lunedì 30 novembre 2009

IL KUNGFU, IL TAIJI ED ALTRO…


Prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti ….


Mi è capitato di leggere un libro intitolato ’E venne chiamata due cuori’,  autrice Marlo Morgan (BUR) .  Si tratta della storia di una professionista che parte, su invito di una tribù di aborigeni australiani, convinta di partecipare a una cerimonia in suo onore. ‘Si ritrova invece in una foresta vasta e minacciosa, dove le viene chiesto di seguire la Vera Gente, come la tribù si definisce, in un viaggio di quattro mesi nell’Outback australiano, a piedi nudi, a volte senz’acqua, cibandosi di quanto offre la terra’ . Quello che mi ha colpito di questa esperienza è stato il senso di comunità umana che traspira da ogni pagina, il senso di una comunità con il tutto. Riferendosi ai giochi ad esempio, questi aborigeni dicono: ‘ Se uno vince, tutti gli altri perdono’ e questo mi ha fatto pensare. Un po’ tutta una serie di cose mi ha fatto pensare. Ero a letto ma mi sono dovuto alzare per scrivere queste cose prima che sparissero con le briciole del sonno. Mi è venuto da pensare prima di tutto a una mia amica. Questa mia amica ha una mentalità diciamo così, senza offesa, ‘reazionaria’, cioè incapace di adattarsi ai cambiamenti del mondo che infatti giudica completamente sbagliato. Questa mia amica discrimina pesantemente e crea spesso situazioni conflittuali. Di conseguenza, entrando sempre in conflitto con il mondo così com’è, soffre molto e crea anche separazione dagli altri, tant’ è vero che io, scherzando, le dico che anche le sue amicizie sono ‘a tempo’. Per comprendere meglio: una volta voleva rompere un’amicizia con me che dura da 37 anni (sic) semplicemente perché su un argomento banale la pensavamo diversamente. Non riusciva ad accettare che io la pensassi diversamente da lei! Bene, pensando a lei, mi è venuto da notare questa sua opposizione al mondo che la separa dagli altri, la mette in conflitto con gli altri. Ma mentre pensavo in questi termini ho realizzato che, pur essendo così separata, nemmeno lei è realmente separata dalla comunità umana, “è per me solo una sorella che rimane indietro”.


‘Se uno vince, tutti perdono’. Questo mi ha anche portato a una riflessione su quello che faccio. Non sempre riesco a trasmettere agli altri il vero senso di quello che faccio. Mi riferisco al Kungfu e al Taijiquan di cui sono insegnante. Per una sorta di rispetto erroneo per la libertà altrui, non sempre sono riuscito a passare quello che per me era il senso dell’insegnamento di queste due discipline. Davo forse per scontato che dall’insegnamento stesso venisse fuori, dal mio modo di pormi verso gli altri venisse fuori e forse, almeno in parte è così, è venuto fuori. Ma un insegnamento spirituale un po’ più esplicito non sarebbe guastato. Mi viene da pensare ad alcuni miei carissimi allievi che nel tempo hanno cominciato a differenziarsi da me. “Ma noi non facciamo gare?” ed hanno poi scelto altro. Questa è la prima domanda che emerge come spia di una certa insoddisfazione e differenziazione. Io sono contrario alle gare, per lo meno se non si svolgono in uno spirito di gioco fraterno e amichevole il che non è affatto il caso nella maggior parte delle situazioni, nel contesto di federazioni da cui mi sono quasi sempre tenuto rispettosamente alla larga. D’altra parte accetto anche che esistano persone con idee differenti dalle mie, ciascuna con le sue predisposizioni e le proprie esigenze e desiderose di prendere strade diverse dalla mia.


Quello che penso io dell’arte marziale, non diverso dalla mia visione, diciamo così ‘spirituale’ , è che le cose andrebbero fatte per il solo gusto di farle (e farle bene), senza alcun desiderio di afferramento personale; andrebbero fatte per la perfezione stessa, senza il desiderio egoico della sopraffazione dell’altro. In parole povere noi non dovremmo usare la tecnica per sopraffare l’altro ma dovremmo noi stessi DIVENTARE LA TECNICA. Questo è molto più facile nelle forme a solo, specialmente nel Taijiquan; diventa più difficile quando siamo in relazione con un’altra persona.


E allora mi viene alla mente il mio modo di insegnare, molto basato sui duilian, cioè esercizi a due di caratteristica circolare dove non vi sono un vincitore e un vinto ma entrambe le persone che vi partecipano continuano a scambiarsi tecniche parando e attaccando ininterrottamente senza mai farsi male. Ho strutturato questi duilian in modo che ti portino gradualmente, quasi tenendoti per mano dicevo ieri a un mio allievo, dalla struttura alla libertà, dal costruito al libero. Dentro di me sono fiero per questo tipo di insegnamento che ho perfezionato sempre più negli ultimi tempi e che mostra da una parte un maggior realismo rispetto al passato e dall’altra mantiene gli allievi in un percorso reciprocamente rispettoso e nello stesso tempo coinvolgente. A volte, un po’ a malincuore lo ammetto, faccio fare anche combattimento libero ma sono contento solo quando il livello si mantiene più o meno pari e nessuno dei due contendenti emerge con una vittoria assoluta. Questo perché il combattimento è una brutta bestia, dove tende ad emergere l’aspetto più egocentrico della persona, quello in cui si scatenano gli impulsi più feroci pur di vincere. Ma ‘se uno vince l’altro perde’. E questo provoca nel vincitore orgoglio e aumento dell’ego e nel vinto depressione, sofferenza, umiliazione. E invece quello che io voglio creare, il contesto in cui voglio vivere, è quello dell’amicizia e della fratellanza, quello in cui se sento di aver fatto le cose bene mi basta, sia che vinca sia che perda (naturalmente se ‘perdo’ vuol dire che non ho fatto le cose bene e questo mi deve servire da indicatore per migliorarmi). Un esempio di come dovrebbe essere un combattimento di kungfu appare nel videoclip ‘Kungfu combat’ che io ho messo sulla homepage del mio sito (http://xoomer.virgilio.it/sinicus) dove entrambi i ragazzi si scambiano , con uno stile tipico del mio kungfu, rapidamente e ferocemente una serie di colpi senza mai farsi male perché entrambi sanno proteggersi bene e dove non emerge mai, nemmeno nell’espressione dei visi, che resta tutto sommato sorridente, quella volontà feroce ed egoista di vincere a tutti i costi a spese dell’altro. Quello che dico sempre: non voglio creare degli spostati, quelli sempre pronti a scatenare la rissa, ma solo persone civili che sappiano anche difendersi ma che comprendano il valore della comunità, quella dove nessuno deve restare indietro e se uno resta indietro è una perdita per tutti. Inoltre l’aspetto giocoso deve essere sempre in prima linea. ‘Finché mi diverto faccio kungfu, quando smetto di divertirmi smetterò anche di insegnare’ disse una volta un maestro e io ho fatto mia questa frase. Una mia allieva di Taiji, Lorena, riconosceva l’altra sera –con mio grande piacere-che questo era in effetti il caso.


