stata invece quella MIGLIORE di tutti questi sette giorni (buffo che vi ero andato un bel po' stanco). E' stata una seduta completamente vipassanica. Dall'inizio alla fine, senza accenni jhanici (ma naturalmente con una forte concentrazione samadhica del tutto involontaria) sono stato in PIENA CONSAPEVOLEZZA. La concentrazione la riscontravo dalla forte pressione psichica che sentivo alla radice del naso, tra le sopracciglia. Poichè non la reputo una cosa buona, abbassavo l'attenzione al respiro nell'addome o alle sensazioni. Nonostante ciò, in forme più lievi, questa pressione è rimasta.
La mia mente è stata come UNA STANZA VUOTA dall'inizio alla fine. Le sensazioni venivano registrate nel corpo e l'identificazione con il pensare dei timidi pensieri che si affacciavano talvolta, era dolce e immediata cosìcché essi sparivano subito. Citta , la mente, è stata sempre attenta e presente ma Vinnana era a cuccia, come un cane domato. C'era la pentola ma la minestra non c'era (o per lo meno non bolliva). Ho provato anche ad aprire gli occhi per un lungo periodo ma la situazione è rimasta la stessa. Nessun accenno di sonno (gli occhi aperti normalmente mi fanno l'effetto del sonno). Ho richiuso gli occhi: stessa cosa. Le sensazioni comparivano, venivano osservate e andavano. Non erano molto evidenti.
Verso la fine della seduta ho provato a fare vari movimenti: spostare la spina, tirare il collo ecc. , per vedere se l'attenzione crollava ma l'attenzione è rimasta, la STANZA è rimasta VUOTA e l'attenzione sempre del tutto presente. Come conclusione mi è venuto in mente quel discorso del Buddha, forse dedicato all'Anapanasati (o nel Satipatthana sutta? ): " Se praticherete anche solo sette giorni..." . Bene, è un caso che al settimo giorno abbia fatto una seduta così perfetta? Naturalmente questa non è l'Illuminazione, il Risveglio o che altro. Ma se anche il ritiro finisse qui, qualche piccolo, grande cambiamento direi che c'è stato. Grazie al SILENZIO, grazie al Ritiro, grazie allo stare alle regole, grazie agli insegnanti, grazie al Dharma, grazie al Buddha.
Riguardo alla STANZA VUOTA sono senz'altro influenzato da un Sutra che mi recito all'inizio di ogni seduta e che dice: " Coscientemente nascono nel Perfetto le sensazioni, coscientemente continuano, coscientemente svaniscono; coscientemente nascono nel Perfetto le percezioni.... svaniscono; coscientemente nascono nel Perfetto i pensieri, coscientemente continuano, coscientemente svaniscono" . Questa frase ho sempre recitato a compendio e specchio di quello che deve essere la pratica.

Nel pomeriggio meditazione su KARUNA, la compassione: assai simile a Metta, non mi ha molto coinvolto.
Il secondo e ultimo colloquio con Pensa è durato una ventina di minuti. Ho ringraziato, ho cercato di spiegare (senza riuscirci pienamente) la complessità di cose che ho vissuto e gli ho fatto presente l'ultimo dubbio che mi è venuto stasera: " Perché con tutti questi passi avanti, non sento affatto l'IO più debole ma anzi come se fosse più forte, più completo, più tirato a lucido?"
La sua risposta è stata di non confondere l'IO con una sensazione più che legittima di orgoglio per i risultati raggiunti. "Quest'orgoglio è più che naturale" ha detto " purché naturalmente non diventi disprezzo verso l'uomo comune, il non meditante, oppure verso chi, sul sentiero, è un po' più indietro. In tal caso si avrebbe un abnorme rafforzamento dell'io. Ma la soddisfazione per un risultato raggiunto, ripeto, è più che legittima".

La meditazione serale (extra) ha mostrato ancora una volta un'attenzione di diamante (però con un eccesso di pressione psichica fra le sopracciglia) e attenta registrazione del sorgere e scomparire delle sensazioni.


