Prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti ….
Mi è capitato di leggere un libro intitolato ’E venne chiamata due cuori’, autrice Marlo Morgan (BUR) . Si tratta della storia di una professionista che parte, su invito di una tribù di aborigeni australiani, convinta di partecipare a una cerimonia in suo onore. ‘Si ritrova invece in una foresta vasta e minacciosa, dove le viene chiesto di seguire la Vera Gente, come la tribù si definisce, in un viaggio di quattro mesi nell’Outback australiano, a piedi nudi, a volte senz’acqua, cibandosi di quanto offre la terra’ . Quello che mi ha colpito di questa esperienza è stato il senso di comunità umana che traspira da ogni pagina, il senso di una comunità con il tutto. Riferendosi ai giochi ad esempio, questi aborigeni dicono: ‘ Se uno vince, tutti gli altri perdono’ e questo mi ha fatto pensare. Un po’ tutta una serie di cose mi ha fatto pensare. Ero a letto ma mi sono dovuto alzare per scrivere queste cose prima che sparissero con le briciole del sonno. Mi è venuto da pensare prima di tutto a una mia amica. Questa mia amica ha una mentalità diciamo così, senza offesa, ‘reazionaria’, cioè incapace di adattarsi ai cambiamenti del mondo che infatti giudica completamente sbagliato. Questa mia amica discrimina pesantemente e crea spesso situazioni conflittuali. Di conseguenza, entrando sempre in conflitto con il mondo così com’è, soffre molto e crea anche separazione dagli altri, tant’ è vero che io, scherzando, le dico che anche le sue amicizie sono ‘a tempo’. Per comprendere meglio: una volta voleva rompere un’amicizia con me che dura da 37 anni (sic) semplicemente perché su un argomento banale la pensavamo diversamente. Non riusciva ad accettare che io la pensassi diversamente da lei! Bene, pensando a lei, mi è venuto da notare questa sua opposizione al mondo che la separa dagli altri, la mette in conflitto con gli altri. Ma mentre pensavo in questi termini ho realizzato che, pur essendo così separata, nemmeno lei è realmente separata dalla comunità umana, “è per me solo una sorella che rimane indietro”.
‘Se uno vince, tutti perdono’. Questo mi ha anche portato a una riflessione su quello che faccio. Non sempre riesco a trasmettere agli altri il vero senso di quello che faccio. Mi riferisco al Kungfu e al Taijiquan di cui sono insegnante. Per una sorta di rispetto erroneo per la libertà altrui, non sempre sono riuscito a passare quello che per me era il senso dell’insegnamento di queste due discipline. Davo forse per scontato che dall’insegnamento stesso venisse fuori, dal mio modo di pormi verso gli altri venisse fuori e forse, almeno in parte è così, è venuto fuori. Ma un insegnamento spirituale un po’ più esplicito non sarebbe guastato. Mi viene da pensare ad alcuni miei carissimi allievi che nel tempo hanno cominciato a differenziarsi da me. “Ma noi non facciamo gare?” ed hanno poi scelto altro. Questa è la prima domanda che emerge come spia di una certa insoddisfazione e differenziazione. Io sono contrario alle gare, per lo meno se non si svolgono in uno spirito di gioco fraterno e amichevole il che non è affatto il caso nella maggior parte delle situazioni, nel contesto di federazioni da cui mi sono quasi sempre tenuto rispettosamente alla larga. D’altra parte accetto anche che esistano persone con idee differenti dalle mie, ciascuna con le sue predisposizioni e le proprie esigenze e desiderose di prendere strade diverse dalla mia.
Quello che penso io dell’arte marziale, non diverso dalla mia visione, diciamo così ‘spirituale’ , è che le cose andrebbero fatte per il solo gusto di farle (e farle bene), senza alcun desiderio di afferramento personale; andrebbero fatte per la perfezione stessa, senza il desiderio egoico della sopraffazione dell’altro. In parole povere noi non dovremmo usare la tecnica per sopraffare l’altro ma dovremmo noi stessi DIVENTARE LA TECNICA. Questo è molto più facile nelle forme a solo, specialmente nel Taijiquan; diventa più difficile quando siamo in relazione con un’altra persona.