Questo che stiamo facendo, scrivendo e leggendo questo testo, è la meditazione di ‘metta’ o ‘gentilezza amorevole’ , ‘benevolenza’ . Questa meditazione deve portare all’abbattimento delle barriere, a considerare l’altro uguale a te stesso, a superare, VEDENDOLI, avversione ed egocentrismo. Ad essere consapevoli del più vasto TUTTO di cui siamo solo una parte. Cito da un libro: ”Il Buddha insegnò a essere generosi se si vuole essere ricchi e a provare compassione se si vuole vincere il nemico. Ammonì anche che per essere ricchi era necessario accontentarsi, e per annientare il nemico bisognava prima vincere la propria rabbia. Infine insegnò che la sofferenza può essere estirpata alle radici sopprimendo l’Io, perché, se non c’è l’Io, non c’è neanche chi soffre”.


mercoledì 4 novembre 2009

IL TEMPO NON ESISTE?


“Prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti..."




Ultimamente pratico spesso la meditazione di gentilezza o, se vogliamo, di ‘amicizia verso tutti gli esseri’. Giusto adesso mi è capitata sotto gli occhi questa frase del Dalai Lama: ‘Io tratto tutte le persone come mie amiche e stabilisco con loro una comunicazione cuore a cuore senza barriere’.


Ad ogni modo questa meditazione comincia, per me, augurandomi salute, felicità e liberazione, poi questo stesso augurio viene rivolto ai miei genitori defunti, alle persone care più vicine, agli amici, a tutte le persone che sono entrate in contatto con me nella mia vita, alle persone verso cui non provo nulla di particolare, a quelle verso cui provo punte di avversione, a TUTTE LE PERSONE e infine A TUTTI GLI ESSERI VIVENTI per poi allargarmi a tutti gli esseri dell’universo.


Da qualche tempo mi sono accorto che l’immagine visualizzata dei miei genitori, fino a poco tempo fa nitida ed emozionalmente coinvolgente, si è appannata, è divenuta meno nitida. Questo mi è dispiaciuto lì per lì, ho sempre provato verso di loro amore e grande riconoscenza per l’amore a mia volta ricevuto.


Ho percepito questo appannamento quasi come una sorta di ingratitudine da parte mia. Questo mi è successo anche oggi. Mi è venuta però questa considerazione: questo è ciò che c’è in questo momento. E’ naturale che, con il passare del tempo, l’immagine dei miei cari sbiadisca. Se in questo momento c’è questo sbiadimento,lo devo accettare, questa è la realtà.


Ma un’altra considerazione se vogliamo più curiosa si è fatta avanti: mi sembra quasi come se non fossero mai esistiti, ormai la loro esistenza ed anche la mia esistenza con loro mi sembra un sogno. Questo mi sono detto e, di conseguenza, a ruota, mi è venuto quest’altro pensiero: ‘Ma sono sicuro che essi siano davvero esistiti e che non siano davvero un sogno?’


Dico questo perché a volte mi è capitato di non essere certo di un determinato fatto e di essermi chiesto: ‘ Ma è davvero successo o me lo sono sognato?’. Vi è mai capitato?


C’è, ad esempio, una persona anziana che conosco che ha una mente che rimugina in continuazione – un fatto davvero non eccezionale, poiché anche la nostra mente è così. A questa persona capita, in seguito a questo suo continuo rimuginare, di costruire situazioni inesistenti, situazioni dove la tale altra persona, ad esempio, ha parlato male di lei. Ed è del tutto convinta che questo sia accaduto! E non è che questa persona anziana soffra di Alzheimer. E’ semplicemente una persona sveglia, intelligente, la cui mente però costruisce, costruisce, costruisce.


A me, evidentemente, succede il contrario, cioè la mia mente de-costruisce. Essendomi sottoposto a tanti anni di pratica mentale meditativa, mi vengo talvolta a chiedere: ma questo è reale?


Non fraintendetemi, il mio cervello è ancora a posto. Però, mi sono detto oggi, per quello che ne so, questi miei genitori e la vita vissuta con loro potrebbero essere tutta un’immaginazione. Sì, è vero, potrei indagare e ricostruire i fatti più o meno reali ma resta il fatto che, al momento, tutto questo mi appare come un’illusione. Allora mi sono detto: in effetti questo passato è qualcosa che noi tendiamo a cosizzare (la parola colta è ‘reificare’), a rendere cosa, sostanza, ma non c’è nulla del genere esistente. Ci sono, è vero, dei ricordi, ma sono semplicemente dati della mia mente. Vi chiedo: è qualcosa che io posso afferrare? No di certo. Posso afferrarlo con la mente e costruirvi sopra, ma non vi è garanzia di realtà.


