Abbiamo avuto una discussione, poco fa (ore16,30 del 17 gennaio 2004) che mi sembra interessante riportare (se mi riesce).
Stavamo parlando, dopo la seduta di meditazione del sabato, del fatto che, riguardo ai pensieri, né bisogna accettarli né bisogna respingerli, portando su di loro l’attenzione in maniera distaccata, facendo un passo indietro, portando su di loro un’attenzione leggera come una piuma… ed il discorso è finito sul fatto dello stare in meditazione senza uno scopo. L’ ho tirato fuori io probabilmente dicendo che dobbiamo fare una ricapitolazione, verso la fine della meditazione, e osservando che non abbiamo ottenuto niente, essere felici di questo. “Viviamo in un mondo capitalista dove tutte le cose che facciamo ci devono portare un guadagno, un vantaggio . Proprio per questo la meditazione deve essere diversa. Dobbiamo essere contenti proprio di non aver ottenuto niente, proprio di essere fuori da quella logica” .
A quel punto Dante, che è dotato di uno spirito acuto e bizzarro, con molta prudenza ha fatto notare la contraddizione. “Però allora non è che ci poniamo in un’ottica simile? In realtà tu ti poni lo scopo di non avere scopo”.
“E’ proprio vero”. Ero pieno di gioia per questa osservazione “E’ proprio così. E questo non lo diciamo solo noi, non lo dico io… è una cosa con cui si sono urtati i praticanti della meditazione nel tempo, accorgendosi che c’era anche uno scopo nel non avere scopo. E allora cosa restava da fare? Abbandonare anche questo scopo. Ma allora che cosa accade quando si abbandona anche lo scopo di non avere scopo?”.
“Si diventa illuminati” ha detto Luigi.
“In un certo senso è così. Ma che cosa resta allora, praticamente?”
“ Non resta nulla” ha detto Doretta.
“Sì, è vero. Ma nella pratica, nella vita comune di tutti i giorni, che cosa resta? E’ una cosa a cui sono arrivato da non molto tempo anch’io, forse un paio d’anni. Che cosa resta se eliminiamo anche lo scopo di non avere uno scopo? Guardate che non è una cosa a cui sono arrivato io e basta. Altri ci sono arrivati parlando ad esempio della vacuità. C’è anche, cioè, una vacuità della vacuità. Ma allora che cosa resta? Ma, senza andare in cose così lontane, così astratte come parlare della vacuità, che cosa resta se lasciamo andare anche lo scopo di non avere scopo?”
C’era parecchia perplessità, ma anche moltissimo interesse.
“ E’ interessante, no? Ci si rende conto che siamo arrivati, qui, all’ultima spiaggia. Ricapitoliamo. Io ci sono arrivato, ma penso che sia giusto arrivarci insieme. C’è uno scopo. Lo nego, lo lascio andare. Mi sforzo di non avere uno scopo. Mi accorgo di questo sforzo, di avere cioè uno scopo, e lascio andare anche questo. Che cosa resta dopo?”
L’interesse era più vivo che mai, c’era la vivacità intellettuale di chi si rende conto di essere a una svolta.
“Credo che un esempio che ho già fatto altre volte possa chiarire la situazione. Nel Kungfu si cita un detto Zen: “ Prima di praticare, un pugno è solo un pugno. Durante la pratica un pugno diventa qualcosa che non si sa più bene che cosa sia. Poi si ritorna al fatto che un pugno è ancóra un pugno. Dove sta la differenza?”
“Nella consapevolezza che viene dopo aver praticato un insegnamento” (Doretta).
“ E nella semplicità. Il pugno è ridiventato un pugno come all’inizio. Ma c’è un’altra qualità nel darlo. E lo stesso avviene dopo aver abbandonato lo scopo del non scopo. Come cambia la vita?”
(Perplessità ma intuizione generale. Difficoltà ad esprimere ciò che si percepisce) .
“Io credo che abbandonando lo scopo di non avere scopi si possa ricominciare tranquillamente ad avere scopi. Siamo cioè tornati al punto di partenza. Ma con una qualità diversa. Siamo ricaduti nella semplicità ma la qualità è diversa.”
“Vuoi dire cioè che si possono fare le cose ma le guardi con un’altra ottica?” (qualcuno, forse a più voci ) .
