Nel numero precedente veniva fatto un invito a vedere cosa c’è davvero invece di aderire alle opinioni e ai punti di vista. Vorrei oggi fare un esempio che mi è accaduto e da cui forse, se uno vuole, si potranno trarre analogie per la vita quotidiana.
Mi è accaduto stamani che, essendo nei pensieri per una certa situazione sviluppatasi sul mio lavoro, stavo guidando la macchina e ragionando dentro di me quando, tutt’a un tratto è sbucata da una curva un’altra macchina e io mi sono accorto di trovarmi perricolosamente verso il centro della strada. Sono riuscito, con prontezza, a rientrare però l’incidente mi ha spinto a vedere cosa c’era davvero in quel caso. E che cosa c’era davvero? C’era attrazione da parte di certi contenuti e non-presenza a cosa c’era davvero, cioè alla distrazione.
Mi sono detto allora: in caso di incidente grave, magari mortale, quello che sarebbe contato sarebbe stata il contenuto dei miei pensieri, che in quel momento mi sembrava davvero importante e vitale, oppure quello che c’era davvero, cioè la mente ubriaca di quei pensieri? Noi siamo sempre pronti a farci ubriacare dai nostri pensieri, dai nostri contenuti, belli o brutti che siano. Questa è la mente, la scimmietta che ci tiene le mani sugli occhi mentre guidiamo (o facciamo altre cose) .
Ma più importante ancora è una considerazione riguardo ai contenuti chiamiamoli “religiosi” o “metafisici”: avrei potuto essere un mistico, tutto intento al pensiero di Dio o comunque della Realtà Ultima… e sarei morto perché non presente a quello che c’è davvero. La bellezza dei contenuti mi avrebbe oscurato la vera presenza di quel che c’era davvero e cioè il funzionamento, nudo e crudo, della mente. Dico questo perché sia chiaro che cosa sia davvero importante al di là delle nostre credenze o adesioni contenutistiche.
Vedere cosa c’è davvero o, detto in altri termini, accettare le cose come sono venute in essere. Vedere le cose come sono venute in essere (yatabhuutam ) significa comprendere a fondo la causalità, capire che qualunque stato o situazione che ci troviamo a vivere (con le relative reazioni mentali) ha cause e condizioni piantate come semi dentro di noi. Queste predisposizioni ci fanno reagire come reagiamo.
Queste predisposizioni sono in una certa misura necessarie, servendo ad organizzare la nostra vita, a discriminare fra miliardi di dati che ci arrivano quotidianamente. Sono le predisposizioni però che ci portano facilmente a perdere di vista la realtà così com’è e a sostiturvi la visione che più ci aggrada. Un pensatore moderno non buddhista, William James, ha così sintetizzato questo dato: “ La vita intellettuale dell’uomo consiste quasi integralmente nella sua sostituzione di un ordine concettuale al posto dell’ordine percettivo in cui avviene originariamente la sua esperienza” . In questo processo di concettualizzazione, in questo “mettere le cose insieme” (il senso letterale della paola indiana samskaara , tradotto sia con ‘predisposizioni’ che con ‘costruzioni’ a seconda del contesto), i nostri interessi vengono facilmente trasformati (in base alle sensazioni che ne riceviamo) in desiderio o avversione che sono la causa del nostro soffrire. Così, mentre abbiamo bisogno delle predisposizioni per vivere, possiamo anche vedere come esse ci portino facilmente alla sofferenza. Perciò dobbiamo cercare una pacificazione di queste predisposizioni, un po’ come curare una malattia.
Per curare una malattia occorre una diagnosi ed ecco che qui arriva l’importanza del ‘vedere cosa c’è davvero’ . Nel Medioevo ed in certe culture odierne si curava la malattia in base a pregiudizi ereditati, ad una certa visione del ruolo dell’uomo in rapporto a Dio ecc. ; naturalmente, dovuto all’ignoranza di come stavano davvero le cose, la diagnosi era spesso inventata, fabbricata, e questo portava a risultati per lo più disastrosi. Al giorno d’oggi per la diagnosi il medico ha a disposizione tutta una serie di dati che gli fanno vedere la situazione dell’organismo in modo abbastanza oggettivo. Per questo, per curare le nostre vite, noi abbiamo bisogno di una diagnosi, di vedere “cosa c’è davvero” e non di partire da dati culturali ricevuti, da credenze o da speculazioni metafisiche. Una volta visto quello che c’è, le cose cominceranno a cambiare.