1 SETTEMBRE (ottavo giorno, ma settimo giorno effettivo alle nove di stasera).



Ore 5,38 del mattino.
Mi sono svegliato con un senso di incertezza sulla giornata di fronte. Come un senso di: " Che resta da fare ormai?" Naturalmente so cosa resta da fare: meditare, restare in consapevolezza.
Cominciano a far capolino le idee sul ‘ritorno a casa'. Questo non mi piace. Ma la situazione è com'è! Non sono un Arhant, la strada è ancora lunga, certo più vite, non sono nemmeno un ‘Entrato nella Corrente' anche se qualche possibilità in più (qualche) di divenirlo in questa vita sento che ora esiste, ora che molti dei concetti che credevo già acquisiti hanno cominciato a diventare ‘carne e ossa' ed a essere parte del mio vissuto.

Ore 7,11.



La meditazione del mattino è finita ed ho voluto avere un breve colloquio extra con Pensa.
"E' incredibile" gli ho detto "come effettivamente la meditazione dia una risposta. Ogni sera ho avuto una domanda angosciosa e il giorno dopo ho avuto puntualmente la risposta" .
" La meditazione lo fa"
"Sì, forse è l'inconscio che lavora. Comunque, ti avevo detto che ieri sera ero rimasto un po' angosciato dalla sensazione che il mio io si fosse rafforzato. Stamattina ho avuto la risposta. Devo dire che ero partito con tristezza, una tristezza consapevole ma vera. Oltretutto ho fatto l'errore di prendere del caffè ed ho pensato che se mi fossi concentrato troppo sarebbe accaduto un eccesso di forza psichica. Così ho tentato di fare Metta (gentilezza amorevole), l'ho portata avanti ma non avevo convinzione. Sono allora passato a guardarmi, tranquillamente, a guardare questa mia tristezza e piano, piano l'ho vista sciogliersi. Piano, piano, dolcemente, mi sono reso conto che ero del tutto consapevole in estrema tranquillità. Ho cominciato a riflettere, del tutto consapevole,senza mai perdere la consapevolezza per un attimo, senza sforzo, e mi sono reso conto che avevo compiuto come una parabola, raggiungendo in questi sette giorni picchi altissimi (per me almeno) per poi tornare ad avere una consapevolezza tenera e dolce, NELLA SEMPLICITA' PIU' ASSOLUTA. Un po' come quando uno inizia a meditare per la prima volta e sta lì attento e senza sapere bene cosa fare, è solo attento per vedere che succede; bene, stamani la mia mente era come quella di un principiante. Quindi ho fatto tanta strada per tornare ad essere del tutto semplice, come una persona qualunque (questo per dire che io sono molto complicato). Mi sento finalmente UN TRANQUILLO IDIOTA CONSAPEVOLE".
"Sì, ora in ‘idiota' c'è un giudizio di valore..."
" Non volevo dargli quel senso. Volevo solo dire che la mia meditazione è tornata semplice, la mia mente è del tutto consapevole e sta lì in perfetta serenità. Volevo solo dirti questo e dirti che sono commosso" .
Pensa ha fatto un sorriso e mi ha congedato: "Bene, allora continua a coltivare questa cosa". La conversazione è finita qui.

Ore 7,55.



Ma non è finita lì. Mi rendo conto che sembra un romanzo, ma non è finita lì.
Sono andato a fare colazione e piano, piano, mentre ero in fila, mi sono andato rendendo conto
che stavo avendo un RISVEGLIO. E' stata una consapevolezza che si è manifestata piano, piano ma con grande sicurezza. Un Risveglio, mi sono reso conto, non è aumentarci di qualcosa ma PERDERE. Come attendevo in fila, mentre mi sedevo, mentre mangiavo, mentre guardavo, c'è sempre stata ATTENZIONE ASSOLUTA SENZA SFORZO. Piano, piano, come dicevo, ho cominciato a pensare che questa era la mente liberata, era una mente risvegliata. La consapevolezza, improvvisa, mi ha colpito dolcemente: HO AVUTO UN RISVEGLIO! Un po' stupito, ho sentito che tutto era fatto, non c'era più nulla da fare, non c'era nulla da aggiungere o da togliere; tutto mi veniva naturale, ho sentito che TUTTO E' IMPORTANTE E NIENTE E' IMPORTANTE, ho percepito uno stato di serenità assoluta ed al di sopra / al di là di ogni mio precedente problema. Mi sto dicendo, anche ora che scrivo, che probabilmente (ed ovviamente) è un Risveglio temporaneo ma ebbene, questo è veramente lo stato di illuminazione, sia pure temporanea: uno sprazzo del Nirvana? Non ha importanza che cosa sono, ma non mi sono mai sentito così bene, mai, mai, mai. La mente è limpida come un laghetto, anzi sembra non esistere per niente pur conservando tutte le sue funzioni. Provo a pensare a come sarà la vita di tutti i giorni in questa condizione: per come la vedo ora sarò UN TRANQUILLO IDIOTA RISVEGLIATO. Ma temo senza temere che non durerà. Infatti mi sembra che questo effetto cominci a scemare.