Ricordate quel film, A Beautiful Mind, la storia di uno scienziato che ha anche ricevuto il premio Nobel non so per quale scoperta e che è sempre vissuto in due mondi paralleli e intersecantesi, quello cosiddetto ‘reale’ e un altro di fantasia, con personaggi fittizi di quest’ultimo che intervenivano pesantemente e talvolta con effetti devastanti sulla sua vita ‘reale’? Lo stesso vale per il nostro passato, è qualcosa che realmente non esiste e non sappiamo se realmente sia mai esistito. E il futuro? Noi viviamo sempre immaginando un futuro, ma possiamo afferrarlo? Possiamo toccarlo? E anche se potessimo farlo, potremmo mai avere la certezza di una sua realtà?


Quando avevo tredici anni mio padre, tornando dal mercato dove era andato a vendere le pesche, mi portò quello che a tuttora giudico un meraviglioso regalo, il primo romanzo che ho letto in vita mia, un romanzo di fantascienza della collana Urania, con i meravigliosi disegni di copertina di Jacono. Il suo titolo era Gli Uomini Ombra, di quell’autore immaginifico che era A. E. van Vogt. In questo romanzo, pieno di spunti interessantissimi che poi hanno condizionato la mia vita intellettuale successiva, tra l’altro si delineava una città del futuro che lottava accanitamente nelle linee temporali per ‘venire in esistenza’. Sì, era in effetti, solo una possibilità, quella che oggi chiameremmo ‘virtuale’. Devo dire che, nel romanzo, questa città non ebbe mai la sorte di venire in essere.


Quindi quel futuro che poteva essere non venne mai in esistenza. Non fu mai qualcosa che potesse essere afferrato. Si rivelò un’illusione.


Conclusione: il passato non esiste (non esiste più?), il futuro non esiste (non esiste ancora?), queste due pseudo-sostanze che ci sembrano avere una propria consistenza, sono solo degli ectoplasmi, dei fantasmi. Sono costruzioni del nostro mondo così intriso di mente. Questi due termini sono un esempio lampante di tutte quelle costruzioni mentali che ci sembrano così reali, come noi stessi (la nostra tendenza è quella di vederci come sostanze eterne, individui non soggetti al decadere e allo svanire), come l’anima e come quella magnifica costruzione che abbiamo chiamato Dio. Alle proteste che subito sorgeranno nella mente, posso solo rispondere: leggete qui sopra quanto scritto e fate da voi le vostre analogie.


Ha qualche senso pratico, tutto questo?


Sì, è quello della liberazione della mente (cetovimutti), la liberazione dai suoi fantasmi, il regno della libertà che è alla portata di tutti e che consiste semplicemente nell’essere liberi.

venerdì 9 ottobre 2009

UTILITA’ DELLA MEDITAZIONE

Con il mio titolo precedente, ’Inutilità della Meditazione’, qualcuno deve aver pensato: ‘Oh, alla fine anche Loriano l’ha capito!’ ; qualcuno mi ha anche scritto per protestare: la meditazione mi è stata utile, ecc.


Questo è il problema di non leggere con attenzione. Il titolo era provocatorio ma ovviamente il senso era, semplicemente, che la meditazione non deve avere come scopo un risultato


Perché questo fa parte, ancora una volta, di quell’ arricchimento dell’ego, perché


conferma / tende a confermare che un sé stabile esiste,


perché ancora una volta si mette in moto


la ruota del ‘sorgere in dipendenza’: da contatto e  sensazione piacevole sorgono in fulminea successione il desiderare,


l’afferrare, il sorgere o venire in esistenza


(di esseri, situazioni ecc.) …


Quindi viene meno quella spassionatezza


Che è il tratto indispensabile


Di una pratica spirituale.



Sento già il gemito di sgomento che sorge in qualcuno: ma come, nel 2009 qui ci si parla di spassionatezza… ma dove si crede di vivere… e mica siamo dei monaci o monache?


Tranquillizziamoci: io, meno che mai sono un monaco.


Per questo è interessante affrontare il problema di che senso abbia fare meditazione al giorno d’oggi, in un mondo laico.


Prima di tutto, sgombriamo


Il campo da false concezioni.


Molti, che vengono dal Cristianesimo (in realtà tutti noi)


si affrettano a dire: ‘ Il buddhismo non


è una religione, è solo una filosofia” (con ciò


intendendo che le sole vere religioni sono quelle teiste e in particolare quella cristiana e, nel caso di chi fa anche meditazione, volendo


salvare capra e cavoli) .


In realtà tutto, tutto quello che facciamo, è filosofia,


tutti noi ci muoviamo in base a


una certa visione del mondo.


Perciò, sì, il buddhismo è una filosofia, il cristianesimo è una filosofia, l’ateismo è una filosofia,


l’agnosticismo è una filosofia ….


Ma il buddhismo (notate che lo scrivo con la minuscola) è anche una religione?


Se per religione si intende la credenza in un dio


Creatore, in un dio personale o anche impersonale, nell’eternità di alcune sostanze più o meno immaginarie, il buddhismo non sarebbe una religione.


Poiché però lo scopo del buddhismo è


soteriologico, cioè liberatorio, ebbene, sì, si può definire una religione.


Il Buddha stesso , il Risvegliato [questo è il senso della parola Buddha] , avrebbe risposto così a tutte le domande sulle varie questioni metafisiche:


‘Io non sono qui a parlarvi di questo ma solo a illustrare la via che porta alla fine della sofferenza’ .



Fatto questo richiamo all’ortodossia buddhista, visto che, come dicevo, non siamo monaci o monache, spostiamoci sulla pratica di un laico.

