giovedì 19 ottobre 2006

Le residenze infinite

Ci sono 4 “Residenze infinite” o “incommensurabili” in cui si può vivere (o tentare di vivere) e sono precisamente la gentilezza amorevole, la com-passione, la gioia per la gioia altrui, l’equanimità.

Si può osservare come le prime tre di queste “residenze” siano sfumature di una stessa emozione, quella della nostra empatia verso gli altri. Perciò in genere si prende in considerazione, fra queste, la “gentilezza amorevole” che, grosso modo, comprende anche gioia altruistica e compassione. Essa è anche la base del sorriso interiore empatico, quello che si espande dentro di noi e irradia fuori di noi.

La quarta “residenza” è quella dell’equanimità che ha un’importanza particolare, superiore alle altre anche se realmente inseparabile da esse. Se l’equanimità non fosse infatti stemperata da amorevolezza, compassione e gioia altruistica potrebbe facilmente divenire fredda indifferenza. Si tratta, in effetti, di una sorta di indifferenza partecipativa.

Detto così il concetto può apparire sgradevole: indifferenza partecipativa- che mai vorrà dire? Si tratta di una contraddizione (ho spesso portato all’attenzione come la pratica meditativa porti a questi paradossi. E come potrebbe non essere così visto che si va, in essa, al superamento dei dualismi? Questo superamento richiede, in effetti, di andare a unificare gli opposti) .

L’indifferenza partecipativa appare come uno di quei vecchi tavolini rotondi da bar che andavano di moda anni fa dove il sopra, piano, era tenuto su da tre gambe. Benché di questo tavolino noi usiamo solamente il sopra, non potrebbe esservi un vero tavolino senza le tre gambe. Il lettore scaltro avrà già capito che il sopra è l’equanimità e il sotto sono le altre tre forme di empatia. Quindi l’equanimità è superiore ma non può dispiegarsi pienamente se non basandosi sulle altre tre gambe.

Ma perché l’equanimità sarebbe superiore?

A prima vista non sembrerebbe così. La nostra tradizione cristiana ci porta a considerare l’amore come virtù primaria. Il problema della parola “amore” è che copre aspetti assai diversi tra loro, dall’amore sensuale all’amore per l’umanità intera ( purtroppo la tradizione in cui siamo stati allevati non contempla l’estensione dell’amore a tutti gli esseri viventi, cioè non vi contempla ad es. gli animali, considerati quasi come “ oggetti a nostra disposizione”) .

Ora se l’amore per l’umanità intera è un concetto “nobile” che va sicuramente oltre ciò che riguarda la nostra sola persona e porta ad uno stemperamento dell’ego, è anche vero che ad es. l’amore sensuale è su un’altra lunghezza d’onda rispetto all’amore per l’umanità, essendo in genere basato su spinte che vengono dall’ego e confinando con stati come possessività, rancore, odio e sofferenza. L’amore sensuale, per bello che sia, è come il miele spalmato sul filo di un coltello affilatissimo. Lo puoi leccare e goderne ma puoi facilmente tagliarti e sanguinare. Tutti ne abbiamo fatto esperienza. Perciò la parola “amore” è per lo meno ambigua e nella pratica meditativa preferiamo la parola gentilezza amorevole ( o benevolenza) .

La gentilezza amorevole può essere portata a perfezione quando la estendiamo al massimo, quando cioè diviene qualcosa di incommensurabile, quando la rendiamo, come residenza, una residenza “infinita” e per fare questo non ci possiamo limitare a un singolo compartimento della vita, quale l’umanità, ma dobbiamo estenderla a tutti gli esseri viventi, inclusi i non-umani.

Nella nostra pratica includiamo anche la sua estensione agli animali, alle possibili divinità e ai possibili demoni, identificando questi ultimi non come “il Male” ma come forme vitali mentali di sofferenza. Fra gli esseri la estendiamo anche a quelli che normalmente aborriamo. Faccio spesso l’esempio di Hitler, Stalin ecc. ma io ho una ripugnanza istintiva, direi un terrore atavico, per i coccodrilli che talvolta sono arrivato perfino a sognare.

Bene, quando pratico la meditazione amorevole e arrivo al mondo animale, dopo averlo preso in considerazione in generale a partire dai nostri amici più gradevoli, porto la mia attenzione sul coccodrillo (o, talvolta, sullo squalo) e mi identifico con esso: comprendo le sue motivazioni primordiali e compulsive – mangiare, mangiare- ed ho compassione per questo essere la cui vita è limitata ad un livello così basso da precludergli (probabilmente) i livelli di comprensione superiori tipici ad es. di un gatto, di un cane o ancor più su di noi umani. Pure anche questo essere avrà una forma primitiva di amore (per la sua prole ad es.) . L’identificazione con questo essere mi porta a rompere la barriera dell’avversione.