Difatti è stato così. Dopo il Karma-yoga (= Lavoro fisico) sono andato ad informare Corrado. Mi ha invitato a non fare concettualizzazioni e continuare così.
Dopo una seduta di meditazione in cui dovevamo portare l'attenzione ai suoni senza aderirvi, senza dare identificazioni mentali, siamo usciti all'aperto. Benché lo stato di ‘risveglio' nella sua forma più chiara sia cessato (in tutto sarà durato forse mezz'ora) , mi è rimasta una consapevolezza assoluta. Ed ho fatto una scoperta o meglio ho confermato la scoperta che già avevo fatto. Non c'è in pratica differenza tra consapevolezza e non-consapevolezza. Sono esattamente la stessa cosa, ma la prima ha qualcosa di più. Ora capisco tutti i detti sullo Zen e sui suoi maestri stravaganti che davano risposte tipo: " Il risveglio è un mestolo" o giù di lì.
Nella consapevolezza c'è ESTREMA RILASSATEZZA. Questo è il dato importante. C'è FRESCHEZZA. Infatti non ci si stanca e si va totalmente liberi qua e là. Sorridendo. Perché si è liberi. Non c'è più bisogno di concentrarsi su quello che si fa. Si è già concentrati. Non bisogna preoccuparsi di stoppare i pensieri. Si pensa e basta. Ci si immagina che la persona consapevole mediti ferma come un sasso, cammini piano, piano e non pensi a niente. Nulla di tutto ciò. Si fa tutto come ci pare, come ci viene, soltanto si è sempre consapevoli. E' incredibile il numero di stereotipi con cui abbiamo a che fare.
Così camminavo per il giardino di Pomaia a passo abbastanza sostenuto (invece che lento) , viso aperto e sorridendo. Ed ero sempre consapevole, senza un attimo di stacco e senza la minima stanchezza. Non solo. In meditazione seduta, appena mi sono concentrato un po', sono andato dretto al primo e al secondo Jhana. Il curioso è che non ho avuto bisogno di un ‘oggetto di meditazione' : vi sono stati subito questi due jhana ‘senza oggetto' . Allora ho capito una cosa che mi aveva sempre incuriosito leggendo i Sutra buddhisti. Nei Discorsi il Buddha racconta sempre di come ci si raccolga in meditazione e poi si entri nel Jhana e lo fa senza mai indicare un ‘oggetto'. Dunque il Buddha non ne aveva bisogno: chiudeva gli occhi ed entrava subito nei Jhana.
Non ho raccontato a Corrado quest'ultima esperienza. Mi avrebbe forse preso per matto: un tipo mai visto né conosciuto arriva e racconta un mucchio di cose stravaganti!
Il pranzo è stato molto concentrato ma subito dopo la concentrazione è cominciata a sparire. Avrà bisogno di sedute per alimentarsi?
Sono le due del pomeriggio e ho già vissuto tutte queste esperienze! Riposerò un poco.

Ore 16,46.


Che cambiamento! Oggi non c'era quasi più il filo della consapevolezza di stamani. E' ricomparsa anche, sia pure in forma minima, la sonnolenza ed è ricomparso il dolore alla spina dorsale, nel punto dove si unisce al collo. Ho provato a rilassarmi, a richiamare alla mente le sensazioni provate stamattina ma questo DESIDERARE non ha portato a nulla.