E allora mi viene alla mente il mio modo di insegnare, molto basato sui duilian, cioè esercizi a due di caratteristica circolare dove non vi sono un vincitore e un vinto ma entrambe le persone che vi partecipano continuano a scambiarsi tecniche parando e attaccando ininterrottamente senza mai farsi male. Ho strutturato questi duilian in modo che ti portino gradualmente, quasi tenendoti per mano dicevo ieri a un mio allievo, dalla struttura alla libertà, dal costruito al libero. Dentro di me sono fiero per questo tipo di insegnamento che ho perfezionato sempre più negli ultimi tempi e che mostra da una parte un maggior realismo rispetto al passato e dall’altra mantiene gli allievi in un percorso reciprocamente rispettoso e nello stesso tempo coinvolgente. A volte, un po’ a malincuore lo ammetto, faccio fare anche combattimento libero ma sono contento solo quando il livello si mantiene più o meno pari e nessuno dei due contendenti emerge con una vittoria assoluta. Questo perché il combattimento è una brutta bestia, dove tende ad emergere l’aspetto più egocentrico della persona, quello in cui si scatenano gli impulsi più feroci pur di vincere. Ma ‘se uno vince l’altro perde’. E questo provoca nel vincitore orgoglio e aumento dell’ego e nel vinto depressione, sofferenza, umiliazione. E invece quello che io voglio creare, il contesto in cui voglio vivere, è quello dell’amicizia e della fratellanza, quello in cui se sento di aver fatto le cose bene mi basta, sia che vinca sia che perda (naturalmente se ‘perdo’ vuol dire che non ho fatto le cose bene e questo mi deve servire da indicatore per migliorarmi). Un esempio di come dovrebbe essere un combattimento di kungfu appare nel videoclip ‘Kungfu combat’ che io ho messo sulla homepage del mio sito (http://xoomer.virgilio.it/sinicus) dove entrambi i ragazzi si scambiano , con uno stile tipico del mio kungfu, rapidamente e ferocemente una serie di colpi senza mai farsi male perché entrambi sanno proteggersi bene e dove non emerge mai, nemmeno nell’espressione dei visi, che resta tutto sommato sorridente, quella volontà feroce ed egoista di vincere a tutti i costi a spese dell’altro. Quello che dico sempre: non voglio creare degli spostati, quelli sempre pronti a scatenare la rissa, ma solo persone civili che sappiano anche difendersi ma che comprendano il valore della comunità, quella dove nessuno deve restare indietro e se uno resta indietro è una perdita per tutti. Inoltre l’aspetto giocoso deve essere sempre in prima linea. ‘Finché mi diverto faccio kungfu, quando smetto di divertirmi smetterò anche di insegnare’ disse una volta un maestro e io ho fatto mia questa frase. Una mia allieva di Taiji, Lorena, riconosceva l’altra sera –con mio grande piacere-che questo era in effetti il caso.
Questo che stiamo facendo, scrivendo e leggendo questo testo, è la meditazione di ‘metta’ o ‘gentilezza amorevole’ , ‘benevolenza’ . Questa meditazione deve portare all’abbattimento delle barriere, a considerare l’altro uguale a te stesso, a superare, VEDENDOLI, avversione ed egocentrismo. Ad essere consapevoli del più vasto TUTTO di cui siamo solo una parte. Cito da un libro: ”Il Buddha insegnò a essere generosi se si vuole essere ricchi e a provare compassione se si vuole vincere il nemico. Ammonì anche che per essere ricchi era necessario accontentarsi, e per annientare il nemico bisognava prima vincere la propria rabbia. Infine insegnò che la sofferenza può essere estirpata alle radici sopprimendo l’Io, perché, se non c’è l’Io, non c’è neanche chi soffre”.
lunedì 30 novembre 2009
IL KUNGFU, IL TAIJI ED ALTRO…
mercoledì 4 novembre 2009
IL TEMPO NON ESISTE?
“Prendo rifugio nella vacuità di tutti i fenomeni e di tutti i concetti..."
Ultimamente pratico spesso la meditazione di gentilezza o, se vogliamo, di ‘amicizia verso tutti gli esseri’. Giusto adesso mi è capitata sotto gli occhi questa frase del Dalai Lama: ‘Io tratto tutte le persone come mie amiche e stabilisco con loro una comunicazione cuore a cuore senza barriere’.
Ad ogni modo questa meditazione comincia, per me, augurandomi salute, felicità e liberazione, poi questo stesso augurio viene rivolto ai miei genitori defunti, alle persone care più vicine, agli amici, a tutte le persone che sono entrate in contatto con me nella mia vita, alle persone verso cui non provo nulla di particolare, a quelle verso cui provo punte di avversione, a TUTTE LE PERSONE e infine A TUTTI GLI ESSERI VIVENTI per poi allargarmi a tutti gli esseri dell’universo.
Da qualche tempo mi sono accorto che l’immagine visualizzata dei miei genitori, fino a poco tempo fa nitida ed emozionalmente coinvolgente, si è appannata, è divenuta meno nitida. Questo mi è dispiaciuto lì per lì, ho sempre provato verso di loro amore e grande riconoscenza per l’amore a mia volta ricevuto.
Ho percepito questo appannamento quasi come una sorta di ingratitudine da parte mia. Questo mi è successo anche oggi. Mi è venuta però questa considerazione: questo è ciò che c’è in questo momento. E’ naturale che, con il passare del tempo, l’immagine dei miei cari sbiadisca. Se in questo momento c’è questo sbiadimento,lo devo accettare, questa è la realtà.