Il bello del buddhismo è che non c’è nessun dio o buddha da adorare. Il Buddha stesso era solo un uomo che ebbe un risveglio (liberatorio, definitivo e non transitorio come potrebbe essre capitato a qualcuno) e che svanì dall’esistenza e dal ciclo della sofferenza circa 1400 o 1500 anni fa. Svanì dal ciclo delle esistenze. Basta. Il buddhismo stesso fu definito dal suo creatore come un fenomeno e come tutti i fenomeni fu definito transitorio: 500 anni dopo la sua predicazione sarebbe cominciato a decadere con il sorgere di dottrine spurie per corrompersi sempre più e infine sparire. Insomma, predicando l’assenza di sostanza in tutte le cose, anch’esso avrebbe risentito di assenza di sostanzialità.

Interessante, no?

La legge di causalità ( se A esiste, B viene in essere) è la stessa cosa del ‘sorgere in dipendenza’.  Questa può essere verificata facilmente nella nostra vita quotidiana. Ebbene, questo è ciò che porta uno dei vantaggi della meditazione. Vedendo come le cose vengono a sorgere ( e a scomparire) , il meditatore si rende conto di come questo sorgere abbia cause e condizioni ineluttabili. In tal caso la prima regola di pacificazione con l’esistenza è: accettare le cose come sono, creare con esse il minore attrito possibile. Il nostro stesso modo di essere del momento va accettato, fossimo pure noi i peggiori delinquenti. Perché? Perché vi sono cause e condizioni per cui,

IN QUEL DATO MOMENTO SPECIFICO, noi non possiamo essre diversamente. Quello che ci interessa è cogliere perciò la visione di quel momento, per così dire la fotografia di noi stessi e delle forze all’opera in quel momento. E’ chiaro, poi, che vedendo quel che c’è e con un minimo di intelligenza comprendendo ciò che è negativo, cominceremo, anche solo inconsciamente, a voler cambiare. Serve dunque un minimo di intelligenza. L’ottusità di chi resta ferocemente attaccato, ad es. , al proprio modo di vedere le cose, alla propria personalità (‘io non posso cambiare’) , non aiuta, è un grosso ostacolo. E poiché tutti i nostri punti di vista sono condizionati dalla nostra storia passata, dai nostri attaccamenti e dalle nostre avversioni, è evidente che non possiamo fidarci di essi, che dobbiamo liberarcene. Come? Anche qui in maniera relativamente non cruenta: non sopprimendoli tout court , ma rendendoci conto del loro condizionamento e quindi della loro fallacia. Insomma, per farla breve, ACCETTIAMOCI COME SIAMO MA COMINCIAMO A FARE PULIZIA.

Questo è forse il maggior vantaggio che può apportare la meditazione Vipassana o meditazione di Visione Profonda: l’abbandono graduale delle rigidità della nostra ‘personalità’ , l’abbandono stesso dei ‘fattori della personalità’ , il graduale distacco da essi. Questo viene chiamato LASCIARE ANDARE. Si parte dall’ACCETTAZIONE  e si arriva ad una ACCETTAZIONE SUPERIORE.

Se perciò si possono sintetizzare mezzi e fini, pratiche e vantaggi della meditazione, a mio parere si può farlo in TRE formule: CONSAPEVOLEZZA, CONSAPEVOLEZZA, CONSAPEVOLEZZA  è la prima; VISIONE PROFONDA, VISIONE PROFONDA, VISIONE PROFONDA  è la seconda; ACCETTAZIONE, ACCETTAZIONE, ACCETTAZIONE  è la terza. Tutte tre le formule non hanno un prima e un dopo, tutte sono integrate e solo hanno diversi gradi di profondità.

giovedì 3 settembre 2009

INUTILITA’ DELLA MEDITAZIONE





Nel mio studio del Cinese classico, il primo testo in cui mi imbattei anni fa fu il classico chiamato Mengzi. Mengzi visse, come filosofo confuciano, fra il 300 e il 400 avanti Cristo. I Confuciani si proponevano costantemente e a volte, come lo stesso Confucio, velleitariamente e inutilmente come consiglieri dei sovrani dell’epoca, perciò egli si recò presso il re dello Stato di Wei, soprannominato Liang dal nome della sua capitale. Così l’opera di Mengzi ha un inizio assolutamente eclatante.







Mengzi ebbe un’udienza con il re Hui di Liang. Il re disse:

‘Venerabile signore, non avete considerato 1000 li (circa 400 km)

una distanza eccessiva, perciò dovete avere un modo di portare profitto al mio Stato’ .

Mengzi rispose: ‘Perché Vostra Maestà deve parlare di profitto?

Ci siano semplicermente benevolenza e giustizia!’



Da subito, perciò, si scontrarono due concezioni. Una pragmatica e utilitarista, quella del re di Liang, e una moraleggiante, quella di Mengzi.

Questo sembra il dilemma che si presenta a chi medita. ‘Che guadagno mi porta questo impegno?’ . La risposta si trova nel pragmatismo / utilitarismo o in una sorta di atteggiamento moralizzante? La questione fu posto anche al Buddha da un re dell’epoca, Ajatasatru e il Buddha gli rispose con un discorso, il Samannaphala sutta, dove appunto egli spiegava al re, che come il suo quasi coetaneo re di Liang, cercava di capire quali erano i profitti della meditazione, quali vantaggi vengano dalla pratica.

Tutti conoscono i vantaggi della meditazione: una visione più realistica e tranquilla del mondo, un maggior rilassamento ecc.. Ma ecco che dopo un po’ ci si chiede: ‘Ma il gioco vale la candela?’

Ragioniamo su questo. Prendiamo in parallelo la visione cristiana della preghiera, perlomeno quella che è comune alla massa dei praticanti. E’ indubbio che la preghiera sia più gratificante della meditazione. Ci dà l’idea di un incontro con Dio e ci permette di avere un occhio di riguardo verso il proprio sé. Ci sentiamo arricchiti ogni volta che preghiamo, ci sentiamo avvolti piacevolmente dall’amore di un Dio personale verso di noi. Un Dio Padre e un padre, si sa, ci vuole certamente bene, ha un occhio di riguardo per i suoi figli. Se perciò vogliamo stare bene, io effettivamente suggerisco la preghiera.