Estendere la nostra benevolenza verso tutti gli esseri significa perciò abolire ogni distinzione, significa liberare la mente. E’ qualcosa da non sottovalutare. Però la gentilezza, insieme alle sue due sorelle , va unita all’equanimità verso gli esseri.

Nel Buddhismo le quattro dimore infinite vengono sempre raccomandate ma talvolta considerate come un accessorio della Vipassana. Però studiosi moderni, come Richard Gombrich, hanno dimostrato come il Buddha le considerasse una via vera e propria alla Liberazione (ne parlerò in seguito) . Naturalmente si deve parlare di tutte e quattro le dimore, non solo della gentilezza amorevole. Infatti se nella pratica generalizzata e infinita di quest’ultima andiamo all’identificazione empatica con tutti gli esseri, nella pratica dell’ EQUANIMITA’ ci installiamo saldamente nella pratica di cui sopra (la benevolenza) per poi andare a prendere in considerazione il destino degli esseri. Infatti l’amorevolezza porta a forme di attaccamento, sia pur gentili e altruistiche: porta perciò anche a soffrire per il destino degli esseri. Non è ancora liberazione anche se è una liberazione della mente, una cetovimutti . Una forma di superamento dei propri limiti che però arriva a confinare con attaccamento e sofferenza.

L’equanimità come pratica meditativa , si esegue invece prendendo in considerazione il destino degli esseri e ACCETTANDOLO. E’ UNA FORMA DI ACCETTAZIONE.

L’equanimità è una presa d’atto dell’ineluttabilità della sofferenza per gli esseri, dovuta al fatto che gli esseri sono eredi delle proprie predisposizioni (non foss’altro la predisposizione a “voler vivere”) . E’ difficile da praticare perché ci è difficile accettare l’inevitabilità della sofferenza dei nostri cari e del nostro destino, qualunque esso sia. Ma proprio per questo possiamo percepire come essa ci porti bene“al di là” delle nostre concezioni abituali.

Liberarsi dalle ossessioni

Vado a camminare con una mia amica, la mattina, e talvolta abbiamo delle conversazioni, come capita. Stamattina ne abbiamo avuta una sul fato,sul destino. Dice lei:” Il Fato, per me c’è il Fato a governare le nostre vite, è quello che fa succedere le cose, che mette in unione le persone e così via”. Sono rimasto un attimo in silenzio. Conviene sempre prendersi una piccola pausa quando si entra in una discussione. Ci serve a guardarci, a vedere le nostre reazioni di fronte all’argomento, di fronte all’emotività che è sempre connessa con le discussioni. Occorre fare, insomma, quello che io chiamo “un passo indietro”e vedere come sta reagendo, di fronte alla situazione X l’entità Y (in questo caso io stesso). Questo serve anche per entrare in una conversazione senza aggressività, senza quell’irruenza che viene spontaneamente quando il nostro ego si sente coinvolto e quindi tende a difendere qualcosa, qualche opinione. In questa pausa che mi prendo mi faccio anche la domanda: “ Sto per difendere qualcosa? Sono attaccato a qualche punto di vista?”

“Tu pensi che esista il fato?”


“Sì, penso che esista, lo vedo nelle cose che succedono, c’è qualcosa che regola la nostra vita.”

“Ma come fai a dirlo? Non c’è nessuna prova di questo.”

“Come non c’è nessuna prova? Eppure io lo verifico nelle cose: a uno succede di essere ricco, bello, fortunato in tutto e ad un altro succede che è uno sgorbio, povero e disgraziato. Non è il fato questo? Sono nata qui ma potevo essere nata nel Terzo Mondo…”.

Rifletto. Potrei dirle: “ Mah, io credo piuttosto nel karma…” ma non mi piace molto usare queste terminologie, anche se a volte lo faccio trattandosi di un concetto conosciuto. Inoltre si tratta anche qui di una concettualizzazione. Scelgo quindi un’altra strada.

“ Mi sembra che si tratti piuttosto di una tua interpretazione dei fatti. I fatti sono, poi noi ci mettiamo la nostra interpretazione”.

“Ma allora secondo te non c’è niente? Che cos’è allora la vita?”

“La vita è il vivere, e basta. Questo è il dato di fatto. Il resto sono nostre interpretazioni.”

Non sto a raccontare tutta la discussione anche perché non me la ricordo (anche il dialogo qui sopra è solo una ricostruzione approssimativa). Voglio però prenderne spunto per un discorso sull’importanza di non avere opinioni, di non avere nulla da difendere.

In ciò seguo la via aperta dal Buddha e da Naagaarjuna.