Ma un’altra considerazione se vogliamo più curiosa si è fatta avanti: mi sembra quasi come se non fossero mai esistiti, ormai la loro esistenza ed anche la mia esistenza con loro mi sembra un sogno. Questo mi sono detto e, di conseguenza, a ruota, mi è venuto quest’altro pensiero: ‘Ma sono sicuro che essi siano davvero esistiti e che non siano davvero un sogno?’
Dico questo perché a volte mi è capitato di non essere certo di un determinato fatto e di essermi chiesto: ‘ Ma è davvero successo o me lo sono sognato?’. Vi è mai capitato?
C’è, ad esempio, una persona anziana che conosco che ha una mente che rimugina in continuazione – un fatto davvero non eccezionale, poiché anche la nostra mente è così. A questa persona capita, in seguito a questo suo continuo rimuginare, di costruire situazioni inesistenti, situazioni dove la tale altra persona, ad esempio, ha parlato male di lei. Ed è del tutto convinta che questo sia accaduto! E non è che questa persona anziana soffra di Alzheimer. E’ semplicemente una persona sveglia, intelligente, la cui mente però costruisce, costruisce, costruisce.
A me, evidentemente, succede il contrario, cioè la mia mente de-costruisce. Essendomi sottoposto a tanti anni di pratica mentale meditativa, mi vengo talvolta a chiedere: ma questo è reale?
Non fraintendetemi, il mio cervello è ancora a posto. Però, mi sono detto oggi, per quello che ne so, questi miei genitori e la vita vissuta con loro potrebbero essere tutta un’immaginazione. Sì, è vero, potrei indagare e ricostruire i fatti più o meno reali ma resta il fatto che, al momento, tutto questo mi appare come un’illusione. Allora mi sono detto: in effetti questo passato è qualcosa che noi tendiamo a cosizzare (la parola colta è ‘reificare’), a rendere cosa, sostanza, ma non c’è nulla del genere esistente. Ci sono, è vero, dei ricordi, ma sono semplicemente dati della mia mente. Vi chiedo: è qualcosa che io posso afferrare? No di certo. Posso afferrarlo con la mente e costruirvi sopra, ma non vi è garanzia di realtà.
Ricordate quel film, A Beautiful Mind, la storia di uno scienziato che ha anche ricevuto il premio Nobel non so per quale scoperta e che è sempre vissuto in due mondi paralleli e intersecantesi, quello cosiddetto ‘reale’ e un altro di fantasia, con personaggi fittizi di quest’ultimo che intervenivano pesantemente e talvolta con effetti devastanti sulla sua vita ‘reale’? Lo stesso vale per il nostro passato, è qualcosa che realmente non esiste e non sappiamo se realmente sia mai esistito. E il futuro? Noi viviamo sempre immaginando un futuro, ma possiamo afferrarlo? Possiamo toccarlo? E anche se potessimo farlo, potremmo mai avere la certezza di una sua realtà?
Quando avevo tredici anni mio padre, tornando dal mercato dove era andato a vendere le pesche, mi portò quello che a tuttora giudico un meraviglioso regalo, il primo romanzo che ho letto in vita mia, un romanzo di fantascienza della collana Urania, con i meravigliosi disegni di copertina di Jacono. Il suo titolo era Gli Uomini Ombra, di quell’autore immaginifico che era A. E. van Vogt. In questo romanzo, pieno di spunti interessantissimi che poi hanno condizionato la mia vita intellettuale successiva, tra l’altro si delineava una città del futuro che lottava accanitamente nelle linee temporali per ‘venire in esistenza’. Sì, era in effetti, solo una possibilità, quella che oggi chiameremmo ‘virtuale’. Devo dire che, nel romanzo, questa città non ebbe mai la sorte di venire in essere.
Quindi quel futuro che poteva essere non venne mai in esistenza. Non fu mai qualcosa che potesse essere afferrato. Si rivelò un’illusione.
Conclusione: il passato non esiste (non esiste più?), il futuro non esiste (non esiste ancora?), queste due pseudo-sostanze che ci sembrano avere una propria consistenza, sono solo degli ectoplasmi, dei fantasmi. Sono costruzioni del nostro mondo così intriso di mente. Questi due termini sono un esempio lampante di tutte quelle costruzioni mentali che ci sembrano così reali, come noi stessi (la nostra tendenza è quella di vederci come sostanze eterne, individui non soggetti al decadere e allo svanire), come l’anima e come quella magnifica costruzione che abbiamo chiamato Dio. Alle proteste che subito sorgeranno nella mente, posso solo rispondere: leggete qui sopra quanto scritto e fate da voi le vostre analogie.
Ha qualche senso pratico, tutto questo?
Sì, è quello della liberazione della mente (cetovimutti), la liberazione dai suoi fantasmi, il regno della libertà che è alla portata di tutti e che consiste semplicemente nell’essere liberi.
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CHIUNQUE E’ BENVENUTO
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