Peccato che anche questa non sia immune da pecche. Una persona che ragioni, anche minimamente, non potrà ad es. fare a meno di chiedersi come mai questo abbraccio ‘paterno’ non ci scampi dalla sofferenza. Normalmente si trovano vari tipi di escamotage , resta il fatto che né la preghiera né altre pratiche religiose ci possono sottrarre a sogfferenza, malattia, morte e, ancor peggio, a sofferenza, malattia, morte dei nostri cari, a volte con punizioni terribili come la morte di un figlio unico. Mi venne da ridere quando una mia collega un po’ bigotta andò a Pietralcina e tornò che si era ammalata. Può venire perciò il dubbio che anche le sensazioni che si sperimentano nella preghiera siano solo auto-inganni della mente. Naturalmente la mente stessa può trovare mille scappatoie per non mettere in discussione quello in cui vogliamo credere. E’ ciò che accade anche in politica.

Ma torniamo alla meditazione, poiché questa è ciò che pratico.

Nel tempo mi sono dovuto confrontare, molto tempo dopo qualche avvenimento particolare, con un’evidente assenza di risultati. Ho continuato a meditare con più fatica finché non mi sono reso conto che potevo meditare su questa assenza di risultato. Quando questo è successo la prima volta è cambiato qualcosa! Non voglio dare interpretazioni perché cerco di non cadere più in queste trappole mentali, però l’assenza di risultato è davvero l’altra faccia della collina. Essere contento per l’assenza di risultato è il massimo che posso ‘ottenere’ dalla mia meditazione. Se infatti vedo, come vedo, che ogni fenomeno, fisico o mentale, è privo di una sostanza propria, che cosa potrei mai ottenere? E non è proprio questa mancanza di sostanza intrinseca, questa assenza di risultati, il VUOTO insomma o VACUITA’, quello che cercavo di ottenere? Sta’ a vedere, riflettevo, che il vuoto, la vacuità, dovrebbe avere un contenuto! E’ incredibile come la mente umana si sforzi di afferrare sempre qualcosa anche quando, come suggeriscono le parole ‘vuoto’ e ‘vacuità’, non c’è niente da afferrare. L’ego tenta sempre di trovare vie al proprio ‘arricchimento’ anche quando sa che queste dovrebbero portare al suo ‘impoverimento’!

La visione meditativa del Buddha aveva scoperto la ruota del ‘sorgere in dipendenza’ : il mondo, le situazioni, le stesse ideologie religiose, sorgono tutte dalla ‘sensazione piacevole’ . Volendo provare o riprovare questa sensazione che DESIDERIAMO, produciamo AFFERRAMENTO e quindi IL VENIRE IN ESSERE di fatti, situazioni, vite stesse. Perché questo si chiama ‘sorgere in dipendenza’? Perché questo NASCERE ( a cui seguiranno poi la sofferenza del decadere e del perire) sorge dipendendo da

IGNORANZA, COSCIENZA, APPARATI PSICOFISICI, CONTATTO, SENSAZIONE, AFFERRAMENTO ecc. Tutto questo ha a che fare con il profitto o guadagno personale di cui si parlava all’inizio. Chi ha a cuore il proprio sé vuole COSTRUIRE qualcosa (mi viene in mente, non casualmente, che a Lucca c’è un gruppo chiamato, altrettanto non casualmente, ‘I Ricostruttori’ ) . Ci sarebbe, insomma, qualcosa di valido, di sostanziale, da costruire e di cui appropriarsi, con cui arricchirsi. Ma questo ha molto a che fare, evidentemente, con i desideri del proprio ego! E che purezza ci potrà mai essere in qualcosa che ha a che fare con il desiderare quando il desiderare stesso è la radice dell’ego? Non sarà che proprio l’ottenere niente sia il MASSIMO RISULTATO (sic! ) di una pratica spirituale? Il massimo del disinteresse, insomma?!

E’ facile praticare così, allora? Niente affatto. Proprio perché consapevoli della natura desiderante dell’ego ci rendiamo conto di come sia difficile meditare su questo, specialmente per noi laici. Pure è questo che dobbiamo fare perché possa avvenire la realizzazione di quello stato di semplicità assoluta che è l’accettazione delle COSE COME SONO!

Lo scoraggiamento e il desiderio di ottenere sono perciò sempre all’ordine del giorno, qualcosa che dobbiamo osservare sorgere costantemente in noi! Questa è CONSAPEVOLEZZA! Il vedere come il sé, l’ego, tenda a riaffacciarsi continuamente alla ricerca desiderante di cose, risultati, arricchimenti, sensazioni piacevoli. Travestite, spesso, come ricerca spirituale. Il diavolo nascosto nell’acqua santa, insomma!

lunedì 30 marzo 2009

Riflessioni su bene, male, libertà.


“Prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti …”



Credo che si possa essere liberi all'interno di questa realtà convenzionale. Che significa? Significa che i nostri livelli di realtà e di osservazione della realtà sono come gli strati di una cipolla. Più siamo in superficie e più lo strato è leggero, più scendiamo verso il centro e più troviamo il duro. Allora, se noi stiamo sopra, abbiamo una visione della cosa com'è, se noi stiamo dentro ne abbiamo un'altra, più sostanziale.


Quindi la realtà è sempre la stessa (la cipolla) ma essa cambia a seconda di dove l'osserviamo. Dentro, vicino al centro di essa, siamo prigionieri di una realtà dura; sopra, sulla superficie, siamo liberi, liberi dalle strutture della cipolla stessa.


Che cos'è il Nirvana, la libertà ultima, se non l'accettazione completa della cipolla così com'è? E' pur vero che anche osservandola così com'è, la sua visione cambia a seconda del punto di vista.


