Pratichiamo la meditazione della gentilezza amorevole. Arrivati alla fine, dopo avere cioè irradiato in ogni direzione e verso tutti gli esseri, buoni e cattivi, riconoscendo in questi estremizzazioni delle nostre stesse tendenze ( e mettendo anche tra questi i “cattivoni” del momento, come Bin Laden, Al Zarkawi ma anche i vari George Bush e altri) , prende la parola Marc., una persona estremamente buona e piena di buon senso pratico e dice che non gli sembra di vedere cambiamenti nel mondo intorno a noi, che anzi sembra che le cose peggiorino sempre di più.
Questa affermazione viene fatta ogni tanto e da varie persone. In effetti è così o per lo meno sembra così. Certo se noi ci aspettassimo cambiamenti macroscopici, rimarremmo probabilmente delusi. Ma i cambiamenti dovuti alla gentilezza amorevole (mettaa, maitri ) non si rivelano in forme così apparenti. Si tratta piuttosto di cambiamenti poco visibili ma sottilmente occorrenti, di una trasformazione a macchia d’olio che avviene piano piano. E certamente essa è anche reversibile. Se non è associata alla consapevolezza e alla visione profonda, la gentilezza amorevole si disintegrerà al primo urto con la realtà. Ed è questa la grande lezione: la realtà è quello che è, noi possiamo in qualche misura modificarla ma in sostanza resta quello che è. Questo potrebbe apparire conme deludente ma in realtà è appunto una grande lezione di visione profonda.
La Gentilezza Amorevole è considerata una delle quattro “Sedi divine” o Brahmavihaara . Si ritiene che chi risiede costantemente in questa pratica meditativa abbia una rinascita come divinità. Secondo alcuni studiosi del Buddhismo antico- come Richard Gombrich e me stesso-
essa era, in realtà, una delle vie alla Liberazione. Poiché essa era una pratica effettuata anche da altre scuole venne svalutata come insufficiente, ma in realtà il Buddha ne parlava continuiamente, elogiandola, e facendo vedere come essa aveva dei culmini che nelle altre scuole non apparivano.
Se noi osserviamo la pratica della Gentilezza Amorevole, vediamo infatti che essa porta inevitabilmente ad ulteriori sviluppi e cioè verso le sue due consorelle, la Compassione e la Gioia altruistica e sfocia, in ultimo, nella pratica che trascende tutte tre e cioè in upekkhaa, l’equanimità . Perché dico questo? Perché noi pratichiamo ad es. la gentilezza amorevole verso certi soggetti ma vediamo poi che questi soggetti non cambiano. Che cosa facciamo? Ci arrbbiamo e smettiamo questa pratica? No, evidentemente. Il fatto è che la visione profonda e questa stessa osservazione del non-cambiamento o dello scarso cambiamento dei soggetti in questione, ci fanno vedere che le forze all’opera nel mondo sono quelle che sono e producono i risultati che producono. E questa è appunto la visione profonda. La visione profonda produce accettazione. L’accettazione è appunto l’equanimità. Che cos’è l’equanimità, parola abbastanza sconosciuta al nostro vocabolario? E’ appunto l’accettazione del destinno degli esseri, accettazione che non è indifferenza perché è proprio come la parte superiore (trascendente) di un tavolino a tre gambe: le tre gambe sono appunto la gentilezza amorevole, la compassione e la gioia altruistica. Se non vi fossero le tre gambe il sopra del tavolino potrebbe essere un semplice cerchio –non sarebbe più un tavolino. Allo stesso modo l’equanimità, senza le tre gambe di gentilezza, compassione e gioia non sarebbe più equanimità ma sarebbe indifferenza – e l’indifferenza può facilmente trasformarsi in qualcosa di peggiore.
Sia chiaro che l’equanimità è indifferenza, ma si tratta di un’indifferenza illuminata che ha come scenario alle sue spalle i colori della gentilezza ecc. . Di che tipo di indifferenza si tratta allora: è l’indifferenza illuminata dalla visione profonda: “ Benché io auguri a tutti gli esseri salute, felicità e liberazione, vedo bene che le forze all’opera sono tali per cui gli esseri vanno per la loro strada raccogliendo il frutto delle proprie azioni, essendo figli delle proprie azioni (questo è il karma). Perciò, se non voglio sviluppare ulteriore negatività in me e negli altri, devo accettare-con profonda compassione- che ciascuno vada per la sua strada e raccolga i propri frutti”.
Non a caso l’equanimità è il settimo e massimo/finale fattore del risveglio o illuminazione. L’equanimità è il Santo, il Liberato. Sfiora questo mondo e vi partecipa ma non ne è sostanzialmente toccato.
Uno dei maggiori crucci delle persone che praticano con convinzione è quello di non riuscire a coinvolgere i propri cari nella pratica. Un controllo sulla propria equanimità è proprio qui, nella misura in cui accettiamo, con distacco, senza sofferenza, che i nostri cari non condividano questa esperienza di liberazione dal dolore. Un altro controllo è se l’apparente assenza di risultati nella pratica ci porti delusione Si può praticare solo per praticare? Questo è un altro passo nella visione profonda: uno degli anelli della visione profonda è l’osservazione dell’afferramento, della funzione di afferrare. Non è già un grande passo avanti allora questo praticare senza nulla ottenere?
Tuttavia (a consolazione di noi afferratori) qualche cosa otteniamo dalla pratica: il cambiamento dello scenario della nostra vita, una vita migliore e più luminosa ed anche, impercettibilmente, il cambiamento, in meglio, delle persone a noi vicine. E questo è dovuto alla pratica della gentilezza amorevole e dell’equanimità insieme. Pensiamo al nostro posto di lavoro, alle nostre relazioni….
E tuttavia è debole l’appello all’amore come è fatto in certe tradizioni religiose se non è sostanziato dalla visione profonda. Solo la visione profonda può fornire gambe efficaci all’amore. In sua mancanza si tratta solo di un appello moralistico che cede facilmente il passo allo scontro, all’avversione e perfino alla guerra santa, piccola o grande che sia . Tutte le religioni che si combattono oggi parlano di amore…ed arrivano ad usare le armi per imporre il loro tipo di amore.
Tutti noi abbiamo nemici, persone che non ci hanno in simpatia o persone verso cui sentiamo una certa assenza di simpatia. Mettiamole al centro della nostra pratica pur senza aspettarci che cambino. E possiamo anche arrabbiarci, quando necessario (poiché viviamo nel mondo, con le sue regole e necessità) . Ma facciamolo spassionatamente (se solo questo ci appaia possibile) o comunque osserviamoci mentre ci arrabbiamo. Come un genitore o un maestro fanno verso i bambini. Io talvolta mi arrabbio con qualche bambino ma è una rabbia breve, di ruolo. Quello che l’altro deve sentire è che noi fondamentalmente siamo con lui, che noi ci riconosciamo in lui, che noi l’accogliamo con noi.
domenica 19 agosto 2007
La forza della gentilezza
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