Ore 19,18.



Nella seduta successiva, terminata ora, ho ripreso il controllo della situazione. Ero partito con un po' di mestizia poi ho pronunciato la famosa frase : " Coscientemente nascono... le sensazioni; coscientemente nascono le percezioni, coscientemente nascono i pensieri" e mi sono disposto ad osservare. Mi sono rilassato e semplicemente ho osservato. Se venivano sensazioni mi assorbivo in esse. Se venivano pensieri, cercavo di coglierne il flusso: la tristezza per es. (dal solito pensare a se stessi) o il rancore o altro. Ogni volta che una di queste componenti alzava la testa, io gli davo una ‘lisciatina' pensando: " Eh, Vinnana, vinnana, volpina, ti ho beccato!" e dolcemente l'accucciavo. Così mi si è sviluppato un gioco, una specie di cartone animato. Allora, immaginiamo una grande spaziosità nella mente, come una vetrage ma senza vetri. Sotto ci sono tutte le nostre piantine che sono le sensazioni. Potete immaginare felci ecc. Ogni tanto sbuca fuori una volpina rossa-rossa di nome Vinnana (coscienza o capacità appercettiva) che strappa via una felce e mette un suo mattone per costruire la sua casina. Voi, dolcemente, gli fate una carezza sulla testa, lei forse vi guarda con gli occhioni, e la mettete dolcemente a cuccia, togliendo il suo mattone. " Eh, Vinnana, Vinnana, ti ho beccato ancora una volta, piccola costruttrice della casa. Non me la fai più!". Quale detto del Buddha vi ricorda?
Devo dire che con questo cartone animato ho riconquistato rilassamento e consapevolezza. Eh, Vinnana, Vinnana....


2 SETTEMBRE, NONO GIORNO.


Ore 7,03.



E' appena terminata la meditazione di un'ora, la migliore della giornata. Tuttora la consapevolezza è forte. Mi sono posto delle domande. Che fare a Lucca? Sarà il caso di fare conoscere quello che mi è successo? La risposta è stata sì. Sarebbe ingiusto tenere per me solo questa esperienza. Far sapere che è alla portata di tutti è importante. Ma quanto sconvolgimento provocherà nei cuori. Ho pensato che se qualcuno come Sergio, Roberta, Enrico, Manuela, Claudia o chiunque altro mi dicesse che ha avuto il / un Risveglio, sarei morto di invidia. Inoltre non lo avrei creduto. Poiché conosco la natura umana so che anche gli altri avranno una reazione di questo tipo. E se lasciassi il gruppo? Oltretutto non sono d'accordo all'affiliazione con Shambala né con chicchessia. Andare in un gruppo che si disperde con pratiche le più diverse... La situazione è diversa da 10 giorni fa, c'è stata un'esperienza che non è secondaria. Ci sarà tensione a Lucca.... E nessuno viene riconosciuto come profeta in patria.
Mi sono alzato con questi pensieri e alla meditazione ho cominciato con Metta come al solito e benché fosse abbastanza sentita sono arrivato solo a una fase di accesso poi sono entrati in campo pensieri relativi alla situazione di Lucca, più e più volte. Allora mi sono detto: è possibile che sciupi questa meditazione, distratto da questi pensieri? E se questo mi succederà anche a Lucca, che progresso ne avrà la pratica?
Questo ha tagliato la testa al toro. La decisione è presa. Per conto mio l'esperienza del gruppo è finita. Sbarazzato il campo da questa questione mi sono concentrato, ho creato il solito scenario della mente vuota osservando lentamente le sensazioni. Il culmine dell'attenzione l'ho avuto aprendo gli occhi e guardando la schiena della persona davanti a me: " Nel vedere ci sia solo il vedere, nell'udire solo l'udire..." . Così ho fatto e ben presto è sorto il calore che ha cominciato a pervadere il corpo. " Avrò un Jhana ad occhi aperti?", mi sono chiesto. Ma non era il Jhana, era la consapevolezza che cresceva. Con letizia ho allora osservato che ero pienamente consapevole. Bene, per tutto il tempo restante dell'ora di meditazione (forse per 45 minuti) la mente è stata ininterrottamente consapevole, consapevole visivamente del fatto che Vinnana non sorgeva, con il corpo che tendeva a rilassarsi. Rilassarsi è una delle chiavi del Risveglio. La mente era chiara e pulita come una stanza vuota e ben tenuta.