“ Sì, esatto. Puoi fare le cose normali della tua vita privata normale, le puoi fare avendo gli scopi che ci si dà normalmente in queste cose, ma le puoi fare non avendo in ultima analisi alcun scopo. Le fai perché le devi fare e le fai al meglio ma dietro non c’è più l’afferrare di una volta”.
Dante: “E allora magari ti vengono anche meglio. E’ come quando devi fare una dimostrazione di Kungfu e magari non sei preparato ma tutto ti viene bene…”
Io (estasiato) : “ Sì, è proprio come in quel caso…”
Abbiamo ripreso a parlare a più voci e siamo poi finiti sul tema di osservare le nostre meditazioni e di dover essere felici della loro assenza di risultato.
Luigi: “ Cioè, a volte ci sono risultati, di star bene ecc., a volte no: Dobbiamo accettare entrambi”.
Doretta: “ Ma allora il risveglio, l’illuminazione, è semplicemente…”
“Sì, è semplicemente vivere” e mentre dico questo, mi viene in mente che è una frase del filosofo Wittgenstein (che non a caso è citato spesso dagli studiosi moderni in relazione a Nagarjuna) . “E’ la vita di tutti i giorni. Per questo Nagarjuna ha detto: “ Non c’è la nemmen più piccola separazione fra il samsara e il Nirvāna” .
“Che cos’è il samsara?”
Luigi o Doretta: “ La vita di questo universo”.
“Esatto” riprendo, “ ed è questo l’interessante. La persona liberata ritorna a vivere una vita nella semplicità. Probabilmente fa le stesse cose che fanno gli altri. Ma non vive più nella paura. Noi viviamo tutti nella paura. La paura di soffrire, la paura di perdere le cose, gli affetti, la paura di morire… Ecco che cosa si prova in un’esperienza di realizzazione. Guardando alla propria vita non vi sono più paure. Di nessun tipo. Si è liberi.”
Dante: “ Ma c’è una relazione fra questa assenza di paura e l’assenza di risultati di cui si parlava prima?”
“Certamente sì (non riferisco il resto della conversazione…. ) . Credo che ci siano comunque una serie di concause. Ma comunque penso sia importante ricapitolare la nostra meditazione, quando arriviamo verso la sua fine, e guardando la nostra esperienza e vedendo che non vi sono risultati, essere estremamente felici che non ve ne siano” .
Ho fatto uno sforzo notevole per riferire con una certa fedeltà il contenuto della nostra conversazione. Mi sembra davvero importante. Accomiatandoci eravamo ancora pieni della vivacità frizzante della discussione.
Ho pensato di trascriverla al più presto prima di dimenticarla perché mi sembrava importante introdurre questa prospettiva, forse insolita, nella pratica di chi legge queste note. Spero che ciò non sia valutato come arroganza ma sia come sia, questo è quasi il verbale della nostra discussione di oggi (non di tutto quello che ci siamo detti però) . Sintetizzandola, il punto importante è: osservare, ricapitolare una seduta meditativa ed essere contenti che non vi siano risultati. Poiché però anche questo è un risultato, abbandonare anche questa idea e quindi tornare alla prossima meditazione….come? Qui le parole cominciano a mancare, anche la pratica sembra arrivare alle soglie della vacuità. Viviamo in un mondo di mente e linguaggio e se cominciamo a non trovar più le parole… forse questo è di qualche significato.
La pratica spirituale ha spesso un inconscio aspetto materialistico, un “materialismo spirituale” che consiste nella voglia di ottenere, fosse pure ottenere un incontro con Dio, con la totalità… è questa voglia di ottenere che ci ostacola, che ci fa dire che una meditazione, ad esempio, “è andata male” . Una meditazione nella consapevolezza non può mai andare “male” . Se abbiamo questa sensazione dobbiamo chiederci perché. In realtà questa sensazione è un’ottima spia del nostro materialismo spirituale, della nostra voglia di “afferrare”, di guadagnare, di “arricchirci” (spiritualmente) . E’ questo lo stesso motivo che porta le persone ad una ricerca simoniaca del “meraviglioso”, della miracolistica… qualcosa che si possa insomma “portare a casa” in qualche maniera.
lunedì 19 gennaio 2004
Paradossi meditativi
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