Prendiamo l’idea di karma. Karma significa semplicemente “azione” ed, in senso lato, l’idea di causalità per cui tutto ciò che avviene ha cause e condizioni per avvenire. In sé anzi questo concetto esprime l’idea di vacuità dei fenomeni, la mancanza di una sostanza stabile in essi (tipo anima, Dio o che altro). Detto con una formula: X avviene in dipendenza dalla causa Y e dalle condizioni Z. Per esempio: tu sei un bravo dottore, mettiamo un dottore di successo perché hai studiato sodo (causa principale) con l’aiuto delle condizioni seguenti: avevi i soldi per andare all’università, avevi degli ottimi professori, sei stato sostenuto da amici e familiari e così via. Questa è la causalità, quello che governa il mondo. E’ chiaro che la scomparsa di alcune delle condizioni secondarie o della causa principale (l’aver studiato sodo) indeboliranno o faranno addirittura scomparire il fatto di essere un buon dottore. Questa è la vacuità. Le condizioni sono purtroppo prive di sostanza stabile (potevano esistere come no, dipendendo a loro volta da altre condizioni) e quindi tu sei un buon dottore sulla base di condizioni effimere, vuote; addirittura può darsi che, mancando alcune condizioni del passato (per es. un professore che ti abbia inculcato nella mente la necessità di un continuo aggiornamento) da domani tu non sia più considerato un buon dottore.

Questa è la causalità (o karma o co-produzione dipendente). Si può intuire come questa causalità non contenga cose, ma fenomeni di pendenti da altri fenomeni dipendenti da altri fenomeni. E’ vuota di sostanza stabile (altrimenti niente succederebbe nel mondo). Quindi la Vacuità, l’assenza di sostanza, la dinamicità è la base perché il mondo sia come è. Dinamico, in evoluzione.

Il problema nasce quando noi ci attacchiamo a questo concetto. E’ vero che si tratta di un concetto empirico, facilmente verificabile. Non è verificabile invece che esista un Fato, che esista Dio. Uno può “sentire” dentro di sé che queste entità esistono :ma è probabile che ciò venga da un desiderio di sicurezza dell’ego, allo stesso modo come l’esistenza di una sostanza chiamata anima. Invece la causalità è verificabile. Sappiamo empiricamente che il mondo funziona così.

Però se ci attacchiamo a questo concetto possiamo stravolgerlo, inconsciamente farlo divenire “sostanza” a sua volta, quindi accettarlo formalmente (come assenza di sostanzialità) ma negarlo nei fatti. Questa mia amica ha fatto proprio questo stamattina, ad un certo punto del discorso: “Beh, allora la causalità è il Fato (o Dio )”.

La tentazione è sempre forte: creare un’entità, un’essenza che governa il mondo. Mi accorgo che fa spesso capolino anche nella mia mente. Parlando con quest’amica ad un certo punto ho parlato di “talità”, intendendo con ciò alludere alle cose come sono, fenomeni, senza interpretazione.

Pure anche questo concetto può essere reificato, cioè trasformato in “cosa” (dal latino res “cosa”), in sostanza. Una sostanza nella mente, puramente mentale, ma sempre sostanza.

Ma che pericolo c’è in questo,si dirà.

C’è grande pericolo invece, è in nome di queste sostanze mentali (prendiamo ad es. una religione, una filosofia o altro) che sono state fatte le guerre di religione o di politica, che esiste il fondamentalismo, che esistono i conflitti.

Perciò la via alla Liberazione non può prescindere da una critica a tutto ciò che viene trasformato in sostanza e a cui ci attacchiamo. Ci attacchiamo alle cose, ai concetti e quando pensiamo di “possederle” dobbiamo difenderle. Sotto questi processi c’è sempre la credenza in un sé stabile e la presunzione che il mondo(l’”esterno”) sia qualcosa fuori da noi: soggetto ed oggetto di percezione, un dualismo pernicioso che impedisce di cogliere il fatto che non esistiamo noi e il mondo : noi e il mondo siamo la stessa cosa , fenomeni in un mare di fenomeni.

Come si vede il discorso è complesso.

Ma la sostanza è semplice. Per essere liberi (e con questo intendo sia le libertà più immediate che quella assoluta) occorre essere liberi dalle ossessioni , intendendo con questo nome una vasta gradazione di fenomeni mentali, dal grado minimo al grado massimo. Perciò

Se mi chiedi se la mia pratica è religiosa

Io lo nego

Se mi dici che la mia pratica non è religiosa

Io lo nego

Se mi chiedi se il karma esiste

Io lo nego

Se mi dici che il karma non esiste

Io lo nego

Se mi chiedi se un altro mondo esiste

Io lo nego

Se mi dici che un altro mondo non esiste

Io lo nego

Se mi chiedi se il Nirvana esiste

Io lo nego

Se mi dici che il Nirvana non esiste

Io lo nego

Se mi chiedi se sono Buddhista

Io lo nego

Se dici che non sono Buddhista

Io lo nego

Le sedute comuni di Meditazione si svolgono ogni sabato pomeriggio, dalle 15, 30 alle 16,30 circa, a S. Andrea di Compito (Lucca) - Via della Torre 9.
______________________________________
CHIUNQUE E’ BENVENUTO
______________________________________
Visit the Kungfu site "Wudang Baguazhang"
http://wudangbaguazhang.altervista.org/