C'è in questo penultimo giorno e ce l'hanno detto gli insegnanti, un ovvio ritorno dei pensieri di casa, della voglia di pianificare ecc. "Io stesso" ha detto l'istruttore americano " mi accorgo che cammino più svelto".
Anch'io per la prima volta mi sono preso un'ora intera di riposo, prima di pranzo. C'è, d'altra parte, un continuo caricarsi di energia psichica. Stamattina, al Karma Yoga, ne ho scaricata parecchia (era in eccesso) tagliando con una falciana le spine di un poggio; ma sempre se ne carica e scarica molta; in certi momenti ci si sente esausti poi viene un'altra ricarica e via così. La mente è straordinaria.
La pratica, nelle ore fino alle 12, è stata difficile; solo usando la frase ‘Pura attenzione' ad un certo punto ho ristabilito un po' di concentrazione.

Ore 15,34.



Abbiamo fatto la meditazione di Mudita. Tra i quattro Brahmavihara era uno di quelli che avevo provato solo una volta. Però, come pratica informale, l'avevo fatta spesso, ad es. verso la mia ex-moglie, Patrizia, verso L. e verso altri.
" Che la tua fortuna possa continuare"; l'ho auspicato per Patrizia, per i miei genitori, per Sergio, Roberta, Enrico ed altre persone. Non sono riuscito a trovare in Isa qualcosa di cui lei sia molto felice: la sento sempre lamentarsi di qualcosa.
Mudita è la gioia simpatetica, cioè la gioia per il bene degli altri. Mi piace moltissimo perché è così difficile godere del bene degli altri ed è, come dice Corrado, una meditazione che ci apre il cuore, che dà via un bel pezzo di noi, del nostro sé, contribuendo a quella valorizzazione dell'ego che è lo scopo della meditazione buddhista. Ho sentito il solito calore che mi pervadeva ma la meditazione è stata troppo breve.
Le altre meditazioni della giornata sono state di livello medio.

Qui termina il diario di questo ritiro di 10 giorni . Se c'è qualcosa che, a distanza di tanti anni posso dire, è che episodi di risveglio come il mio possono avvenire quasi esclusivamente durante un ritiro o per lo meno un intensivo. Solo l'intensificazione e la protezione della pratica permettono quel raccoglimento che è necessario perché queste esperienze-picco avvengano. Riguardo al contenuto, rimando alle sensazioni espresse durante l'episodio picco. Quello che voglio sottolineare sono alcuni punti:


ASSOLUTA SEMPLICITA; SENTIRSI COME UN IDIOTA CONSAPEVOLE; TUTTO E'IMPORTANTE E NIENTE E' IMPORTANTE; CONSAPEVOLEZZA DI QUANTO VI STA ACCADENDO.


Esperienze (1)

Inizio la pubblicazione di alcune note personali sulle esperienze meditative. Specialmente nei primi tempi della pratica (e cioè a partire dal 1987) tenevo un diario. Nel 1991 pubblicai parti di questo diario nella mia Wudang Kungfu newsletter n. 4/'91:



L'ESPERIENZA DEL JHANA



Si dice normalmente che non bisogna esporre i ‘frutti' delle pratiche meditative e ciò ha sicuramente una base di giustezza poiché chi sente il bisogno di vantare "ho raggiunto questo o quest'altro" sicuramente non ha per niente superato gli ostacoli meditativi come, ad es., la credenza in una propria personalità. Il suo ‘io' è ancora molto forte ed esige riconoscimenti. Ciò è senz'altro un ostacolo alla pratica meditativa.
D'altra parte ho sempre avuto la convinzione che conoscere gli ostacoli, i dubbi, i risultati, i salti all'indietro, i tempi della pratica di una persona sia di immenso aiuto per gli altri.