Lasciamo perdere questo paragone, comunque, che è un po' fuorviante. Il fatto è: vogliamo essere liberi e perché? O vogliamo essere coinvolti?


In sé questa alternativa appare dualistica. Sappiamo che il dualismo non va bene, che dobbiamo andare verso l'unità. Ma non significa, questo, negare la realtà delle cose come sono? La realtà non è forse dualistica? Occorre quindi accettare questo. Ma ecco che se l'accettiamo noi ci troviamo in una posizione unitaria, di osservazione accettante e quindi unificante del dualismo. Questa è una posizione (oserei dire giusta se questo non rimandasse subito al suo opposto, ‘sbagliata'). Diciamo che E' LA POSIZIONE! Ed è la posizione del silenzio, perché una volta che si accetti tutto, non c'è nulla di cui discutere, c'è solo il silenzio come possibile. Ecco, forse, perché si dice che in tanti anni di insegnamento il Buddha non disse ‘nulla'. Non disse nulla perché non c'è nulla da dire sulla realtà ultima e convenzionale, che poi sono la stessa cosa.


Prendiamo l'annoso problema del bene e del male. Le religioni teistiche sono tutte basate su questo dualismo. Questo le definisce subito come religioni della realtà convenzionale. Bene e male non possono esistere come assoluti. Perché l'uno di questi concetti sorga c'è bisogno della presenza implicita dell'altro. Dio, insomma, ha bisogno di Satana e Satana ha bisogno di Dio. Se esistesse una sola di queste due realtà semplicemente il mondo non esisterebbe. E' come il caso di due innamorati che litigano. Non ha senso litigare con se stesso, si ha bisogno dell'ALTRO per farlo. Perciò bisogna arrivare alla conclusione che bene e male hanno la stessa valenza, sono entrambi necessari. Quindi l'affermazione che noi siamo qui perché Dio ci vuole bene, perché egli è il nostro padre, è insensata. Dio non può essere, per definizione stessa di assoluto, né solo orientato verso il bene né solo orientato verso il male. Dio sarebbe entrambi gli aspetti. Fine delle religioni personalistiche, quelle in cui Dio è nostro padre, che ci vuole bene e insomma tutte queste assurdità. "Padre, perché mi hai abbandonato?". E' semplice: non poteva fare diversamente, non esiste la scelta nel concetto di assoluto, c'è indifferenza ai cosiddetti ‘bene' e ‘male'. Si può parlare di bene e di male solo all'interno di questo mondo, non in senso ultramondano. E se ne parliamo, dobbiamo dedurre che il dio o gli dei di cui parliamo sono dei minori, mondani. Parafrasando un celebre film, siamo davvero ‘figli di un dio minore'.


Essere liberi è perciò questa posizione unitaria, unificante, di accettazione totale. E' quando noi siamo sullo strato più esterno della cipolla. Ebbene, a momenti possiamo essere lì, a momenti dobbiamo stare al centro (della realtà convenzionale). A momenti siamo liberi, accettanti, non discriminanti e a momenti dobbiamo reagire, a discriminare, accettare di essere schiavi del mondo. Ecco perché fare meditazione è importante. Si tratta di raggiungere lo strato esterno della cipolla senza perdere il contatto con il cuore della cipolla: poiché l'uno non esiste senza l'altro. E' solo con l'ACCETTARE, ACCETTARE, ACCETTARE che possiamo essere unificanti di entrambi, essere perciò silenziosi e non discriminanti verso tutti gli aspetti. In questo modo realtà convenzionale e realtà ultima coincidono, sono la stessa cosa. I concetti di bene e male li accettiamo, però solo come concetti relativi, non assoluti. E' proprio il vedere la loro uguaglianza o parità (samata, da non confondere con samatha ) che può essre l'oggetto della nostra pratica meditativa e l'artefice del nostro silenzio e della nostra libertà. Lo dico chiaramente: si può sperimentare davvero la Libertà meditando su questa uguaglianza e insostanzialità di bene e male.



Se bene e male sono interdipendenti, essi non esistono come realtà assoluta. Questo del resto si può vedere da quello che oggi è considerato il più infamante dei reati, la pedofilia. Leggevo l'Anabasi
di Senofonte in questi giorni e l'autore vi parla senza scandalo della passione per i giovinetti che avevano diversi valorosi dell'armata greca. Se si è letto il Satyricon di Petronio Arbitro si vedrà come esso ruoti tutto intorno alla contesa per un fanciullo (Gitone, mi sembra di ricordare). D'altra parte Senofonte considera come normale l'attaccare villaggi di contadini, il massacrarne gli abitanti o il venderli come schiavi! Questo per dire di come i cosiddetti ‘valori' siano relativi. Si parla tanto di difesa della vita ma quelli che più se ne rempiono la bocca bruciavano vive le donne guaritrici, gli indigeni dell'america latina o Giordano Bruno! Giulio Cesare è ammirato da tutti ma non ci si ricorda che egli non permise ai civili della città di Alesia di lasciare la città e li lasciò morire tutti di fame nella terra di nessuno: Plutarco asserisce che egli si vantava di avere ucciso un milione (!) di Galli.

Pure non saremmo quello che siamo se non ci fossero stati questi crimini!


Questo non è detto per giustificare niente, sia chiaro! E' solo per far capire come viviamo in realtà concettuali dove quello che è giusto in un tempo è sbagliato in un altro. I Cristiani moderni sono molto relativisti e si scandalizzano del fondamentalismo libresco degli Islamici. Gli Islamici si scandalizzano del relativismo dei Cristiani!