Vedere quello che c’è porta all’accettazione. Vediamo quello che c’è, sappiamo che c’è perché vi sono cause e condizioni per cui vi sia. Tutto sommato siamo obbligati ad accettarlo. Date quelle cause e condizioni, le cose non potevano essere diversamente. Se le cose non potevano essere che così, non c’è motivo per non accettarle. Avviene una relativa pacificazione con il mondo così com’è.
Un passo oltre è cogliere nella catena causale (contatto sensoriale>sensazione piacevole>desiderio>afferramento> venire in essere ) l’anello dell’afferramento (gli Inglesi usano il termine clinging , io preferisco ‘afferramento’) . E’ questo l’anello in cui possiamo usare il ‘lasciare andare’ . Se noi rompiamo qui la catena causale, la nostra mente diventa pacifica e silenziosa.
Questo vale in generale. In particolare, per chi medita, c’è un tipo di afferramento sottile, quello “spirituale” che io definisco anche “materialismo spirituale”. Vogliamo risultati senza capire che la Liberazione è proprio un aderire alle cose come sono, un’assenza di risultati. Un risultato è un bagaglio. Non ci sentiremo liberi finché avremo bagagli.
Nella discussione di ieri, Elena, che è una nuova venuta, ha posto il problema che però è di tutti o quasi. “ Mi accorgo che quando medito non riesco a sorridere. Se qualcuno vedesse il mio viso non noterebbe felicità ma sofferenza” . Questo il senso del suo discorso.
La mia insistenza sul sorridere non deve essere una forzatura, non possiamo sorridere a comando o come fanno certe sette religiose che per presentarsi adottano un sorriso un po’ artificiale (come qualche politico) . Come tutte le cose sorridere è un processo che sorge, si rafforza, continua e può anche finire o modificarsi. Se noi cominciamo la nostra pratica con l’attenzione al respiro e con il sorriso (magari usando la scia della gioia che sorge dallo stare insieme in meditazione
o qualche altro motivo non sensuale) , se poi continuiamo osservando sensazioni e pensieri, se poi portiamo la nostra attenzione sul SORGERE di queste sensazioni e pensieri, potremo cogliere lì il punto di afferramento e lasciare andare. A questo punto la mente si tranquillizzerà e pacificherà e il sorriso potrà rafforzarsi.
“Perché la gente non fa meditazione?” ho chiesto a Elena. “Perché non vi trova soddisfazione. La nostra vita è tutta così basata sul fare per ottenere che lo stare semplicemente lì, senza ottenere nulla, ci sembra spiacevole. Si cerca nella pratica spirituale un arricchimento. Invece la pratica vera è un impoverimento, un lasciare andare. Questa è l’analisi che nel tempo ho fatto anche di me stesso. Praticavo per ottenere. Per questo a volte si dice che la meditazione ‘è andata male’. Abbiamo avuto confusione nella mente. In realtà non è andata male, siamo semplicemente noi a esprimere un giudizio sulla realtà. Ma se noi aderiamo alla realtà di quel momento, se stiamo con lo stato confusionale, che motivo c’è di dire : ‘E’ andata male’? Certo stiamo male perché ci facciamo risucchiare dai nostri pensieri. I pensieri ci affascinano, anche quelli di sofferenza; ci risucchiano. Non bisogna però sviluppare avversione nemmeno verso di essi. Siamo consapevoli che se ci sono è per cause e condizioni, quindi né li dobbiamo accettare (attaccamento) né li dobbiamo respingere (avversione). Dobbiamo solo toccarli lievemente, direi quasi con benevolenza e poi lasciarli andare al loro destino’. Allora la mente diverrà naturalmente silenziosa, cioè avrà come una stanza posteriore di silenzio da cui si vede l’apertura della stanza anteriore piena di chiasso e confusione; ma noi siamo lì a goderci il silenzio e osserviamo distaccati il rumore. Io lo chiamo ‘fare un passo indietro’.
Un passo successivo può essere fare attenzione ai ‘segni’. Voglio dire che anche in questo relativo silenzio, osservando corpo e mente, potremo notare qua e là dei ‘segni’ (i segni provengono dal desiderio o dall’avversione) : una contrazione, la faccia tesa, immagini… Notando questi segni dobbiamo subito essere consapevoli del loro sorgere da desiderio o avversione. A quel punto scompaiono e noi sentiamo un maggiore rilassamento. Questa io la chiamo ‘meditazione verso il senza-segni’. Spesso questi segni vengono da un’inconscia pulsione ad ‘ottenere’ . Bisogna lasciare andare anche queste pulsioni ‘spirituali’.
martedì 19 giugno 2007
A proposito di quel che c'è davvero...
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