C'è in sostanza l'esigenza di confrontarsi con le esperienze altrui, a volte anche soltanto per rincuorarsi...
Personalmente non mi ritengo un buon meditatore: la mia pratica è spesso saltuaria con picchi di intensità e abissi di mancanza. Ci sono lunghi periodi in cui non mi metto a sedere con le gambe incrociate. Tuttavia l'auto-osservazione non mi abbandona mai completamente neanche in questi periodi. Questa auto-osservazione spia i miei movimenti, le mie azioni e motivazioni e porta ad una certa consapevolezza continuativa anche se non continua.

Ci sono poi periodi in cui scatta qualcosa e sento urgente la necessità di praticare. Per questo mi sono comprato una sveglietta silenziosa che mi sveglia alle sei e mezza del mattino che ritengo l'ora migliore, almeno per me. Vado in bagno e poi mi pongo in "mezzo loto" . Con il tempo mi sono accorto che si è dilatata enormemente la capacità di restare seduto. Mi accorgo che ne è passata di strada da quando 5/10 minuti mi sembravano un'eternità faticosa. Adesso riesco a praticare normalmente sui 45 minuti ma le tappe precedenti sono state: 5, 10, 20, 30, 40 minuti rispettivamente e questo nel corso di vari anni.


Anche qui l'impazienza è la cosa peggiore. Guai a non accettare i propri limiti, a voler bruciare tutto in poco tempo. Anche questo è un modo di essere consapevoli: non puoi stare seduto più di 5 minuti? Accettalo con tranquillità. Più in là forse riuscirai a fare di più. A volte mi viene la tentazione di "spingere" oltre, qualche volta sono arrivato ad un'ora ma questo non mi sembra saggio, anche questo mi sembra far parte di quella ‘sete ‘ tanto criticata e che presuppone un ‘io' avido di risultati. Le cose vanno lasciate maturare piano piano. Mi ci sono voluti quasi 5 anni per riuscire a stare seduto tre quarti d'ora, in altrettanto tempo potrò forse andare oltre.



Un'altra osservazione da me fatta è che con il passar degli anni lo stesso scoraggiamento (che è frequente in tutti) diventa sempre più ‘pratica' di meditazione, oggetto di osservazione. All'inizio lo scoraggiamento è forte e diventa un pretesto per interrompere. Quando il carattere si fortifica e ci si accorge dell'aspetto pretestuoso dello ‘scoraggiamento' (in realtà dovuto alla ‘sete' , la sete di fare cose più mondane, apparentemente più gratificanti) , lo si prende in esame come uno stato da osservare. Allora svanisce.
Lo scopo dell'osservazione meditativa Vipassana è proprio questo: l'osservazione del ‘nascere e scomparire' delle sensazioni fisiche e degli stati mentali, il rendersi conto che non c'è niente di stabile in noi, che siamo un aggregato di stati fisici e mentali in continuo divenire.

Un espediente che ho trovato utile come aiuto è la ripetizione di un ‘mantra'. Niente di esoterico, semplicemente ‘pura attenzione ed equanimità' oppure ‘pura attenzione'. Questo, legato all'osservazione del respiro, fornisce il filo continuo che tiene legata l'attenzione. Ho trovato che se si ripete ‘pura attenzione ed equanimità' si resta nel campo della Vipassana, questo perché dovendo essere equanimi si deve fare attenzione alle sensazioni fisiche e agli stati mentali. Se invece si ripete solo ‘pura attenzione' si può scivolare in una meditazione di tipo ‘samadhi' (Jhaana, Dhyaana) con il paradosso dell'attenzione che scruta se stessa. La differenza sta nel fatto che Vipassana è una meditazione di tipo analitico mentre quella samadhica porta a scivolare in una mente serena, priva di pensieri e luminosa...




Per un certo periodo, seguendo le indicazioni di non ricordo quale libro, ho tenuto un breve registro di note sulla mia pratica. Le note cominciarono a essere scritte in un periodo particolare, due anni dopo che avevo cominciato a fare meditazione, in occasione di una certa esperienza. Si perdoni perciò l'enfasi e la gioia che le pervadono. L'esperienza, benché solamente accennata, fu forte e diede molta spinta alla mia pratica. La posso inquadrare così: a quel tempo avevo appena ripreso a meditare dopo un periodo di stasi e scoraggiamento. Ecco qui sotto la nota di quel giorno.