Viviamo, dunque, immersi in mappe concettuali che hanno fatto, fanno e faranno tanto male! C'è da stupirsi allora se si sostiene che sono proprio queste mappe concettuali che vanno abbandonate, che occorre fare la pulizia della mente molto più di quella delle stanze di casa! Il mondo così com'è, con i suoi crimini e le sue bontà, è quello che va accettato; la vacuità / assenza di sostanza reale di concetti come bene e male è quello che occorre meditare. Niente di sostanziale divide il mondo convenzionale dal Nirvana.


giovedì 12 marzo 2009

Alcuni testi molto antichi...2: il misticismo del Paramatthaka Sutta


"Prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti ..."
Atthakavagga, IV.5



  • 796. Quando, risiedendo nei propri punti di vista, [pensando] ‘E' il punto più alto', una persona lo considera come il più elevato nel mondo, egli dice che tutti gli altri [punti di vista] sono inferiori a questo. Perciò egli non ha superato le dispute.

  • 797. Qualunque vantaggio egli veda per se stesso in ciò che è visto e udito, in condotta virtuosa e voti, o in ciò che è pensato, afferrandosi a quella stessa cosa là, egli vede tutto il resto come inferiore.

  • 798. Quello stesso [punto di vista] gli esperti chiamano un laccio, dipendendo dal quale egli vede il resto come inferiore. Perciò un bhikkhu [ = un asceta mendicante] non dovrebbe dipendere da [alcuna cosa] vista, udita o pensata o da virtuosa condotta e voti.

  • 799. Né egli dovrebbe formarsi un punto di vista nel mondo a causa di conoscenza o virtuosa condotta e voti. Egli non dovrebbe rappresentare se stesso come uguale, né dovrebbe pensare a se stesso come inferiore, né come superiore.

  • 800. Abbandonando ciò che è stato adottato, e non adottandolo [di nuovo] , egli non dovrebbe dipendere neppure dalla conoscenza. Egli realmente non segue alcuna fazione fra quelli che tengono differenti punti di vista. Egli non ricade per niente in alcun punto di vista.

  • 801. Se qualcuno non ha fatto alcun proposito rispetto ad entrambe le fini qui, rispetto a differenti esistenze qui o nel prossimo mondo, egli non ha afferramenti [a punti di vista] afferrati fra le[varie] dottrine dopo averli presi in considerazione.

  • 802. Da lui nemmeno la minima nozione (saññā ) è stata formata qui rispetto a ciò che è visto, udito o pensato. Come potrebbe qualcuno qui, nel mondo, avere dubbi su quel brahmana che non adotta alcun punto di vista?

  • 803. Essi non formano [punti di vista] , essi non hanno preferenze. Né essi aderiscono a dottrine. Un brahmana non deve essere intuito tramite condotta virtuosa o voti. Andato all'altra sponda, questi non ricade indietro [su niente] .


Ecco, questo è uno dei Sutta o sutra più mistici, a mio parere, del Sutta Nipata. Personalmente se solo dovessi avere un breviario, userei questo breve testo e pochi altri. Ne farò un breve commentario.


‘Quando, risiedendo nei propri punti di vista...". Ecco l'inizio, l'incipit, come si dice. Già questo ci dà l'idea di cosa parlerà il sutra. Risiedendo nei propri punti di vista.... Normalmente, nel Canone buddhista, vengono attaccati i vari punti di vista in nome del ‘retto punto di vista'. Ma, come dice Gomez, nell'Atthkavagga (e anche nel Parayana, l'ultima sezione del Swutta Nipata), ‘al contrario dell'abituale insistenza sul 'retto punto di vista', l'Atthakavagga parla di abbandonare i punti di vista'. In questo è stata vista una prefigurazione delle Stanze del Cammino di Mezzo di Nagarjuna; o meglio, invertendo i fattori: Nagarjuna, contro la scolastica del suo tempo, riscoprì il messaggio originale buddhista. E' chiaro che questo è misticismo. Non a caso il titolo è Paramatthaka, cioè ‘Il Superiore, il Punto più alto'. La fine, l'abbandono dei punti di vista libera la mente. E' come una stanza piena di cianfrusaglie, ci sembrano utili (il mio studio ne è un esempio). Una volta gettate via, cosa resta? "Ahh!" la sensazione di vuoto, di spaziosità, di libertà! Ecco perché non sarà mai libero chi si attacca ferocemente a un qualsiasi punto di vista (ma, riprendendo ancora dalla metodologia di Nagarjuna: non bisogna attaccarsi nemmeno a questo!- sic ! ). Ma come facciamo? Sappiamo bene che noi comuni mortali, non monaci, abbiamo la mente per pensare e che a volte la necessità decisionale ci impone di avere punti di vista. Per esempio nel mio lavoro mi si richiede di dare anche giudizi. E lo stesso può accadere se abbiamo un minimo di impegno sociale [e quindi politico: il sociale è sempre politico].


Si tratta allora di ponderare, di giudicare, di agire anche, senza però considerare come valido in assoluto quello che pensiamo, giudichiamo, facciamo. Questo ci offre quel minimo di apertura verso il mondo che poi la pratica meditativa continuata ci permetterà di allargare. Vi saranno, per questo, medicine coadiuvanti: le quattro Residenze Infinite ad es., cioè la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia altruistica e l'equanimità.


‘Quando, risiedendo nei propri punti di vista, [pensando] ‘E' il punto più alto', una persona lo considera come il più elevato nel mondo, egli dice che tutti gli altri [punti di vista] sono inferiori a questo. Perciò egli non ha superato le dispute.'


L'attaccamento al proprio punto di vista è la base della litigiosità e dei contrasti nel mondo. Ecco perché chiunque sia attaccato a una religione particolare, ivi compresa quella buddhista in alcune sue accezioni, o a una ideologia politica particolare, non potrà fare passi avanti sulla via della Liberazione. Semplicemente perché non lo vuole, perché vuole continuare a trastullarsi con i suoi giocattoli, perché questi lo identificano, gli danno quell'identità di cui sente tanto il bisogno. Il che, si badi bene, non vuol dire non occuparsi ad es. di politica: anche questo sarebbe fare politica. No, si tratta solo di vedere le ideologie come falsa coscienza, come feticci. [continua].


sabato 31 gennaio 2009

Alcuni testi molto antichi…

"Prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti ..."



