Ci sono 4 “Residenze infinite” o “incommensurabili” in cui si può vivere (o tentare di vivere) e sono precisamente la gentilezza amorevole, la com-passione, la gioia per la gioia altrui, l’equanimità.
Si può osservare come le prime tre di queste “residenze” siano sfumature di una stessa emozione, quella della nostra empatia verso gli altri. Perciò in genere si prende in considerazione, fra queste, la “gentilezza amorevole” che, grosso modo, comprende anche gioia altruistica e compassione. Essa è anche la base del sorriso interiore empatico, quello che si espande dentro di noi e irradia fuori di noi.
La quarta “residenza” è quella dell’equanimità che ha un’importanza particolare, superiore alle altre anche se realmente inseparabile da esse. Se l’equanimità non fosse infatti stemperata da amorevolezza, compassione e gioia altruistica potrebbe facilmente divenire fredda indifferenza. Si tratta, in effetti, di una sorta di indifferenza partecipativa.
Detto così il concetto può apparire sgradevole: indifferenza partecipativa- che mai vorrà dire? Si tratta di una contraddizione (ho spesso portato all’attenzione come la pratica meditativa porti a questi paradossi. E come potrebbe non essere così visto che si va, in essa, al superamento dei dualismi? Questo superamento richiede, in effetti, di andare a unificare gli opposti) .
L’indifferenza partecipativa appare come uno di quei vecchi tavolini rotondi da bar che andavano di moda anni fa dove il sopra, piano, era tenuto su da tre gambe. Benché di questo tavolino noi usiamo solamente il sopra, non potrebbe esservi un vero tavolino senza le tre gambe. Il lettore scaltro avrà già capito che il sopra è l’equanimità e il sotto sono le altre tre forme di empatia. Quindi l’equanimità è superiore ma non può dispiegarsi pienamente se non basandosi sulle altre tre gambe.
Ma perché l’equanimità sarebbe superiore?
A prima vista non sembrerebbe così. La nostra tradizione cristiana ci porta a considerare l’amore come virtù primaria. Il problema della parola “amore” è che copre aspetti assai diversi tra loro, dall’amore sensuale all’amore per l’umanità intera ( purtroppo la tradizione in cui siamo stati allevati non contempla l’estensione dell’amore a tutti gli esseri viventi, cioè non vi contempla ad es. gli animali, considerati quasi come “ oggetti a nostra disposizione”) .
Ora se l’amore per l’umanità intera è un concetto “nobile” che va sicuramente oltre ciò che riguarda la nostra sola persona e porta ad uno stemperamento dell’ego, è anche vero che ad es. l’amore sensuale è su un’altra lunghezza d’onda rispetto all’amore per l’umanità, essendo in genere basato su spinte che vengono dall’ego e confinando con stati come possessività, rancore, odio e sofferenza. L’amore sensuale, per bello che sia, è come il miele spalmato sul filo di un coltello affilatissimo. Lo puoi leccare e goderne ma puoi facilmente tagliarti e sanguinare. Tutti ne abbiamo fatto esperienza. Perciò la parola “amore” è per lo meno ambigua e nella pratica meditativa preferiamo la parola gentilezza amorevole ( o benevolenza) .
La gentilezza amorevole può essere portata a perfezione quando la estendiamo al massimo, quando cioè diviene qualcosa di incommensurabile, quando la rendiamo, come residenza, una residenza “infinita” e per fare questo non ci possiamo limitare a un singolo compartimento della vita, quale l’umanità, ma dobbiamo estenderla a tutti gli esseri viventi, inclusi i non-umani.
Nella nostra pratica includiamo anche la sua estensione agli animali, alle possibili divinità e ai possibili demoni, identificando questi ultimi non come “il Male” ma come forme vitali mentali di sofferenza. Fra gli esseri la estendiamo anche a quelli che normalmente aborriamo. Faccio spesso l’esempio di Hitler, Stalin ecc. ma io ho una ripugnanza istintiva, direi un terrore atavico, per i coccodrilli che talvolta sono arrivato perfino a sognare.
Bene, quando pratico la meditazione amorevole e arrivo al mondo animale, dopo averlo preso in considerazione in generale a partire dai nostri amici più gradevoli, porto la mia attenzione sul coccodrillo (o, talvolta, sullo squalo) e mi identifico con esso: comprendo le sue motivazioni primordiali e compulsive – mangiare, mangiare- ed ho compassione per questo essere la cui vita è limitata ad un livello così basso da precludergli (probabilmente) i livelli di comprensione superiori tipici ad es. di un gatto, di un cane o ancor più su di noi umani. Pure anche questo essere avrà una forma primitiva di amore (per la sua prole ad es.) . L’identificazione con questo essere mi porta a rompere la barriera dell’avversione.
Estendere la nostra benevolenza verso tutti gli esseri significa perciò abolire ogni distinzione, significa liberare la mente. E’ qualcosa da non sottovalutare. Però la gentilezza, insieme alle sue due sorelle , va unita all’equanimità verso gli esseri.
Nel Buddhismo le quattro dimore infinite vengono sempre raccomandate ma talvolta considerate come un accessorio della Vipassana. Però studiosi moderni, come Richard Gombrich, hanno dimostrato come il Buddha le considerasse una via vera e propria alla Liberazione (ne parlerò in seguito) . Naturalmente si deve parlare di tutte e quattro le dimore, non solo della gentilezza amorevole. Infatti se nella pratica generalizzata e infinita di quest’ultima andiamo all’identificazione empatica con tutti gli esseri, nella pratica dell’ EQUANIMITA’ ci installiamo saldamente nella pratica di cui sopra (la benevolenza) per poi andare a prendere in considerazione il destino degli esseri. Infatti l’amorevolezza porta a forme di attaccamento, sia pur gentili e altruistiche: porta perciò anche a soffrire per il destino degli esseri. Non è ancora liberazione anche se è una liberazione della mente, una cetovimutti . Una forma di superamento dei propri limiti che però arriva a confinare con attaccamento e sofferenza.
L’equanimità come pratica meditativa , si esegue invece prendendo in considerazione il destino degli esseri e ACCETTANDOLO. E’ UNA FORMA DI ACCETTAZIONE.
L’equanimità è una presa d’atto dell’ineluttabilità della sofferenza per gli esseri, dovuta al fatto che gli esseri sono eredi delle proprie predisposizioni (non foss’altro la predisposizione a “voler vivere”) . E’ difficile da praticare perché ci è difficile accettare l’inevitabilità della sofferenza dei nostri cari e del nostro destino, qualunque esso sia. Ma proprio per questo possiamo percepire come essa ci porti bene“al di là” delle nostre concezioni abituali.
giovedì 19 ottobre 2006
Le residenze infinite
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