Lunedì 20 marzo 1989.

Sono entrato nel Primo Dhyana. E' stata un'esperienza meravigliosa che mi ha riempito di gioia. Non credevo che fosse possibile!
Come al solito mi sforzavo di avere pura attenzione senza riuscirvi: i pensieri continuavano ad arrivare ed arrivare, me ne accorgevo in ritardo ma li osservavo; allora raddoppiavo l'attenzione, sul respiro, sul mantra ‘pura attenzione' o sull'osservazione della nascita dei pensieri.
Tutt'a un tratto è stato come se -tac- fossi entrato in un'altra dimensione. La mente era PURA, senza pensieri se non un residuo di pensiero osservante che subito mi ha reso consapevole, come in un attimo di illuminazione intuitiva: "Sono entrato in un Dhyana!" . Mi sono sorte gioia e commozione. Allora è vero, esistono i dhyana, esiste l'illuminazione, esiste la gioia pura della pura attenzione.

Benché come al solito mi fossi posto un limite alla seduta (limite che precedentemente era un obbligo che aspettavo con sollievo), limite che coincideva con il battere dell'ora del vicino campanile, quando c'è stato il rintocco ho continuato per quasi altri 10 minuti (in tutto 35/40) perché non volevo abbandonare quello stato. Quando mi sono alzato ero pieno di una gioia incredibile. Avrei dovuto, secondo il mio programma, proseguire con gli esercizi di Yang-Qigong ma ero troppo gioioso, sentivo che non ce n'era bisogno, che avevo raggiunto la salute vera, spirituale e di conjseguenza fisica. Non posso che continuare a ripetermi (tuttora) : " E' meraviglioso, è meraviglioso" . Ho ringraziato mentalmente il Buddha che ci ha indicato la strada. Prima il meditare era per me solo un modo di disciplinarmi, di calmare la mente ed anche un tentativo di raggiungere la pura attenzione. Dentro di me ero però incerto sulla mia capacità di farlo, così avevo adottato, questa mattina, la predisposizione d'animo di praticare senza voler raggiungere niente. Di farlo senza scopo, quasi impersonalmente, come una cosa che semplicemente va fatta. Si vede che questo stato d'animo era quello giusto perché d'un tratto è successo. Ora mi sento stordito e mi chiedo quali strade mi si pongano davanti. Alla mente mi viene la similitudine di un fiore ad un tratto sbocciato.


Nota Posteriore (1991):


Riprodussi la stessa esperienza diverse volte nei giorni seguenti ma mi accorsi che questo mi portava ad essere molto distaccato dalle faccende mondane e questo allora mi spaventò; presi perciò le distanze dalla pratica per un lungo periodo. Non solo: una volta ripresa la pratica dovetti spesso lottare contro questo desiderio di riprodurre il Dhyaana/jhaana o samadhi e lentamente giunsi alla conclusione che quanto più lo desideravo tanto più mi era difficile riprodurlo.


Leggo ad es. una breve nota riferita al 15 ottobre 1989: "27 minuti. Desiderio di samadhi, così meditazione ansiosa e desiderante. Solo sulla fine mi sono un po' calmato". Questo tipo di cose mi accompagnarono a lungo.


Nota 2005:


Nel tempo ho dovuto sviluppare il "lasciare andare" rispetto alla pratica. Questa è una condizione necessaria per il samadhi. Detto questo, oggi come oggi mi interessa poco raggiungerlo. Penso di aver capito come funziona , funziona proprio sulle linee su cui baso il mio modo attuale di meditare, perciò non me ne curo e procedo su quelle linee. Quello che vedo importante è rompere la catena del sorgere condizionato e l'anello da rompere lo individuo nell'"afferrare", afferrare (upadhana) che include gli stessi obiettivi spirituali. Perciò cerco di stare nel qui ed ora ed osservo il momento dell'afferramento.


Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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