Una mia amica mi ha detto che il mio Buddhismo è molto radicale e questo probabilmente è vero. Altre persone che praticano meditazione mi dicono che la nostra pratica è davvero molto scarna e quasi senza scopo: da cui pochi restano, molti se ne vanno. Ma come sono giunto a questa pratica?



Tutti partiamo con scopi, è nella natura umana farlo. E' l'abbandonarli che resta difficile. Non avevo una grande considerazione per Nagarjuna inizialmente, ritenevo che bisogna andare ai Sutra / testi più antichi per avere una pratica corretta. Fu la lettura del Sutta Nipata, sotto l'influsso di un articolo della rivista Philosophy East and West [PEW ] (Louis Gomez, ‘Protomadhyamika in Early Buddhism', PEW 26, 2, April 1976, 137-165 - si trova anche su Internet) a farmi cercare il Sutta Nipata (Sn) che avevo già letto ma con poco interesse (esiste anche in una traduzione italiana). L'articolo di Gomez richiamava l'attenzione sulle due ultime sezioni del Sn, Atthakavagga e Parayanavagga, in particolare la sezione delle Ottadi, Atthakavagga.
Secondo Gomez in queste due sezioni troviamo brani che ‘colpiscono il lettore come alcune delle affermazioni più esplicite e rappresentative di una tendenza estremamente apofatica [cioè volta al silenzio] trovata altrove nella letteratura buddhista. Questa tendenza - o è una tradizione contemplativa di qualche tipo? - compare di nuovo più tardi nella letteratura della Perfezione della Saggezza e, in maniera ancor più evidente, nel Prasangika Madhyamika e nelle varie linee del Chan [Zen]'.

Queste parole mi colpirono e mi spinsero a una ricerca che mi ha portato a travalicare il confine della tradizione Theravada a cui facevo riferimento e ad allargare i miei orizzonti fino ad includere il Madhyamika o Via di Mezzo di Nagarjuna e, almeno in parte, anche il Chan / Zen (anche se quest'ultimo appare influenzato più dalla corrente idealista del Buddismo, quella del ‘Solo Mente' e meno dal Madhyamika; non solo: in alcuni testi sembra rendere sostanziale la Mente). La tendenza apofatica del Buddismo mette in evidenza la critica a ‘tutti i punti di vista' per portare al silenzio la mente. Ebbene, nell'Atthakavagga del Sutta Nipata noi troviamo molti passaggi che parlano di questo, senza nemmeno parlare di un ‘retto punto di vista' come invece appare nel [più tardo] Ottuplice Sentiero. Questo e molti altri dati fanno pensare che il Canone buddista più antico, quello Theravada, sia tuttavia un'opera redazionale relativamente tarda. Dell'Atthakavagga e del Parayana abbiamo invece evidenza di come essi fossero recitati già durante la vita del Buddha stesso ed essi appaiono quindi come i pochi testi che ci possono rivelare davvero il contenuto del Buddhismo primitivo. Personalmente vi ho sempre trovato grande ispirazione e a distanza di tempo li ho letti e riletti.


Mentre era mia intenzione cominciare la presentazione di alcuni di questi testi, mi rendo conto che dovrò rimandarla ad un prossimo numero della News, per mancanza di spazio. Qui, riprendendo dall'articolo di Gomez, metterò invece l'accento su alcuni dati. Così, dice Gomez (pag. 140):


Al contrario dell'abituale insistenza sul'retto punto di vista', l'Atthakavagga parla di abbandonare i punti di vista. Non si può evitare la sensazione che l'ingiunzione dei Nikaya [i Sutra] ad abbandonare la bramosia per la verità, per i punti di vista , per la moralità e per i voti sia presa sul serio solo nell'Atthaka. Gli uomini di saggezza sono descritti più e più volte come coloro che non trovano sostegno o preferenza in niente.


Essi non si fanno fantasie, essi non hanno preferenze, e nemmeno un singolo dharma essi adottano. Nessun vero brahmana può essere guidato dai voti di moralità; egli che è così, andato al di là, non si basa su niente (Sutta Nipata, verso 803).


Già in questo breve passaggio si notano alcuni concetti forti. Alcuni concetti soteriologici, cioè di guida alla liberazione: ‘Essi non si fanno fantasie, essi non hanno preferenze, e nemmeno un singolo dharma essi adottano'.


Cioè, detto con una terminologia diversa: ESSI SI SBARAZZANO DEL MONDO CONCETTUALE. ‘egli che è così, andato al di là, non si basa su niente'.


Apparentemente ancor più sconcertante è: ‘Nessun vero brahmana può essere guidato dai voti di moralità'. Non è con questo che il Buddha rigettasse la moralità: nessuna pratica liberatoria lo può fare. Esso però rigettava la moralità come unica base della liberazione. Anche l'attaccamento alla moralità può rivelarsi un ostacolo se esso, come in qualche caso, diventa una fissazione. Lo stesso vale per le liturgie e i rituali: non a caso il B. disse che di rituali erano il terzo ostacolo di cui sbarazzarsi sulla via alla libertà. Questo illumina, probabilmente, alcune delle affermazioni che faccio usualmente nei miei testi.


E così, dice Gomez, ‘le istruzioni al seguace del sentiero non potevano essere meno esplicite':


Rinunciate a tutti i voti e le moralità e a tutti gli atti, sia biasimevoli che non biasimevoli, gettate via [ogni idea di] purezza o impurità, siate spassionati e non afferrate [nemmeno] la pace (Sutta Nipata, verso 900).


Cioè, ancora una volta: abbandonate ogni concettualizzazione di ciò che praticate. Praticate per praticare.


Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
______________________________________
CHIUNQUE E’ BENVENUTO
______________________________________
Visit the Kungfu site "Wudang Baguazhang"
http://wudangbaguazhang.altervista.org/